Conversazioni storiche geologiche e geografiche
          
 sulla città e sul distretto intemeliense
I N T E M E L I O
 

          Nel 1923, il canonico Nicolò Peitavino, esimio professore, bibliotecario all'Aprosiana dal 1937 al 1941, tracciò una "storia ventimigliese", esposta in serate, che portò a conclusione, aggiungendo a notizie già ampiamente trattate, appunti di vicende e costumi moderni altrimenti dimenticati. Nel 1965, aggiornò la sua fatica, che verrà pubblicata nel 1975.
         In questa pagina vengono riportate quelle note, di relativa attualità, che possano condurre il visitatore ai costumi dei primi Anni Sessanta, visti dall'occhio dell'anziano canonico, non troppo propenso all'eccessiva vitalità della gioventù d'allora. Restano comunque interessanti i riferimenti territoriali e quelli ai fatti.
          In epoca di femminismo rampante, lo sfogo conservatore del canonico giunge a diventare persino mesto, ma resta rilevante nel confronto fra generazioni, neppure troppo distanti nell'epoca.

      

        
Edificò per i viaggiatori una immensa stazione, stile novecento, con grandi sale, con vasti locali per tutti gli uffici, per le dogane e per il buffet. Fece i sottopassaggi ai binari per le tre linee principali. Allargò il ponte sul Roia; fece costruire la caserma Gallardi ; abbellì la via della Cornice fino al ponte San Luigi.
         
Ora vi parlerò del terreno dove sorge il Monumento ai caduti in guerra. Il fascismo cominciò a dare inizio ai lavori nel 1928. Vi posso assicurare che ci vollero dei mesi per colmare di terra quel vasto lenimento paludoso, quasi tre metri sotto il livello del mare. La pineta che ora vedete e che torma un parco delizioso, venne piantata verso la fine del 1920.
         
Il 4 novembre 1924, ricorrendo il sesto anniversario della vittoria venne posata la prima pietra del Monumento ai caduti della Grande Guerra; il 29 novembre 1925, venne inaugurato alla presenza della Regina madre. Il vescovo Daffra vi diede la benedizione aspergendolo con acqua lustrale. L’autore dell’opera, in bronzo e marmi, fu il comm. Pietro Canonica, insigne scultore.
         
Il Mercato dei fiori fu inaugurato l’8 ottobre 1922, essendo commissario prefettizio il signor Menichella. Il fascismo durò sino alla caduta estrema di Mussolini, che avvenne il 28 aprile 1945, quando era appena finita la seconda guerra mondiale.

 nota

         
Opere del Fascismo a Ventimiglia

        Il fascismo che nel 1928 fece edificare il palazzo scolastico, un bel fabbricato in stile rinascimento che, oltre alle aule scolastiche, ha nel mezzo un vasto salone ad uso teatro. Ora questo palazzo fu ingrandito d’un piano nel 1963.

        
Inoltre, nel 1933 fece costruire il palazzo della GIL, un edificio a un solo pianterreno, dove si aprono vasti saloni destinati alla ginnastica nei giorni piovosi. Esso ha sul davanti una veranda che guarda una larga spianata, dove i fanciulli e le fanciulle delle scuole medie si addestrano nella ginnastica prescritta dai regolamenti.

       
In terzo luogo fece edificare il magnifico palazzo del Littorio, un’opera grandiosa, degna d’una grande città. Nel mezzo del vasto edificio sorge una torre, alta trentadue metri, quale un segno indicatore. Questo palazzo è ora adibito a municipio.

         
Il fascismo ancora ampliò con nuovi binari la distesa della linea ferroviaria dal Vallone fino a Nervia, dove impiantò la stazione dei locomotori. Arricchì la stazione di nuovi capannoni per le merci; accrebbe verso nord di due binari la linea ferroviaria per i treni merci, costruendo una via carreggiabile, anzi una passeggiata deliziosa detta di San Secondo.      

         
       Si può dire poi che tutti i giorni si sentivano i segnali d’allarme. Non volendo però parlare di tutte, vi accennerò quella famosa tra tutte che avvenne nella notte fra il 21 e il 22 giugno 1944. Fu una notte d’inferno. Svegliato dal sonno, mi recai alla finestra e vidi un’infinità di luci rossastre, che rendevano un chiarore sinistro sulla città e nei dintorni. Io credevo di sognare, ma era pretta realtà. Mia sorella ed io ci vestimmo in fretta e ci recammo nel nostro giardino. Là giunti, trovammo già molti delle case vicine che ci aspettavano per entrare anch’essi nel nostro orto. Ci coricammo tutti nell’arena, all’aria aperta. Oh, imprudenza insana !  Se qualche bengala o qualche bomba fosse caduta, avrebbe fatto molte vittime. Credo che tutti avessero nel viso il medesimo colore che avevo io !  Eravamo pallidi come cadaveri. Udivamo di quando in quando lo scroscio delle bomba che, cadendo, facevano tremare l’arena su cui eravamo coricati. Ecco che il frastuono si fa più vicino, gli aerei ci rombano sul capo. Noi tutti, come bambini, invochiamo l’aiuto del cielo, invochiamo la Madonna, la nostra mamma Maria. Si ha un bel dire di non avere paura facendo lo stoico, ma davanti al brutto ceffo della morte tutti tremano e si umiliano. Già da mezz’ora ci trovavamo in quella posizione, credendo che il pericolo fosse scomparso. A disilluderci, ecco che arrivano altri stormi di bengala e poi di bombe, di cui alcune cadono talmente vicine a noi, che sentiamo il terreno quasi sprofondarsi ed alcune zolle di fango piombarci addosso.

        
Incursioni aeree

         
Si giunse così al 3 settembre 1943, in cui venne firmato un armistizio con gli Alleati, al quale però fu data pubblicità l’8 settembre. L’Italia non era ancora liberata. L’Arno formava la linea di divisione. Quindi l’Italia settentrionale era sotto l’incubo dei Tedeschi e sotto il governo della Repubblicano neofascista, soggetta ognora alle bombe aeree ed ai cannoneggiamenti degli Alleati.
         
Ventimiglia patì molte incursioni aeree. La prima avvenne il 10 dicembre 1943. Appena scoccate le 12,30 si ode il rombo degli aerei. Nessuno immaginava che questi fossero diretti sulla nostra città. Ecco che all’improvviso ci sono di sopra, sganciano le loro bombe micidiali sulla regione Nervina e, virando, scompaiono. In un attimo quella regione diviene un cimitero.
         
Le case sono crollate, s’innalzano mucchi di macerie, le vie scomparse. I miseri cittadini, sorpresi nelle case durante il pranzo, vi rimangono sepolti.
      
Le vittime accertate dal parroco don Libero furono settantaquattro e quasi il doppio i feriti. Scamparono per miracolo da morte sicura l’avv. Pietro Guglielmi e l’avv. Goffredo Maccario. Un’altra incursione avvenne subito dopo nella regione Gianchette. Non avendo gli aerei raggiunto l’obbiettivo di colpire i ponti, distrussero le case che si stendevano al di là del ponte sino al cimitero. Anche in questa incursione vi furono molte vittime e gravi danni.

      
       
Dicevo messa nella parrocchia di Sant’Agostino. A questo proposito, voglio raccontarvi l’incursione che mi sorprese mentre il 12 agosto celebravo la Messa. Vi dico subito che quella mattina fui a un pelo di essere schiacciato dalle macerie della chiesa.
       
Erano appena suonate le 7, quando mi trovavo all’altare. Avevo appena letto il Vangelo, allorché odo rombare gli aerei. Dissi fra me: “Avranno qualche brutta intenzione di sganciare bombe sulla chiesa ?”.
      
 Continuai la Messa. Dopo il Lavabo e l’Offertorio, odo gli apparecchi scendere in picchiata. Con molta calma proseguii. Ma ecco, ad un tratto, una bomba cadere sul muro di cinta della ferrovia, a tre metri dalla chiesa. Potete immaginare come rimasi in quell’istante.
       
 Tutta la chiesa si riempì talmente di polvere, da rendere impossibile la visibilità. Le poche donne presenti, fra cui tre suore cappuccine, si rifugiarono nell’atrio della chiesa. Io non attesi che si sganciassero altre bombe: preso il calice, mi avviai verso la sacristia.
      
 Ecco che dopo un minuto ne cadde un’altra sul piazzale della stazione. Mi spogliai adunque e me ne andai a casa. Da quel giorno la chiesa fu chiusa, sicché il 13 agosto, domenica, cominciai a celebrare la Messa nella galleria.

        
         
 Vi dico, miei cari, che un diluvio di fuoco ci sovrastava per incenerirci: I minuti passavano lenti, e gli apparecchi rombavano continuamente.
         
Il tutto durò quasi un paio d’ore. Finalmente, come Dio volle, ebbe termine la ferale e lunga incursione. Però, prima di muoverci, aspettammo un po’ per non aver sorprese ingrate. Quando tornò il silenzio e la notte era ancor buia, volli recarmi in città per vedere in parte i danni dei bombardamenti. Sulla via Chiappori vidi un monte di rovine. Per fortuna la mia casa era ancora in piedi, sebbene fosse molto danneggiata nell’interno. Perché vi tacciate un’idea dell’immane incursione, vi dirò quanto la radio inglese del giorno seguente annunciava: "Su Ventimiglia quattrocento aerei hanno sganciato seicento bombe di duecentocinquanta chilogrammi ciascuna".
         
Quella notte gli Inglesi supponevano che transitassero i Tedeschi che fuggivano dalla Francia. Quindi, da quella notte fatale, le famiglie non rimasero più in casa, ma al tramonto del sole si rifugiavano nelle gallerie o nelle caverne dei monti vicini. Anch’io con mia sorella ci avviavamo ogni sera nella campagna di San Martino e là prendevamo riposo in una rustica baracca. In seguito, vedendo che anche lassù scorrazzavano gli aeroplani e sganciavano bombe, deliberammo di rifugiarci la notte nella galleria, dove potevo almeno al mattino celebrare la Messa tranquillamente.

      
         
La notte del 24 aprile 1945 Ventimiglia venne liberata. Così il 25 aprile spuntò tutto roseo e pieno di liete speranze. Suonarono le campane a distesa, le finestre vennero imbandierate. La guerra finì ; ma se mettiamo a confronto i danni e le vittime della nostra Ventimiglia coi danni ingentissimi e le vittime innumerevoli di tutte le contrade dove passò ed infierì la bufera con maggior violenza, possiamo affermare che l’Europa era divenuta un immenso cimitero. Io sono d’avviso che soltanto l’Europa abbia avuto oltre cento milioni di morti.

     
 
       Feci trasportare dalla cappella di San Secondo la pietra sacra, tutta la biancheria e tutti gli indumenti sacerdotali dalla signora Filomena Verrando che n’era la depositarla.
      
 Quindi, preparato un tavolo adatto, vi collocai in mezzo la pietra sacra, vi distesi le tovaglie, vi posi un Crocifisso e due candelieri, e l’altare fu pronto. Raccomandai ad alcune pie donne di averne cura e di adornarlo con qualche fiore. Così il 13 agosto celebrai la Messa nella galleria e ne fui il cappellano, da quel giorno d'agosto alla metà di dicembre, in cui fu ordinato un altro sfollamento.
         
Le truppe tedesche che si ritiravano in fretta dalla Francia erano fatte ritornare ai confini dal duce dei Tedeschi e dal generale Graziani, per impedire con tutti i mezzi l’entrata degli Alleati. Così la lotta ricominciava più accanita. La maggior parte degli sfollati si stanziò in Bordighera e nei paesi circonvicini. Io decisi di recarmi nel Seminario, in cui rimasi fino al termine della guerra. Ma anche a Bordighera, se non erro, fioccavano le bombe e le cannonate dal mare e dalle fortezze della Francia; ma, rifugiati nei fondi dei palazzi, eravamo più sicuri e tranquilli.

          Questi sono i paesi della vallata del Bevera, dove si coltivano con profitto gli ulivi, le viti e i limoni. Ora però anche le rose e le violaciocche fanno bella pompa di sé nei mesi d’inverno e di primavera.
           Seguendo la via mulattiera da Sant’Antonio intorno al monte Magliocca si giunge in mezz’ora a San Lorenzo. Quante volte ho percorso questo sentiero con la pioggia, col vento, con la neve e col sole cocente ! Io partiva di buon’ora da Sant’Agostino tutte le mattine dei giorni festivi e, passando per Castel d’Appio, giungeva dopo un’ora a San Lorenzo. Quivi compieva le funzioni parrocchiali e poi m’avviavo frettoloso a Sant’Antonio per fare altrettanto.
          La mia fatica terminava generalmente a mezzogiorno, quando giungeva a Ventimiglia.

Succursale di San Pancrazio è Villatella, una terricciuola di 203 abitanti, arrampicata quasi a metà del monte Granmondo. È un paesello ridente, ricco d’acqua e d’aria; ma di difficile accesso, tanto per la via mulattiera di San Pancrazio, quanto da quella di Sant’Antonio. Ha pur esso un cimitero proprio e una Chiesa dedicata a Santa Teresa, eretta nel 1848 dall’infaticabile Can. Nicolò Noaro, prevosto della Cattedrale.
          Altra succursale di San Pancrazio è Sant’Antonio, che conta 109 abitanti. Posto sulla cresta d’un colle, ha una Chiesa molto antica, consacrata a Sant’Antonio abate e un cimitero proprio. Di questo paese fui cappellano ordinario due anni consecutivi, durante il periodo della guerra europea, e vi posso dire che gli abitanti di Sant’Antonio sono buoni, ospitali e generosi.

Torri

          A un Km. da San Pancrazio si stende sul declivio d’un monte la grossa Borgata di Torri. Il paese, che ha 553 abitanti, è quasi tutto sulla riva sinistra del torrente Bevera, che lo lambe ai piedi. Possiede una bella Chiesa di recente costruzione e una graziosa canonica. Non sono molti anni che Torri fu eretta in parrocchia ecclesiastica e nel 1922 anche in governativa.

Ne varria a scuotermi da così fatte
mortali sincopi thè, cioccolatte,
caffè, ne sicera, ma il vin di Latte,
rossese vecchio o un carratello
del più che nettare, buon moscatello,
che fa la gloria di Ventimiglia,
di quel che imbottasi o s’imbottiglia
dal buon tempone,
ch’è il mio mignone, dal mio Carlino,
o dal limitrofo suo buon cugino».

Coi fiori eterni eterno il frutto dura
          e mentre spunta l’uà l’altro matura.

Ma oltre alla vite, vi prosperano pure i mandorli i peschi, i fichi, gli aranci, i limoni e i mandarini e altri alberi fruttiferi, che vi danno frutti primaticci gustosissimi, sicché possiamo cantare col poeta:




         Prima di giungere al vallone di Latte si presentano allo sguardo sulla, via nazionale le Pubbliche Scuole Elementari, fatte erigere dal munifico Comm. T. Hanbury.
       
Un magnifico fabbricato di pietra intagliata sorge in un grazioso villino, ombreggiato da palme e da piante arrampicanti. Quivi oltre alle scuole vi è pure la dimora delle maestre.

    
Sulla sponda destra del vallone sorge il gerontocomio, ossia l’ospizio pei vecchi, istituito secondo l’ultima volontà del Com. Ernesto Chiappori, di cui vi ho già parlato. È un superbo caseggiato, in posizione amena, con tutti i comodi richiesti dall’igiene moderna. Sono qui raccolti, una trentina di vecchi d’ambo i sessi, di cui è direttore e cappellano il Can. Anfossi Cav. Filippo.
     
Giunti al vallone, la via si biforca, una conduce a Mortola, l’altra segue il torrente sino a Sant’Antonio.

           Celebrarono poi con magnifici versi il vino di Latte e Fulvio Frugoni genovese, e V. Fornara di Taggia nel suo ditirambo Sileno, in cui fra l’altro dice :














       
Questo Carlino fu il cognato dell’autore, cioè Carlo Notari e il cugino fu l’on. Giuseppe Biancheri, presidente della Camera dei Deputati, i quali possedevano deliziose ville e nel piano di Latte e a Murru Russu.
       
Fra le varie località, che producono i vini migliori vi è quella di Piemattone, il cui vino può stare sulle mense regali ; onde giustamente fu chiamato il Marsala ligure e per la sua generosità e per l’alcool che contiene.
       
Fu chiamato Latte, forse perché il vino bianco era così squisito che dava l’apparenza di latte. Tanto è vero che portato un giorno sulla mensa di Napoleone Bonaparte a Parigi, non solo fu lodato da tutti i commensali, ma dallo stesso imperatore, il quale volle intitolare una via di Parigi col nome della città, che produceva un vino sì eccellente e prelibato.

indi i monti ligustici e Riviera,
che con aranci e sempre verdi mirti
quasi avendo perpetua primavera
sparge per l’aria i bene olenti spirti.

Il Bertolotti ben ha ragione crede che l’Ariosto cantasse questi luoghi, quando descrive il viaggio della galea di Gano:







             Il paese è formato da gruppi di case, graziose ed eleganti, che corrono, come una bianca striscia, da levante a ponente. Sulla punta più avanzata sorge la Chiesa dedicata a San Mauro, eretta nel 1921 in parrocchia
     
Ha una maestosa facciata con le linee architettoniche ben conformate. L’interno di essa presenta un bel vaso, pieno d’aria e di luce, e, sebbene lo lo stile sia barocco, pure appaga l’occhio e concilia alla meditazione.
       
 Essa fu edificata nel 1808 sopra i ruderi d’una Chiesa più piccola, che risaliva al secolo decimo settimo. Anche il campanile s’innalza snello, dominante tutto il paese, non altrimenti un gigante sorpassa una moltitudine di pigmei.

             La chiesa, a breve distanza dalla via della Cornice, è dedicata a San Bartolomeo Apostolo. Sebbene sia stata eretta nel 1922 in parrocchia, pure è troppo piccola per la popolazione che va ogni giorno crescendo. Quindi si spera che il nuovo parroco saprà col tempo ingrandirla, come la necessità richiede.
       
La parrocchia di Latte, oltre la borgata San Bartolomeo e le varie ville del piano, comprende anche i casali di Carletti, Zanin, Sgorra e Casette. Seguendo ora il vallone, si arriva a un certo punto, in cui, per salire a Sealza, bisogna lasciare la via carrozzabile e prendere un sentiero ripido e alquanto malagevole ; perché Sealza sorge quasi sulla cima d’un colle aprico. Varii sono i gruppi di case che formano il paese, tutte eleganti nell’aspetto, sicché guardate da lontano vi sembrano villeggiature signorili. Il paese ha una Chiesa propria, un cimitero e scuole elementari.
       
Da Sealza discendendo giù sulla cresta del colle si giunge a La Mortola.

La Mortola

       
Il paesello fu così chiamato, perché anticamente in quei luoghi v’era un boschetto di mirti. Infatti nel nostro dialetto il mirto si chiama murta. E questo un paese, come Latte, benedetto da Dio per la sua posizione incantevole. Si trova sopra un poggio, che prospetta il mare.


       
L’ingresso della villa è sulla strada della Cornice, ai piedi del paese. Dinanzi al portone vi è la fontana cosi detta della Sirena, la quale scaturisce da un tronco d’olivo. Appena entrati, una serie di stradicciuole va intersecando con insensibile pendio tutto il giardino, conducendo al ricco ed elegante castello, che sorge nel centro sopra un dolce ripiano.

       
Esso ha l’aspetto medioevale; perché, sebbene sia stato ritoccato e ingrandito, risale al 1400. Furono i Lanteri, patrizi genovesi, i quali cedettero la villa alla famiglia Orengo nel 1620. Quivi soggiornò Nicolo Macchiavelli, quando nel 1511 da Firenze si portò nel vicino principato di Monaco.

      
 All’entrata principale, sotto l’atrio, si ammira un bel mosaico, opera del Salviati di Venezia, rappresentante Marco Polo, il primo europeo esploratore della Cina. Sopra l’arco del porticato vi è questo motto:
                Inveni portum / spes et fortuna valete /
               
sat me lusistis / ludite nunc alios.
     
 Che vogliono dire: ho trovato il porto / addio, speranza e fortuna / assai mi avete ingannato / ora illudete altri.

      
Una targa in marmo, murata a ponente del castello, ricorda che il 25 Marzo 1882 la Regina Vittoria era quivi ospite gradita del Signor Tommaso Hanbury.

  
Villa Hanbury

      
Ora, giacché siamo a Mortola, meta di continui pellegrinaggi, sarebbe una mancanza grave per noi non visitare il giardino botanico cui il genio di Tomaso Hanbury ha saputo creare dal 1867 in poi, nella striscia di terreno che, per una superficie di quaranta ettari, s’insinua dolcemente nel mare. Non credo di andare errato asserendo che in Europa non v’è giardino botanico, il quale contenga più specie di piante indigene ed esotiche, che quello del Comm. Hanbury. Tanta è la dolcezza del clima, che vi prosperano in modo meraviglioso anche le piante tropicali. Quivi regna il silenzio e la solitudine; quivi la bellezza e la varietà appaga l’occhio.
        
Attratti dalla fama più che Europea convengono quasi ogni giorno, principalmente d’inverno, numerosi visitatori dalla Francia, dall’Inghilterra, dalla Germania, dalla Russia, dalla Norvegia e anche dagli Stati uniti d’America.
 
Fuori del tempo delle visite, che sono però ad ore fisse e in giorni stabiliti, vi domina sovrana la tranquillità e la pace. Solo s’ode il gorgoglio d’un rigagnolo, lo stormir delle foglie e il risucchio del mare vicino che ora flagella or lambisce gli scogli del lido. Tanta è la frequenza dei visitatori e la fama del giardino, che ogni anno si distribuiscono e si spediscono in media dodici mila pacchetti di semi di piante diverse.

Al di sopra del pergolato v’è una grotta di capillari e una ricca collezione di agave e di aloe. Alquanto sopra si apre un’aiuola circondata da canne d’India, che mette capo a una fontana, nel cui centro si mostra un bronzo giapponese, tutto attorniato e quasi coperto dai famosi papiri di Cipro.
      
 Indi vi sono macchie di cipressi, fra cui si vede una parte dell’antica Via Aurelia. Il giardino botanico Hanbury conta più di 5500 specie e sottospecie di piante coltivate a cielo scoperto e tutte classificate con appositi cartellini.
    
 Lo studioso può trovare pascolo alle sue ricerche scientifiche, non solo nell’orto, ma anche nel Museo botanico, che sorge a un centinaio di metri dal palazzo.
       
Quivi esiste una vera biblioteca botanica, formata dalle collezioni di numerosi erbarii. Nel piano sottostante si ammirano molti oggetti di antichità e iscrizioni romane, ritrovate negli scavi di Nervia.
    
 Tra le epigrafi, ricorderò una rara iscrizione metrica intemeliese, la quale forse è l’unica del genere che si conservi in Liguria, oggetto di costante attenzione dei cultori di storia cittadina, i proff. Vieri Bongi e Nicola Orengo.               

L’epigrafe d’un latino classico e puro, dice :

DOMUM HANC / IN USUM RUSTICATIONIS / A VIOLANTE VIRG. DEO DEVOTA / EX NOBILI LANTERIORUM GENERE / NOVISSIMA / M.CO IOAN.-BAPT. ORENGO VINTIMIL. / ANN. MDCXX / VENUNDATAM / VETUSTATE FATISCENTEM / THOMAS HANBURIUS / SPLENDIDIORE CULTU / RESTITUIT ATQUE DECORAVIT / MDCCCLXVII.

      
Tradotta in italiano suona così: Questa casa per uso di villeggiatura, venduta da Violante, vergine consacrata a dio, ultimo rampollo della nobile famiglia dei Lanteri al m.co Giov. Batt. Orengo ventim., nel 1620; rovinando per l’antichità da Tomaso Hanbury, con lusso più splendido, fu riedificata ed ornata nel 1867.
      
Dalle terrazze, che sono a mezzo giorno, si gode una magnifica vista ; li vicino si trovano gruppi superbi di piante orasse; nella vasca si scorgono i curiosi pesci cinesi, specie interessante & veramente straordinaria.
         Al ritorno, presso la campana giapponese, i visitatori si trovano all’entrata della Pergola, dove si legge il motto di Marziale: Rara iuvant primis, sic maior gratia pomis. Hiberniae pretium sic meruere rosæ. Piacciono le primizie perché son rare, così hanno maggior favore i pomi, così sono stimate le rose invernali.

VIXIT AN. XIX
Jam puer infelix terrARUM CRIMINA FUNCTUS
Hac iacet in urna; fratER. ENIM. STATUIT
Funere perpetuum FRATER. DOLITURUS INAEUM (sic)
Tam caro cineri MUNERA DICNA DARE
Carmine nulla, tamen MELIUS MONUMENTA DEDISSET,
Quod tituli trisTI FUNCITUR OFFICIO
Ut semper tibi cogNATI. VIVAX SIT. IMAGO
Diquem nunc diligant aTQUE COLANT. SUPERI

Passata la Mortola, dopo una svolta brusca e una ripida salita, si giunge in breve alla Croce, così detta, perché sul ciglione sorge una croce. Da questo punto comincia la via carreggiabile, che conduce quasi alla frazione di Mortola Superiore, detta volgarmente Ciotti.
     
è un paesello, dominato dal monte Belenda, in una posizione amena e pittoresca, il quale possiede una Chiesa dedicata a N. S. d’Ariverti ed è ricordata da antiche carte. Tanto il cimitero, come le scuole elementari sono in comune con Mortola inferiore.
     
Queste che sorgono in un giardino, presso la Croce, in luogo incantevole, furono istituite dal munifico  Comm. Hanbury.
    
Dal ciglione della Croce si vede la frazione Grimaldi, quasi nascosta dal verde cupo degli ulivi. È l’ultima borgata di Ventimiglia e la più vicina alla Francia. Fu chiamata Grimaldi, perché quel luogo fu un tempo una tenuta della famiglia genovese Grimaldi, signora di Monaco. Infatti nel 1351 Carlo Grimaldi, signore di Monaco, acquistava questo vasto tenimento dalla famiglia Saonese.
       
Cresciuti poi i coloni, si formò un casale, indi a poco a poco una borgata. Graziosa è la Chiesa del secolo XVIII, dedicata a San Luigi.

È una lastra di marmo, rotta in tre pezzi, che riuniti insieme misurano cm. 26 X 23 e ci conservano la metà di un titolo funerario. Manca la parte superiore, ove era inciso il nome del defunto.   Questa è la ricostruzione in versi che il prof. Bongi ha tentato:













        Io ne feci la traduzione metrica italiana in questi termini.
      
Visse diciannove anni / già fanciullo infelice, pagato a la terra il tributo / in quest’urna riposa; che risolse il fratello / con lagrime perenni di pianger la morte immatura / e a cenere si cara rendere degni onori. / Meglio di questo carme nessun monumento avria dato, / che del titolo compie il doloroso officio, / perché a lui del congiunto l’imago sia ognora vivace, / cui gli dei de l’olimpo nutrono grande affetto.

     
Ponte San Luigi

     
Lungo la via della Cornice, distante dalla Dogana italiana un centinaio di metri, si ammira l’ardimentoso ponte San Luigi, che pende sull’abisso a 80 m. d’altezza e fu costruito a un arco solo nella prima metà del secolo, passato.
      
Il torrentello, che discende dal monte Belenda, si è scavato un letto nella viva roccia e durante le piogge autunnali o primaverili balza rumoroso e spumeggiante diviso in mille cascatelle, nel Vallone di Tantan.

 Ora, lungo la via della Cornice, al di sotto di Grimaldi, si sono già eretti numerosi fabbricati, graziose e ricche ville. Sullo scoglio, che torreggia sulle caverne dei Balzi Rossi, sta la Caserma della Dogana italiana.
       
In questi giorni è terminata la colossale costruzione in cemento armato della torre per l’ascensore, che dal Musæum præhistoricum dei Balzi Rossi salirà alla Dogana italiana e principalmente al grandioso Albergo Miramare del signor Alberto Abbo. Si dice che questo ascensore sia il più alto d’Europa.
      
 La torre fu incominciata il 1° Settembre del 1922 e misura m. 87,50 d’altezza. Sulla cima della torre vi sarà un faro della potenza di 65000 candele, il quale rischiarerà tutto lo spazio di mare nell’ampiezza di centinaia di Km.

    Le Scuole Elementari di via Vittorio Veneto, sorte su progetto approvato antecedentemente all'avvento del Regime, vennero inaugurate nel 1928, col titolo di "Casa del Balilla", da non confondere con la Palestra G.I.L., del 1933, sorta su progetto fascista, nella funzionale edilizia in stile "Modernista", proprio del Ventennio.

 

          



         
Molte signore portavano un cappello, più sovente una specie di cuffia. Da noi per lo più si usava una pezzuola di seta nera se la famiglia era ricca, di cotone se era povera.
           
Gli uomini portavano ancora i calzoni corti, calze bianche, scarpini neri. La sottoveste era bianca, la marsina di panno nero, generalmente terminata a coda di rondine; i solini ed i polsini erano inamidati e la cravatta bianca. Per lo più erano sbarbati, ma si lasciavano crescere i capelli che alle volte, intrecciati, formavano un codino. sul capo portavano un cappello a tuba oppure un berretto. I preti vestivano la sottana ed il pastrano, che discendeva dal collo ai piedi raramente andavano vestiti ira curtis. Sul capo portavano il tricorno, sulle scarpe basse brillavano le fibbie d’argento. Anche i militari avevano lasciato le vesti lussuose e pesanti.
         
Tali usi e costumi si mantennero quasi in tutta la prima metà del XIX secolo.

       


           L’igiene è molto migliorata. Ora vi sono i netturbini che spazzano le vie, le automobili che raccolgono le immondizie, sicché rare volte avvengono le malattie infettive, epidemiche.
       
Ora alle diligenze, ai barocci, ai trabiccoli, agli omnibus, ai calessi, sono sostituiti gli autocarri, le automobili, i fìlobus, i motocicli, gli aeroplani.
           
Anche la moda ha subito una metamorfosi manifesta. Non più i codini, le brache corte, i ferraioli, le calze grosse e stoppose ; non più i vezzi di filigrana e di coralli, le cuffie di merletti e di trine ; non più gli spilloni, le gonfiature delle gonnelle col crinoline.
            
Ora la moda, con le sue strane ricercatezze, rivangando nel passato, ha voluto accoppiare col presente gli usi dei secoli trascorsi, non disdegnando di prendere dei modelli anche dai chiostri e dalla Chiesa.
           
Ne derivò quindi una miscela indecorosa che, congiunta alla rilassatezza dei costumi, non solo rende ridicole le signore e signorine, ma il più delle volte deturpa forme che sarebbero altrimenti graziose.
        Se voi per poco girate per le vie della città, potete facilmente farvene un’idea. Ecco là quelle signore bruno-vestite, che incedono gravi, come s’addice a matrone. La loro eleganza è severa e castigata e giustamente vanno censurando la moda leggera, frivola, indecente della signorina che in quel mentre passa loro accanto. Un’acrobata o una Naiade non andrebbero vestite diversamente.

             
Usi e costumi moderni

        Verso la fine del XIX secolo venne in luce la moda moderna. Il progresso materiale, che andava gradatamente trasformando le città, scombussolò gli usi e i costumi degli uomini e principalmente delle donne. Io, che ho vissuto una parte del secolo trascorso, posso dire che l’umanità veniva trascinata dietro il carro trionfale del progresso il quale, raccogliendo un po’ dappertutto il ciarpame di tante vecchie masserizie, le andava sostituendo con altrettante nuove ed eleganti.

          
Se i nostri nonni alzassero la testa dai loro sepolcri, non riconoscerebbero più ne la loro città natale e neppure la casa che fabbricarono. Sono discese nell’oblìo con la conocchia, con la lucernetta ad olio, coi cassettoni di noce o di rovere, anche le nere zolle di terra, le secchie di rame, le scodelle di legno e tutte le rozze suppellettili che adornavano le case dei nostri antenati.

          
Le povere capanne coperte di giunchi, le casipole ad un piano col pianerottolo all’esterno, sono scomparse, quasi abbattute dal forte terremoto del progresso. Sono state erette al lord posto ricche palazzine ed alti palazzi. Le strade si sono molto allargate ed asfaltate, cui rallegra il verde dei platani e delle palme.
           
Non più i lari plebei, dalle spregiate crete d’umor fracidi e rei, versano fonti indiscrete; non più vaganti latrine, con spalancate gole, lustrano ogni confine della città, che desta beve l’aura molesta.

      
          Non parlo di scuole elementari, che sono obbligatorie: ma perché tanto fervore nei genitori di mandare le loro figliuole alle scuole secondarie e classiche ?
          
Perché bramano che le loro figlie abbiano un posto onorifico nella società, un impiego lucroso nei vari uffici dello Stato, nelle ditte ed agenzie private. Non hanno anch’esse bisogno di mangiare, di bere e di vestirsi, come lo hanno gli uomini ?
          
Perché devono invadere gli impieghi degli uomini ?  Questo, a mio avviso, è un abuso che reca gravi danni alla società presente. La donna è fatta per la casa. Ella dev’essere la vestale del sacrario domestico, quindi la vorrei molto educata ma non troppo istruita perché, come diceva il Giusti, “la troppa dottrina e il poco ritegno nuocciono del pari alla donna. Le dottoresse peccano per calcolo o per vanagloria e non hanno di bianco che la sola camicia”. La donna non deve essere esposta troppo sovente al pubblico, se non vuoi perdere quel profumo soave che da lei deve emanare come da un giglio o gelsomino. L’unico ufficio a cui la donna potrebbe attendere con profitto sarebbe, a mio giudizio, quello della scuola elementare e anche media, perché la donna è più adatta dell’uomo a questo insegnamento puerile, in cui i fanciulli e le fanciulle, come devono attendere ad arricchire la mente di utili cognizioni, così molto più devono informare i teneri cuori a nobili ed alti sensi verso Dio, la famiglia e la patria. La donna, che ha più cuore, sa meglio infondere nelle vergini animucce quei sensi delicati che influirebbero assai nelle generazioni future.

      
         
 Osservate le gonnelle : sono talmente corte, che appena toccano le ginocchia ; osservate come il collo e una parte del petto siano slacciati dalle vesti, e le trine delle gonnelle siano così traforate che non copron dinanzi, ne di retro, più che le rose e i gigli un chiaro vetro.

           
L’estate e una gran parte dell’anno sono divenute, ora, per le donne, un fasto immondo. Non mi parve davvero costume onesto vedere molte donne passeggiare sul lido e perfino in città in mutandine, nude le braccia e le gambe, seminascose appena le poppe, tronfie di tal nudismo, e molte altre, già mature e brizzolate, infilzare i calzoni emulando con audacia ambiziosa il viril sesso. Questa non è moda, ma capriccio ; questa è vanità morbosa, anzi un incentivo di lassismo, che mostra chiaramente la volontà di esibirsi e adescare il viril sesso. Sì, oggi s’irride dell’onestà, volendo guazzare nel pantano della sensualità. Si vuole idolatrare questo misero frale in una trionfante apoteosi della materia. Anche nei rigidi giorni si vedono alle volte donne che, freddolose per natura, scaldano le loro nudità con gli sguardi infuocati degli ammiratori e degli amanti.

           
Tiriamo ora un velo sugli sport inverecondi dei danzanti nei veglioni, dove accorrono uomini e donne per inebriarsi di lussuria. Inoltre noi vediamo ogni mattina, avviata alle scuole, una moltitudine di fanciulle e di giovinette, con un fascio di libri sotto il braccio. Alcune frequentano le medie, le tecniche, altre il ginnasio ed il liceo.

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Usi e costumi del tempo napoleonico

          
Il secolo trascorso si era aperto con la meteora funesta di Napoleone, il quale di vittoria in vittoria sottometteva i vari popoli europei, avviandosi all’apogeo della gloria. Come i popoli vinti si umiliavano al vincitore e pendevano muti e pensierosi dal suo labbro; così anche le lettere e le arti erano mute, oppure miravano ad incensare l’astro prodigioso. Anche i costumi di quel tempo erano divenuti alquanto rigidi perché sentivano l’influsso della guerra.
          
Con la scomparsa dei titoli nobiliari, con l’assottigliamento delle fortune, anche la distinzione di classe era svanita. Tutti erano cittadini.
         
La moda stessa aveva subito grandi trasformazioni. Le donne portavano una gonnella semplice, raramente guarnita di frange, di trine e di merletti, la quale dal collo discendeva ai piedi, mentre una zona alle reni distingueva il petto dal resto del corpo. La toeletta era semplice: pochi riccioli pendevano sulla fronte e sulle tempio, del resto la massa dei capelli attillati era annodata al cocuzzolo e avvinta da un nastro.

           
Il Ventennio

         Benito Mussolini era un maestro di scuola elementare che, come Cola di Rienzo, era più un tribuno che uno statista. Egli era socialista, pubblicista, direttore del giornale Avanti! di Milano.

       
 Allo scoppio della guerra fu interventista e con tutto l’ardore si diede a diffondere questa idea tra il popolo con gli scritti e la parola. Fondò poi un giornale suo proprio intitolato Il Popolo, staccandosi affatto dal socialismo.

          
 Quindi fondò il fascismo il 28 marzo 1919, con l’intento di valorizzare la vittoria e di combattere ogni resistenza e di opporsi alle degenerazioni teoriche e pratiche della demagogia dei partiti estremi.

Il fascismo era un nuovo partito, così chiamato dai fasci del littorio che usavano i consoli romani. Con questo fascismo sorse la rivoluzione, che fece molte vittime tra i giovani dei partiti estremi, ed il 28 ottobre 1922 si fece la marcia su Roma.

Dopo la conquista del potere, Mussolini si mostrò contrario ad ogni demagogia; volle l’abolizione del campanilismo, la trasformazione del collegio elettorale ed accentrare nelle sue mani tutti i poteri, tutti gli interessi locali e provinciali.

         
Guerra Mondiale

       
Questa sera vi parlerò del più terribile malanno che avvenne in Italia ed anche a Ventimiglia, il quale fece d’un tratto interrompere tutti i lavori d’ingrandimento del sestiere di Sant’Agostino che, come vi ho detto, si avviava a grandi passi a diventare una grande e bella città.
        
Allo scoppio di questa guerra, che successe il 1° agosto 1914, un panico generale invase i cittadini. Mentre si attendevano di ora in ora notizie, gli animi si sollevarono quando seppero che l’Italia si manteneva neutrale. Fu dopo un anno che l’Italia dichiarò dapprima guerra all’Austria, poi alla Germania.
        
Il 23 maggio 1915, giorno di Pentecoste, l’Italia dichiarò guerra all’Austria. Si vide allora il commercio paralizzato, le officine furono chiuse, i lavori edilizi sospesi, le campagne deserte. Anche la carestia dei viveri cominciò a farsi sentire, sicché s’introdusse la tessera del pane. Essa durò quarantun mesi, cioè dal 23 maggio 1915 al 4 novembre 1918. Terminata la guerra, però, non finì tanto presto il lavorio della diplomazia nell’assegnare le parti ai vincitori. L’Italia, che aveva dato il contributo di seicentomila morti, nelle trattative veniva considerata quale cenerentola.
     
Questo fatto generò in tutta la Nazione un grande malcontento, sicché i partiti estremi baldanzosi alzarono la voce, eccitando il popolo contro i pescecani che durante la guerra si erano arricchiti, col provocare spesso disordini, tumulti e scioperi. Da tutti i benpensanti si desiderava allora che sorgesse un individuo capace di frenare il dilagare di tanta minacciosa fiumana.

 


         
La nostra gioventù, subito dopo la guerra, parve invasa dalla passione sfrenata del ballo, quasi volesse rifarsi del tempo in cui stava intanata nelle cantine o nelle gallerie. Ora continua a ballare nei pubblici bar, nei ritrovi e negli stabilimenti balneari, ed in tutte le ricorrenze delle feste nelle frazioni del Comune si santifica la testa col ballo. Sapete come Dante condanna i danzatori e le ballerine nel suo inferno ?  Egli canta che una bufera continua quegli spiriti immondi di qua, di là, di giù, di su li mena. Nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena.
         
Venendo poi a parlare della ricostruzione intellettuale, vi dirò che in questi lunghi anni di guerra poco o nulla si fece nella letteratura e nelle arti belle. Non parlo della tecnica, perché tra tutte le arti tenne il primo posto e progredisce ognora più.
         
La libertà sfrenata degenerò in licenza, che divenne per molti fomite di sensualismo pornografico. I giornaletti illustrati pullularono, come funghi velenosi !  Quante novelle oscene, quanti drammi veristi ed immorali con vignette sono esposti in vendita dai librai !  E adesso, nei cinema così frequentati, quanti film si mostrano incentivi di oscenità e delitti !
         
Si studia poco e si pretende di emergere. Si cura più l’educazione fisica che la morale ed intellettuale. Si cerca più il piacere che l’utile. Se non si pone freno a tutto questo, s’i corre verso una nuova barbarie.
         
Ora vi dirò ancora quando avvenne che l’Italia assunse il titolo di Repubblica. La proclamazione della Repubblica avvenne il 2 giugno 1946. In questa circostanza Ventimiglia diede la preferenza alla Repubblica con 4577 voti, contro 3191 voti dati alla Monarchia. Re Umberto II partì alla volta del Portogallo il 13 giugno. Fu eletto allora, quale primo presidente della Repubblica, l’on. De Nicola.


Dopo la Liberazione

         
Terminate le ostilità e concluso l’armistizio, in qualche modo si concluse la Pace.  A Ventimiglia le campagne erano devastate e da più anni incolte; la città quasi spopolata, invasa da immigrati meridionali, principalmente calabresi; le case in parte sinistrate, in parte distrutte; le derrate carissime e rare, la moneta deprezzata.
          Per fortuna, gli amministratori
si fecero premura di restaurare le case danneggiate e di costruirne delle nuove, così fecero i Ventimigliesi dopo la terribile guerra. Lo stesso Governo prese l’iniziativa di erigere a proprie spese due magnifici palazzi per i senza-tetto nella città bassa e ne fece tre posteriormente, nei dintorni, di cui uno fu innalzato a Nervia, uno nella regione Gianchette, uno a Roverino. Inoltre pose mano a restaurare la chiesa di Cristo Re a Nervia, quella di Sant’Agostino e la Cattedrale. Non mancò di riparare i danni dell’antico ospedale Santo Spirito e dell’attiguo monastero delle suore Gianelline.
        
A sua volta, il Municipio pensò di far costruire la passerella: non più in ferro, ma in cemento armato, assai solida ed elegante. Fece pure riattivare ed asfaltare le principali vie della città, rifare i marciapiedi, ripulire le fogne, riattivare la conduttura dell’acqua potabile, estendendola a poco a poco anche alle campagne ed alle frazioni. Restaurò il grandioso mercato, ingrandendolo dalla parte occidentale.
         
Il flagello della guerra ha portato bensì un risveglio tecnico nelle scienze fisiche, ma un regresso nella moralità, nei costumi e negli usi, anzi direi un pervertimento. Anche nella nostra città regna il nudismo, trionfa il lassismo nelle donne,, vanità morbosa, che mostra una grande libertà di esibirsi o di adescare. Non si videro mai tante rapine, tanti suicidi ed omicidi.

 

San Lorenzo d’Appio  -  San Bernardo  -  Porta Canarda  -  Latte  -  La Mortola  -
                             
  Villa Hanbury  -  Ponte San Luigi

                 
           Ma più volte ebbe bisogno di essere ritoccata ; principalmente nel 1875, in cui fu ampliata e abbellita con una certa eleganza. Il terremoto del 1887 avendola nuovamente danneggiata, a spese degli abitanti e col concorso dei Ventimigliesi, fu nuovamente ristorata, come è al presente.
     
    Ora una via pittoresca carrozzabile, fra vigneti e oliveti la congiunge alla città. Lungo la via, e sopra e sotto, appaiono graziose palazzine per dimora estiva e autunnale. Molti degli annosi ulivi furono sradicati e al loro posto si piantarono le rose e le viti, che vi crescono rigogliose.
        
Discendendo da San Bernardo si arriva ai piedi del forte San Paolo, dove la via con dolci curve e insensibile pendio, ombreggiata da olmi annosi, conduce alla caserma Umberto 1°, la quale, fra non molto, sarà convertita in grandioso ospedale.
         
Volendo ora visitare il piano di Latte, prendiamo la via della Cornice. Eccoci tosto dinanzi alla Ridotta dell’Annunziata, un tempo magnifico convento di frati francescani. Da questo punto la via è piana, ma molto polverosa. Quindi per evitare le frequenti automobili, che innalzano nembi di malefica polvere, prendiamo la via più solitaria e poetica che conduce alla trazione Ville, dove ricchi floricoltori hanno le loro signorili dimore.

                 
San Lorenzo d’Appio

         
Ma veniamo alla frazione di San Lorenzo. Essa si compone di alcuni gruppi di case, di cui i principali sono i Calandri e San Lorenzo, propriamente detto, dove sorge la Chiesa, dedicata al martire San Lorenzo e dalla solerzia di D. Domenico Conio, curato della Cattedrale, consacrata a N.S. di Lourdes. È piccola, di mole, ma divota. L’altar maggiore in marmo fu consacrato da Mons. Ambrogio Daffra, il 16 Giugno del 1923. Gli abitanti sono dediti all’agricoltura. Il suolo fertile produce frutti eccellenti e magnifiche rose.
         
Salendo da San Lorenzo sulla cresta del colle si ha, alla destra il Castello d’Appio, a sinistra il monte Magliocca. Per un sentiero ripido e malagevole si discende in mezz’ora alla frazione di San Bernardo, che comprende i casali di Seglia e Boi. Ora si sta costruendo la via carrozzabile, che da San Bernardo salirà a Castel d’Appio e di li scenderà a San Lorenzo, per allacciare Sant’Antonio e il vallone di Latte.

San Bernardo

           La Chiesa di San Bernardo, che si alza sul pendio del colle, è molto antica, perché ne parla già un documénto del 1518. Nel 1573, volgendo m rovina, fu fatta ristorare dal vescovo Francesco Galbiati.

Lussureggiante serpe alta e germoglia
la torta vite, ov’è più l’orto aprico :
qui l’uva ha in fiori acerba e qui d’or bave
o di piropo e già di nettar grave.

        
         Fu chiamata Porta Canarda forse, dal nome francese Canard, per significare una porta falsa, la quale quasi attirasse al passaggio i nemici per sorprenderli e farne strage.
          
Dalla torretta si discende in pochi minuti sulla via nazionale, di cui le campagne all’intorno sono un sorriso e pare che la natura vi abbia profuso a piene mani i suoi doni divini.
          
Di rimpetto si ha il mare, di cui l’onda cerulea nei giorni sereni fiammeggia d’oro. I placidi poggi, le colline ridenti ed apriche, cinte da tante zone fiorite, vi danno l’immagine d’una terra fatata o d’un eden beato. Quivi prosperano mirabili, le rose, i garofani, le mimose e molti altri fiori delicati e belli.


Latte

          
Qua e là sorgono ricche palazzine, dove le palme, i cipressi, i pini e qualche olivo secolare formano macchie d’un verde delizioso. Per parlarvi anche della vite e del vino di Latte; mi servirò dei versi dei Tasso per descrivervi la magnificenza delle viti :






       


RELIQUIA MEDIOEVALE
SOPRA LA ROMANA STRADA
ORA SCOMPARSA
PERCHè RAMMENTI AL VIANDANTE
CHE QUI PASSARONO
PAPA INNOCENZO IV IL 9 MAGGIO 1251
NICOLO MACCHIAVELLI NEL MAGGIO 1511
CARLO V IMPERATORE NEL NOVEMBRE 1536
PAPA PAOLO III NEL LUGLIO 1538
NAPOLEONE BONAPARTE IL 2 MARZO 1796
MI VOLLE RISTORATA
IL COMMENDATORE TOMMASO HANBURY

MDCCCLXXX

                 
Porta Canarda

          
Ma ecco presentarsi allo sguardo una torre, detta Porta Canarda. Questa è una torre medioevale, che dava l’accesso alla città dalla parte d’occidente. Come si vede pur ora, essa è posta sull’antica via romana e segnò un tempo il confine estremo delle mura di cinta di Ventimiglia. Da questo si arguisce che la nostra città doveva avere nei secoli remoti un doppio ordine di mura per difesa; le esterne,che comprendevano le campagne vicine, è le interne che abbracciavano solo la città.
           
Su questa torre, fatta ristorare dal com. Thomas Hanbury, fu murata sul frontone occidentale la seguente epigrafe :












           Al disopra dell’iscrizione, si vede il gruppo in marmo di San Giorgio, patrono della Repubblica di Genova.

 

Martinassi  -  Siestro  -  Cimitero  -  Roverino  -  Bevera  -  San Pancrazio  -  Torri

                 

       E fu davvero sulla distesa di questo colle soleggiato, rivestito d’alberi d’ulivi, di viti, limoni e alberi da frutta, che vi erigevano le loro dimore estive, solitarie e chete i signori di Ventimiglia, i letterati dei secoli trascorsi.
        
Fu nella torre, di proprietà ora dell’avvocato Andrea Biancheri, che Paolo Agostino Aprosio, accademico apatista di Firenze, compose nel 1673 un trattatello morale intitolato: la strage dei vizi capitali.
       
Quivi pure nell’aprile del 1833 si nascose il fuggiasco Giovanni Ruffini di Taggia, l’autore del romanzo Lorenzo Benoni, pedinato dalla polizia sarda. Egli poté così sfuggire la morte e rifugiarsi in Francia, dove l’attendeva Mazzini.

Cimitero

          Discesi ai piedi del colle, la via nazionale ci conduce a Roverino. Lungo il percorso, in zona Gianchette, ci si presenta la necropoli della città, che, sebbene tetra, malinconica e triste, pure ci è sempre cara, perché è la dimora dei nostri parenti, amici defunti.
         Continuiamo la via, la prima borgata che s’incontra è Roverino.

                 
Martinassi

          
I Martinassi si trovano sul pendio del colle, nel vallone di San Secondo, in mezzo a una. convalle amena e solatia; più propriamente fra il rio della Pia e quello chiamato della Bagiotta. È un gruppo di case, addossate le une sulle altre, in cui abitano alcune famiglie di onesti e laboriosi contadini.
         
Un altro gruppo più in basso, ora quasi abbandonato, perché in posizione infelice, fu un tempo dimora dei miei bisavoli. Questi due gruppi di case: furono chiamate Martinassi, perché anticamente vi esisteva una chiesa dedicata a San Martino. Anche molti terreni in quelle adiacenze portano pur ora il  nome del santo vescovo Martino.
          
La principale coltura di questi terreni è quella dell’olivo e della vite. Si coltivano pure con profitto, principalmente nei luoghi aprici, le rose, le violaciocche e margherite.

Siestro

          
Dai Martinassi, attraversando il passo della Pia, si discende in Siestro, dove si ha una coltura quasi subtropicale. Siestro è la trasformazione di Sigestrum, di cui abbiamo in Liguria due città, una chiamata Sestri di Ponente e l’altra Sestri di Levante. Il nome Sigestrum, d’origine greca, deriva da sighe e da stronnumi, che uniti insieme significherebbero una distesa silenziosa.

                
Bevera

            Nella confluenza del torrente Bevera col Roia, sorge l’antico paese di Bevera, il quale, durante il breve periodo della Repubblica ligure, ebbe l’onore di chiamarsi Comune. Pare che una colonia di Iberi, nei tempi remotissimi, abbia fissata la sua dimora in quel luogo, dando il nome al torrente e al paese.
       
Infatti le case annerite dal tempo dimostrano chiaramente l’antichità del paesello. Bevera fu eretta in parrocchia indipendente il 13 dicembre del 1619 dal vescovo Nicolò Spinola. Essa, a 4 Km. da Ventimiglia, conta ora 245 abitanti e possiede un cimitero proprio, un oratorio, una pubblica fontana e un orologio.



San Pancrazio

        Seguendo il torrente Bevera, per una via carrozzabile, s’incontra a breve distanza il villaggio di San Pancrazio, formato dalle frazioni di Calvo e Brughé. Anche questo paese, che ora conta più di 440 abitanti, è parrocchia indipendente, essendo stata staccata dalla Cattedrale nel 1849. Possiede una bella Chiesa, ornata recentemente di pitture e provveduta di begli arredi sacri e di una canonica signorile.

                 
Roverino

           Il Rodolinum delle antiche carte, provveduta nel 1877 d’una chiesuola elegante, dedicata a N.S. di Loreto, di cui imita fedelmente la struttura. Le antiche case, i-aggruppate a ridosso del monte roccioso, si chiama appunto in dialetto Baussi, furono quasi da tutti abbandonate, per il pericolo che gli scogli sovrastanti, rovinando, non seppellissero i miseri abitanti.
          
Questo timore s’accrebbe principalmente dopoché nel 1888,a poche centinaia di metri dal paesello, franò con orrendo fracasso e rovinio una grossa parte del fianco del monte. Per buona fortuna non vi furono vittime umane, ma solo danni materiali.
         
Seguendo sempre la via a sinistra del Roia si giunge al Trucco, dove sorge una Chiesetta dedicata ai S.S. Apostoli Pietro e Paolo. Poco distante, sopra un poggetto, si trova Verrandi, anch’esso con Chiesa propria, consacrata a N.S. della Misericordia. Gli abitanti di queste borgate sono solerti agricoltori, che lavorano le loro campagne, da cui traggono vini eccellenti e olio finissimo.
          
A questo punto, attraversato il Roia e toccata l’altra riva, si presenta il villaggio di Varase, già antica grangia di Benedettini, i quali, a testimonio del loro soggiorno, vi lasciarono, un’antica cappella dedicata alla Natività di Maria.

 

 rivista il: 11 marzo 2013
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