Media Leopardi - Oriago
Luigino Maccario - 1984
A
P
I
M
P
I
R
I
N
É
L
A
© lavoro del 1984 - disposto
nel gennaio 2008 - L.M.
rivista:
23 marzo 2013
LE BATTUTE PREMIO
Non riuscendo
nell’impresa, il difensore concedeva al battitore la
possibilità di effettuare tre tiri consecutivi, che
avrebbero costituito il nuovo termine di patteggiamento,
ampliato a quanto il battitore fosse stato in grado di
conquistare, sempre che non fosse giunto al “ciélu”.
Nel corso dei tre balzi consecutivi, i difensori
avrebbero potuto fermare l’attrezzo al volo, riuscendo cosi
a neutralizzare, almeno in parte, il punteggio avversario, e
costringendo il battitore a continuare con le restanti
battute, riprendendo dal punto precedentemente conquistato.
Effettuate le tre battute, il conduttore
iniziava il patteggiamento, col difensore giunto
sull’attrezzo, cominciando ad annunciare: “Ne vögliu ……………”.
LA STIMA IMPOSTA
Era ovvio che il
difensore detentore, consultandosi con quanti altri avessero
interrotto i precedenti due voli, controbatteva in
diminuzione.
Cominciava il patteggiamento che il battitore avrebbe
potuto decisamente interrompere annunciando: ”Me l’acànu”,
volendo così dire d’essere tanto sicuro del risultato
acquisito, da volerlo misurare nella realtà.
Con quest’intervento il battitore rischiava di vedersi
addebitare il punteggio minimo, ultimo assegnatogli; se non
fosse riuscito a contare nella realtà le “cane” annunciate.
Come rischiava di doversi accontentare della stima da
lui stesso annunciata, anche quando, misurando, fosse
risultato un numero maggiore di “càne”.
Se i difensori interessati non avessero valutato,
a quel punto, la concessione dell’ultima stima avversaria,
si sarebbe passati alla misurazione.
Questa era un’operazione, abbastanza faticosa per
il battitore e piuttosto noiosa per i giocatori che non vi
fossero coinvolti direttamente, per cui sovente il: ”Me l’acànu”
poneva termine al patteggiamento.
LA MISURAZIONE
Se si fosse giunti ad
eseguirla, il battitore avrebbe dovuto poggiare un’estremità
della “càna”, sul punto dove era finita la “pimpirinéla”,
punto che veniva marcato a terra, a scanso d’equivoci.
Cominciando a rivoltare detto bastoncino e
poggiandone in successione i due terminali lungo
l’immaginaria linea retta che conduceva alla base, si
contavano, ad alta voce, i segmenti conseguenti, alla più
rapida misurazione possibile.
L’azione del battitore era sottoposta ad un
controllo capillare da parte dei difensori interessati, onde
evitare che questi potesse eccessivamente dilatare la
lunghezza dei segmenti, facendo magistralmente levitare la “càna”.
Se uno dei difensori avesse scoperto un minimo
d’inganno avrebbe annunciato: ”Strénzi”, costringendo così
il battitore a ridurre drasticamente la velocità di
misurazione.
IL CAMBIO DEL MISURATORE
Con l’annuncio: ”Strénzi”,
il difensore si poneva nella condizione di sentirsi
annunciare dal battitore: ”Acànateri tü”, e vedersi passare
il bastoncino per proseguire nella fatica, a sua volta
controllato dal battitore.
Era ovvio che a quel punto il battitore avrebbe
potuto intervenire ulteriormente, soltanto con l’annuncio: “Alàrga”,
valutandone le conseguenze; oppure riprendere a dilatarli,
annunciando: ”Acànu tùrna mi”
LA RIPRESA DEL GIOCO
Portato a termine
l’ultimo patteggiamento o la misurazione conseguente, il
battitore, fregiatosi del punteggio stabilito, riprendeva il
gioco da capo, salvo l’essere sostituito.
Al termine di un numero precedentemente
concordato di partite, dette “man”, oppure al lo scadere
d’un orario stabilito, avrebbe riportata la vittoria chi
avesse saputo incamerare il maggior numero di punti,
ovviamente avendo saputo conquistarsi il ruolo di battitore.
La versione descritta è quella praticata nell’ultimo
dopoguerra, ed è stata anche l‘ultima attivamente messa in
atto e tramandata. Altre versioni, a questa precedenti,
potrebbero presentare differenze anche sostanziali.
IL PERIODO STORICO
Questo gioco, altrove conosciuto col nome
di “lippa”, è stato, per almeno un secolo, fino agli anni
cinquanta, il gioco che più ha impegnato i ragazzotti
ventimigliesi.
Era praticato a livello di vero e proprio sport
di squadra, in ogni quartiere, inteso come oggi si intendono: il
calcio, la pallavolo, il basket, o il baseball, del quale, il
nostro, ha caratteristiche ancestrali ben radicate.
Nella città bassa, le strade, ancora sterrate,
trasversali all’Aurelia, ampie ed in quei tempi, sgombre di
veicoli in sosta, dove il traffico era costituito da tre o
quattro carri, dieci carretti, pochi cavalli o muli, entro
l’intera giornata, ed una o due automobili per tutto il mese,
erano l’ideale come campo di gara per qualsiasi gioco.
IL CAMPO E GLI ATTREZZI
Si praticava ovunque vi fosse uno spazio
relativamente ampio e possibilmente sgombro di vetrate, vetri od
altri oggetti fragili, posti a qualunque livello.
Di questo terreno si stabiliva soltanto il limite di fondo,
opposto alla base detta “a cima”, che prendeva il nome di “u
cièlu”, giungendo con l’attrezzo oltre questo limite si aveva
diritto ad un massimo di punti precedentemente pattuito.
Quali attrezzi per praticarlo erano sufficienti
un bastone del diametro di tre o quattro centimetri, lungo tra i
quaranta e cinquanta centimetri, inoltre un oggetto, ricavato da
un pezzetto del medesimo bastone, della lunghezza di circa
quindici centimetri, al quale si appuntivano le estremità, fino
a farlo somigliare ad un fuso, la “pimpirinéla”, appunto.
LA PREPARAZIONE
Un giocatore, il battitore,
conduttore del gioco, impiantava la sua partita contro gli
altri, che, pur giocando nell’autonomia della prestanza
personale, del coraggio o dell’abilità maturata, dovevano in
qualche modo aggregarsi, per controbattere le ampie possibilità
del battitore, difendendo il campo.
Il battitore, aggiustato l’attrezzo sul diametro
di un cerchio, tracciato a terra, che fungeva da base ed era
chiamato “a ca’ ”; domandava agli avversari, schierati di fronte
in ordine sparso, se concedevano la possibilità di battuta, con
il grido convenzionale di: “Pimpirinéla”.
Se uno soltanto degli avversari avesse risposto:
”brüta”, il battitore avrebbe dovuto riaggiustare l’attrezzo,
trasversalmente al campo di gara, ripetendo la domanda fino ad
ottenere da tutti i difensori la risposta: ”béla”.
LA BATTUTA
Allora, colpita una delle
punte dell’attrezzo, lo faceva sollevare per aria, quindi con
particolare tempismo avrebbe dovuto colpirlo al volo, spedendolo
il più lontano possibile, con la maggior energia concessa,
comunque ad un’altezza consona a mettere la “pimpirinéla” fuori
portata delle mani avversarie.
Infatti il compito più ambito dei giocatori,
sparsi per il campo, era quello di afferrare al volo l’attrezzo,
eliminando cose il battitore, togliendogli l’opportunità di
addebitargli qualsiasi punteggio, quindi sostituendolo
nell‘incarico, unico ruolo che permetteva di accreditarsi punti.
Compito altrettanto importante, d’ognuno dei
difensori, era quello di impossessarsi dell’attrezzo, anche dopo
che questi avesse toccato terra, per iniziare con il battitore
un confronto diretto, o attraverso un lancio calibrato, o
cimentandosi nella stima verbale delle unità di distanza dalla
base, sempre nell’ottica di sostituirsi al battitore.
IL PUNTEGGIO
L’unità ufficiale di distanza
consisteva nella lunghezza del bastone di battuta, che
nell’occasione veniva chiamato “càna” misurando in successione,
fatto che prendeva il nome di “acànu”.
Se il difensore detentore della raccolta,
giudicava la base irraggiungibile con un lancio, assegnava al
battitore la stima di punti-distanza che avrebbe concessi,
annunciando il numero, dopo la frase: ”Te ne dàgu …………”.
Il battitore poteva accettare il computo
avversario, rispondendo: ”M’î pìgliu”, oppure dissentire,
annunciando la propria valutazione, dopo la frase: ”Ne vögliu
…………”.
Allora il detentore aggiustava il computo,
mercanteggiando la differenza tra i due valori, fino ad ottenere
l’assenso del battitore, il quale si fregiava dei punti concessi
e riprendeva a battere.
IL LANCIO
Se il detentore,
raccolto l’aggeggio, giudicava effettuabile un lancio, a
vantaggio suo, come di tutti i difensori, avrebbe cercato di
annullare il risultato acquisito dal conduttore, annunciando la
sua volontà col grido:”Lanzu”, e costringendo così il battitore
a disporre il bastone lungo il diametro trasversale della base.
L‘ottimizzazione del lancio consisteva nel centrare fisicamente,
anche di rimbalzo, il bastone steso a terra nella base.
Riuscendo in quest’impresa, il difensore si
sarebbe aggiudicato l’ambito ruolo di battitore, annullando i
punti-distanza del conduttore precedente.
|