GRISSE
Ovidio Bosio - 2009
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Già, tornare indietro. Quanto si darebbe per poter tornare indietro, e
ritrovare quella parte di noi che ai nostri occhi è la migliore.
Ogni tanto si ripescano i pezzi di qualità dei nostri ieri, legati ai
ricordi. Uno non vede l’ora di sprofondare di nuovo e per sempre
nell’adolescenza. Anche un pezzo di pane racconta qualcosa di tè, la tua
storia, un momento particolare, un si, un no, il passato ed il futuro, e
allora ... giochi al gioco del “c’era una volta”, che dopo una certa età
comincia a venir bene, proprio mentre i neuroni cominciano ad andare in
pensione, e ti lasci catturare dal potere evocativo delle cose umili e
semplici.
Il pane emette messaggi subliminali che rimandano agli odori e sapori
del tuo tempo. Il pane. Si andava a comprarlo nella solita panetteria,
la stessa che lo cuoceva, il più delle volte la più vicina a casa.
Allora quando entravi in un negozio per la prima volta venivi salutato
come un amico. Quando entravi per la seconda volta eri già un cliente
abituale e questo ti rendeva ancora più meritevole di rispetto e
cortesia. Gentilezza non fa rima con insicurezza, anzi. Si può essere
aggraziati e contemporaneamente autorevoli.
Questo accadeva in tempi remoti, addirittura nel secolo scorso, un’epoca
in cui c’era già la corrente elettrica, ma non si viveva di lusso
smargiasso.
Se poi andavi ad abitare in un’altra zona settimana dopo settimana si
creava con il panettiere quella consuetudine per cui quando il cliente
mette piede nel negozio si sa già che cosa vuole. «Il solito ?», «Il
solito, grazie».
E tra il solito c’erano le “grisse”. È ancora possibile trovare le
“grisse” ? Trovi il toscano, quello di Altamura, le tartarughe, il
coccodrillo, le bambole, le Lollobrigida, le manine, persino quello
aleuronico, quelli che danno energia al sistema metabolico favorendo la
funzionalità degli organi e la rigenerazione cellulare. Forme tonde
s’intrecciano a formare petali di un fiore. Alcuni promettono una
terapia nutrizionale anticellulite, contro l’eccesso di peso e i
cuscinetti a buccia d’arancia, preparati con metodologie alchemiche. Più
che in panetteria pare di essere in farmacia.
Ma le “grisse” ? Quelle vere ? Non buone, buonissime, anzi ottime, ben
cotte, croccanti fuori e morbide dentro, una vera delizia. Che c’era di
meglio di un “grissa” infarinata, ancora tiepida, imbottita di pomodoro,
profumata di basilico, aglio, ferügura, con l’olio che, sotto la
pressione delle dita, si liberava colandoti lungo le mani ? Un inno
alla natura.
Oggi cambiano le forme che, più che il palato, appagano la vista e la
forma delle bocche, comprese quelle dalle labbra piene di silicone. Tale
varietà di offerte scatena il desiderio delle donne dal palato difficile
inducendo i panificatori a sfrenare la loro creatività per conquistare
le clienti che non hanno più voglia di niente.
In tempo di guerra il pane integrale, marrone, scuro, a fette, acidulo,
che mangiavano le truppe tedesche, e che ogni tanto veniva regalato a
noi bambini da qualche soldato di buon cuore, non era poi molto gradito.
E sognavamo il pane bianco, un gusto ed un colore che portavano con sé
la certezza che hanno tutti gli alimenti principali per la
sopravvivenza: latte, farina, zucchero, sale, riso.
Oggi invece, malgrado quest’epoca fatta di crisi, capovolgimenti
economici, incertezze, si va a comperare il pane nero nei negozi
specializzati in prodotti biologici e dietetici, pagandolo come fosse
firmato da Bulgari o Cartier.
Un tempo ogni fornaio aveva la propria rivendita e il pane si
distingueva per caratteristiche e gusto. Oggi un numero limitato di
forni fornisce più negozi per cui, ovunque lo si acquisti, ha spesso lo
stesso sapore.
Certo una sana revisione ha i suoi lati positivi. In primis si
recuperano le vecchie abitudini ormai dimenticate, sorpassate già alla
fine del secolo da un consumismo sfrenato. E tuttavia un peccato che
ogni riferimento al classico tradizionale sia finito a gambe all’aria. E
a noi “cinici e distaccati fuggitivi” mancano gli odori ed i sapori di
un tempo. Manca il nostro pane quotidiano.
Articolo apparso sul numero 10 anno LXIV de LA VOCE INTEMELIA - ottobre 2009
PAN,
CUMPANÀIGU E
CUMPANEGASSE
Renzo Villa - 1991
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Qualche lettore vuol saperne di
più sulla questione del pane e del companatico, alla quale accennavo sul
numero di Aprile della «Voce», nell’articolo dedicato al ricordo
dei miei genitori. Con piacere possiamo ritornare sull’argomento, anche
perché in merito ci sono molte cose da dire, una vera e propria
«letteratura».
Cominciamo dal pane, nutrimento base nell’alimentazione
di un tempo, notoriamente povera, nella quale esso rappresentava già una
fortuna o una «grazia» quotidiana, come si ricorda addirittura nel
«Padrenostro». E, del resto, pensiamo che cosa significhi, anche ai
nostri giorni, il pane per le popolazioni affamate del terzo mondo.
Una volta, quando anche noi facevamo parte di questo
«continente della fame», qui si diceva: longu cume in giurnu ch’amanca
u pan, segno evidente che in casa non c’era altro con cui sfamarsi.
Significativo, in proposito, l’aneddoto che si racconta
della regina Maria Antonietta di Francia la quale, a chi le
diceva:«Maestà, il popolo non ha pane» rispondeva: «Che mangino delle
brioches !». Già ... le brioches !
Per la sua importanza vitale il pane entrava di
prepotenza nei linguaggio popolare: mete a pan, dare un lavoro a
qualcuno; agagnasse u pan, guadagnarsi da vivere (cfr. il
francese gagner son pain); perde u pan, perdere il posto
di lavoro; gagnapan, persona che mantiene la famiglia o anche
mestiere che permette di vivere, mentre il mangiapan a tradimentu
è il fannullone che si fa mantenere dagli altri. Si veda pure lo
spagnolo ganapan, persona che accetta qualunque lavoro, dal più
umile al più pesante, pur di sopravvivere.
Ancora qualche detto, per finire. U pan d’u patrun u
l’à séte cruste, il pane guadagnato alle dipendenze altrui è sempre
sudato, e u pan rutu u l’è ciü bon, una regola gastronomica
d’altri tempi secondo la quale il pane spezzato a tavola con le mani è
migliore di quello tagliato col coltello. Provare per credere ...
Passiamo ora al cumpanàigu il companatico,
parola di origine medievale che l’odierna civiltà dei consumi ha ormai
cancellato dal nostro lessico. Girolamo Rossi la riporta del suo
«Glossario» come «Companagium, prodotto dell’industria del latte,
lavorato dai pastori nelle loro celle», dal che si potrebbe dedurre che
il companatico per eccellenza fosse il formaggio.
Per il Casaccia, autore nell’Ottocento del
Dizionario genovese, il companaego sono tutte quelle cose che si
mangiano col pane, al contrario di quanto troviamo nel «Glossarium» del
Du Cange dove si riporta un’antica ed esclusiva definizione in lingua
italiana che suona così:«Companatico dicono, cioè ogni cosa da mangiare,
tòltone il pane».
E col cumpanàigu ecco subito pronto il
verbo cumpanegà /cumpanegasse, mangiare le vivande (pitanse,
in dialetto) con il pane, o il pane con le vivande, se si preferisce, ma
sempre facendo ben attenzione che i due tipi di cibo, durante il pasto,
vadano - diciamo così - di pari passo.
Come, per l’appunto, ben precisa Mistral nel «Tresor
dòu Felibrige», alla voce se coumpaneja «Manger sa pitanse
avec beaucoup de pain, pour la faire durer». Infatti, proprio qui
sta il punto: poiché il pane, bene o male, c’era ed era sempre più
abbondante (si fa per dire) delle altre vivande, bisognava cercare di
mangiare più pane che altro.
Non fare, cioè, come quella sposa piemontese che
al pranzo di nozze si voleva concedere il lusso (almeno quel giorno !)
di non mangiarne, beccandosi il rimbrotto della suocera: «Spusa mangi
‘d pan !» al che essa rispondeva spiritosamente; «Oh, l’è già
tròp bon parej !» (oh, grazie, il pranzo è già abbastanza buono
così, senza bisogno di pane !).
E qui da noi, ai bambini che disdegnavano il pane
si diceva sarcasticamente:«E za’, u nu’ ne mangia perché int’u pan gh’è
tropa farina !». Ma il concetto di cumpanegasse era così vivo
e sentito che il significato di questo verbo aveva travalicato i confini
alimentari per passare a regole di vita riguardanti la saggia
amministrazione delle proprie sostanze, in altre parole a rapportare
sempre le spese alle disponibilità economiche.
Ciò perché non capitasse come ad un certo proverbiale
Mestre Dansa, che u pan u gh’amanca e a vita a gh’avansa. Un
personaggio di cui ho sentito molto parlare nel mio ambito familiare e
che, economicamente parlando, aveva dato fondo non soltanto al
cumpanàigu ma altresì al pane e al quale, poveretto, era rimasta -
ultima disperata risorsa - soltanto la nuda vita.
Articolo apparso sul numero 6 anno XLVI de LA VOCE INTEMELIA - giugno 1991