I Castelïssi ricordano volentieri ai Bïxignöři la loro
mania di portare in processione, la già imponente statua di San
Giovanni eccessivamente sollevata. Lo faranno in segno di rilevanza
verso il santo, ma risulta un’operazione esagerata per la logistica
delle viuzze da percorrere; tipici “carrùgi” liguri
sormontati da volte e voltini ad altezze variabili.
La statua ritrae San Giovanni col braccio alzato, nell’atto di
battezzare il capo de Cristo, con l’acqua del Giordano, sicché la
mano è situata molto più in alto della santa testa ed è
difficilmente gestibile dai portatori, impediti dalla voluminosità
della “cassa”. (*)
Pare che sia stato un Castelïssu ad aver evitato
l’irreversibile rovina della santa mano, gridando ai portatori che
stavano per urtare una volta meno strategica delle altre:
Asbasciàiřu ch’u trìca.
Allora i Bïxignöři si consolano esternando la diceria che
aleggia sul battesimo dei Castelïssi. Pare che vengano
battezzati con l’acqua non proprio limpida del Lagu Pigu e sembra
che l’officiante sia il Diavolo in persona. Oppure li apostrofavano
con: “Castelïssi, schïra cùpe d’a malùra”, dove la cùpa
rappresenta il recipiente col quale vengono nutriti gli animali
nella stalla.
I Pignaschi definiscono i Castelïssi: ”Teste
astivàe”, col significato di “piene di fumo”. Nell’impresa di
affumicare le castagne, sui graticci, per seccarle, dentro gli
appositi casoni, chiamati “cae föghéne”, al momento di
entrarvi per rivoltarle, entro quei dati tempi, si impregnavano le
vesti di fumo, ma sopratutto la testa, tenuta evidentemente proprio
sopra i graticci, si riempiva di fumo: “astivanduse”.
Per i Pignaschi lo sfottò verso i Bïxignöři, loro sottoposti
fin dalla dominazione Sabauda, si limita ad un succinto “Batò”,
legato sempre alla gigantesca statua di San Giovanni. A
loro i Bïxignöři ribattono: “’Sa matìn chi, ghe sei passài
derêr ař campařìn ?”, che era come dire che loro le sparano
grosse e non sanno quello che dicono, giacché è impossibile passare
dietro il campanile pignasco, come invece loro hanno,
imprudentemente, storicamente affermato.
Allora i Pignàschi rincarano la dose: “Bïxignöři, arrubàta
Véschëvi”, riferendosi all’episodio capitato ad Antò deř
Pairetuné. Quando i vescovi andavano a visitare Buggio, potevano
servirsi dell’Onibu, soltanto fino a Pigna; poi era compito
dei Bïxignöři organizzare il trasferimento finale con una
bestia da basto, opportunamente attrezzata.
Il vescovo montava in “sella” e la comitiva si avviava lungo la
Rivaira, recitando il Rosario. Quella volta erano giunti al terzo
mistero doloroso, quando la bestia, scivolando sul lastricato di un
guado, ha dato uno scarto improvviso. Il vescovo poco pratico di
cavalcare i basti da soma, è finito disteso sul selciato.
Ma, non è finita, a questa provocazione, i Bïxignöři tengono
di riserva: “Pignaschéti gluriùsi, tésta giànca e chïe merdùsi”.
Au Bïjxe, i sciàca e prïxe cu’a machina da chïxe.
È lo sfottò meno gradito dai Bïxignöři, giacché propone di
notare la forma industriale usata in quell’attività, non proprio
esaltante.
Un furto di arance combinato al Prevosto di Isolabona, ha dato vita
agli sfottò verso i Lisurénchi. I due ladruncoli, accortisi
che due paesani li inseguivano, si sono andati a nascondere nel
cimitero, ma mentre superavano, affannati, la scaletta d’ingresso,
due arance gli sono cadute a terra.
Al momento, non se ne sono curati, infatti si spartivano la
refurtiva, valutando di aver seminato gli inseguitori, che invece
stavano perlustrando proprio la porta del cimitero. I due
ricordandosi delle arance cadute, che in dialetto risultano
“maschili”, dissero:”De cheli dui ch’ë sun in scià porta, se ne
pigliàmu ün per’ün”.
I due inseguitori, per evitare di dover fare a botte per poche
arance “sgraffignate” al Parroco, se la dettero a gambe, ma da quel
giorno i Lisurénchi vengono chiamati: “Pòpulu de l’ungia”.
Questo sfottò lo hanno sempre puntigliosamente rimarcato; come
quella volta che portarono in processione l’artistico ed imponente
crocifisso della Confraternita dei Bianchi, in un Raduno diocesano
indetto a San Giovanni dei Prati.
Stavano per giungere sulla spianata, straripante di popolazione
nervina, che ossequiava il vescovo, quando l’officiante che
accoglieva i fedeli in arrivo, presentandoli al pubblico si rivolse
verso di loro con la magnificante frase: “Oh, popolo che giungi
da lunge ... “
Il Priore dei Bianchi non ha neppure fatto terminare la frase, e
rivolgendosi al portatore del crocifisso intimava: “O Bedò, e
gira ‘su Cristu, che se n’andaighému ...”.
Negli anni Ottanta del Novecento, i Lisurénchi hanno scoperto
che il portico del loro Santuario intitolato alla Madonna delle
Grazie era stato rifatto sul modello di uno precedente,
Cinquecentesco, affrescato dal Canavesio, che propone un complicato
“Albero della Vita”, col ritratto del re David nell’atto di suonare
l’arpa.
Da questo complicato particolare hanno saputo trarre e sviluppare un
rinomato festival mondiale per quel prezioso e delicato strumento
musicale; invitando ogni anno, nel ristrutturato castello Doria, i
migliori talenti universali fra i suonatori d’arpa.
In vallata non hanno perso tempo a bollare questa loro importante
scelta, incominciando a definire i Lisurénchi: popolo
dell’arpa; giacché quello strumento si suona proprio con le
medesime unghie e col gesto che hanno caratterizzato il passato del
villaggio, ... semmai fissandoli ed esaltandoli.
Ad Apricale, il Bardacò: confratello che conduceva la processione,
guidando i movimenti del baldacchino, al sortire dal dedalo di
vicoli sulla piazza aperta, resosi conto della ridotta
partecipazione di fedeli, ha apostrofato i confratelli:"Fiòi, ven
d'andà rairi, perché ghe semu pochi".
F. Lacqua
Anche i Camporossini sono legati ad uno sfottò inerente al
battesimo, che recita: “Campurussìn de l’àrima pérsa, porta u
Cristu a la revérsa, batezai cun l’àiga de gé, che nisciün i pö ve’
”. A questo, poco gradito tema, i Camporossini rispondono:
“Portiřu ben, pòrtiřu ma’, tantu ti u devui sempre purtà”.
Camporosso non ne esce bene neppure dal confronto estetico, che
trova a vertice Dolceacqua: “Pigna a l’è béla, Duzàiga a l’è in
spřendûr, Campurùssu u l’è in cagavûr”. Questa eccellenza
territoriale i vicini di borgo la contemperano chiamando "baunéi"
i Duçaighin, per intendere che parlano sovente a sproposito.
A conclusione, sveliamo quello che gli abitanti di Val Nervia
recitano ai Ventimigliesi, già da qualche secolo, rivelato in questo
caso dai
Burdigòti: Ventemìglia, térra antiga, che de bòi nu’ ghe ne
trìga; tüti chéli ch’i ghe nàsce i sun fìgli de bagàsce; tüti cheli
ch’i ghe sun, i sun da manegu de bastùn.
(*) L’episodio ha poi assunto valore letterario nelle opere di
Francesco Biamonti; trasferito però in una improbabile Dolceacqua,
dove ha assunto, quale primario protagonista, il piccolo cherubino
che sovrasta una statua, estensione dello spoglio tronco d’alloro al
quale è legato San Sebastiano.
Dalle ricerche condotte da don Guido Pastor nell’idioma parlato a Buggio, si possono trarre interessantissimi aneddoti e sfottò tradizionali, della vita condotta dalle popolazioni della Val Nervia, storicamente vissuti tra divisioni prodotte da conquiste di Signori e di Stati, che hanno segnato i loro costumi e le tradizioni, in ogni epoca.
Avànti che e gente en la ciàssa
e nu’ sàce ciï lòche dìe,
u camparîn u fâ e ciïche.
A l’Ave Maria deréira
béla figlia retiréiřa,
chela ch’a nu’ se retìra
e màsche i a se piglia.
Anche tra Valli diverse, che erano collegate da funzionali mulattiere, non manca materiale per questa ricerca. Da buon Airörencu, Mauro Riceputi ci ha informato su una storiella che vede per protagonisti i pignaschi; non mancando di farci sapere come i pignaschi rendevano l'onore:
Airörenchi, taglia venchi
a
bancheta suta a scařa,
u
segliun sute u barcun
o,
che bela urassiun.
Tra nöira e madòřa,
tempésta e gragnöra.
Dalla nascita di una bimba frutto d'un amore, sbocciato da contatti intervallivi, i Airörenchi facendo il verso ai pignaschi, recitano: