Trasportare mattoni è sempre stato uno dei gravami insiti
nell'edilizia, allora, gli organizzatori di gare popolari hanno
pensato bene di trasferire il trasporto di mattoni, con l'aggravante
di farlo nel più breve tempo possibile.
Nel dopoguerra la
gara è stata piuttosto diffusa, sbiadendo ad ogni quinquennio, fino
ad arrivare alla sparizione, anche perché nell'edilizia, nel
frattempo erano stati introdotti gli elevatori elettrici.
Le foto qui a
fianco, danno documento ad una prova di mattoni avvenuta nell'estate
del 1961; una delle ultime.
Per il fatto che la Diocesi di Ventimiglia fosse stata suffraganea
dell'Arcidiocesi milanese fino al 1806, l'osservanza del Rito
Ambrosiano metteva in campo il protrarsi del periodo carnevalesco di
una settimana; infatti la domenica che seguiva il mercoledì delle
Ceneri romane, era chiamata "Rumpipignata" ed, in atmosfera
carnevalesca, si praticava il gioco popolare della "pentolaccia",
con la partecipazione dell'intera popolazione.
L'usanza era ancora
assai praticata prima dell'ultima guerra, ad essa partecipava
attivamente anche la componente femminile. Nel dopoguerra, la
consuetudine riprese con sempre meno intensità e minore
partecipazione popolare, diventando, negli Anni Sessanta, un
divertimento infantile.
I contenitori appesi
alla corda fluttuante, son sempre state capaci pignatte di
terracotta, che potevano contenere anche liquidi vari, oltre che a
segatura e leccornie. Nel dopoguerra, le pignatte vennero sostituite
con robusti sacchi cartacei, che oltre a costringere all'abbandono
dei liquidi, cambiavano anche la dinamica del momento di rottura,
reso meno efficace.
I giorni di festa popolare sono sempre stati dotati di occasioni aggregative che prevedevano momenti di competizione, partecipati attivamente dalla comunità. Gli "abai", coadiuvati da solide maestranze, organizzavano "festin", nei quali erano inseriti giochi di destrezza, ai quali partecipavano tutte le generazioni, adolescenti e uomini fatti, molto meno presenti le femmine.
L'albero
della cuccagna, eretto secondo la diffusa tradizione, è stato
presente in tutte le feste popolari dei centri abitati
dell'entroterra. l'altissimo tronco d'uno snello larice,
decorticato e reso liscio, veniva spalmato di grasso, ma in qualche
caso, la viscosità quasi insuperabile gli veniva procurata dal
contenuto delle foglie di agave, o di pianta grassa equivalente,
sfregando sul tronco le succose foglie.
Dopo vari
tentativi che l'abau lasciava eseguire ad elementi solitari, per far
divertire la folla, giacché quei tapini non avrebbero potuto
giungere mai alla soluzione; venivano ammessi i gruppi organizzati,
che provavano a risolvere l'arrampicata, formando una piramide
umana, quasi mai conclusiva.
Infine si
facevano avanti elementi atletici, attrezzati di sacca contenente
cenere, la quale veniva spalmata sul viscido soprastante, per
rendere attiva la presa delle gambe. A forza di tentativi abortiti,
il tronco perdeva molta viscosità, quindi infine qualcuno riusciva
nell'intento; ma il pubblico era stato certamente soddisfatto.
In un paese di
mare, non poteva mancare la variante del palo disposto
orizzontalmente sulla superficie marina, a qualche metro d'altezza,
che nella nostra città era ancorata alla Pria Margunaira. Disposta
com'è, fin'ora, al centro di un anfiteatro naturale di inusitata
bellezza, la Margunaira fungeva da sede insostituibile per i
passatempi popolari marini.
Tra le prove più conosciute, anche tra gli Intemeli, erano praticati: il tiro alla fune, prove di corsa con oggetti in equilibrio, corsa a coppie con una gamba legata a quella del socio, corsa a coppie con socio sulle mani, sostenuto per le gambe, e altre vaghezze, oltre alle prove che vengono sotto descritte.
Sul nostro territorio, le sagre del passato si chiamavano "festin"
ed erano momenti di aggregazione per il centro abitato che lo
indiceva, ma soprattutto erano l'occasione, di accomunamento con la
gente proveniente dai centri vicini. Sovente la componente giovanile
finiva la giornata a suon di botte, sia pure per motivi di gallismo,
dove però insistevano rivalità ataviche fra borghi.
Fino all'immediato
dopoguerra, era in questi festin che avevano svolgimento le
gare di abilità, ma negli Anni Cinquanta, questa componente è andata
diradandosi, fino a perdersi nel successivo decennio, nel quale si
facevano avanti invece le "sagre", che mettevano in luce un prodotto
alimentare tipico del posto, al quale ci si affidava per richiamare
i vicini ed i villeggianti, sempre più autonomi nei trasporti.
In queste
Sagre, a Ventimiglia si è confermata "a castagnola", il 26 agosto; a
Vallecrosia "a süca"
regna a metà ottobre, per Bordighera è "u pesciu" che frigge al
porto, a metà luglio. Sasso richiama con "a berlecata" all'inizio di
agosto, Seborga cuoce "a tripa" a fine luglio, mentre nello stesso
periodo, San Biagio della Cima fa andate "u cunigliu". Soldano
arrostisce "a saussissa" a fine settembre, invece, Perinaldo onora
la sua "articioca" nella seconda domenica di maggio; per Vallebona
sono "i gnochi" a trionfare ad inizio agosto.
Per
Camporosso "i barbagiuài" sono ormai una conferma nella terza
domenica di settembre; Dolceacqua celebra "e micheléte" il 15
d'agosto, come Isolabona fa per "e anghile" in giugno. Apricale con
"e pansaròle" della seconda domenica di settembre è stato uno dei
primi a lanciare la sagra. Rocchetta Nervina conferma "a crava
e faixöi"
in settembre, mentre Pigna offre "i
burei" ad ottobre, quando Buggio da visione alle sue "marune".
In
Val Roia, Airole propone "i beroudi" in maggio, quando Olivetta San
Michele magnifica "l'öřiu
de tagiasca"; Breil-sur-Roya mette in pista "e trüte",
Saorge "i burei" e Fontan "e anghile".
Saint-Dalmas-de-Tende cuoce "i
canestreli", intanto che La Brigue mette in vetrina "sugeli,
tume e amé", come fa Tende, con "tume e amé" intanto che
festeggia i suoi famosi "müřatei".
Menton
richiama il mondo intero con i çitron, ma cuoce stupendi "barbajuans"
con il riso, quando non pone nel paiolo una gigantesca zuppa per "i
bazaїs"; Monaco incanta con la "süpa
de pesciu" e non solo. Nel mentonese, Castellar, Castillon, Gorbio,
Sant'Agnes e Roquebrune sono pronti ad accogliere i visitatori con
ottimi prodotti locali. Sospello presenta un sorprendente "pan bagnà",
ottimo olio e funghi.
Fino agli Anni Sessanta, ogni sagra o
festa patronale, ogni "festìn" dunque, non mancava di avere
il suo ballo popolare; sovente all'aperto, ma molte volte allestito
sotto l'accogliente "ballo a palchetto", col suo tendone verde e la
pista, tonda, in masselli di legno, che venivano resi maggiormente
scivolosi con abbondanti dosi di borotalco.
Nell'apposito palco rialzato, prendeva
posto la "bandìna", un'orchestrina di quattro o cinque
elementi, che produceva un nutrito programma di ballabili, condito
con qualche brano alla moda. Dall'imbrunire, terminate le incombenze
religiose o le mansioni di fiera, l'orchestrina richiamava
l'attenzione verso le danze ed allora, le ragazze si disponevano, in
bella mostra, nelle vicinanze della pista, mentre i cavalieri (i
maschi in generale) si davano da fare per invitarle alle danze. Era
il momento nel quale entravano in campo gli incaricati del comitato
organizzatore, addetti a recuperare le spese.
Quando ancora la SIAE non aveva del tutto
guastato il comparto del divertimento popolare, con l'applicazione
asfissiante delle tasse sui biglietti obbligatori, i sistemi per
invitare i ballerini a versare un'offerta monetaria erano
essenzialmente due: accattivanti signorine, armate d'un elegante
cesto in vimini, avvicinavano i maschi, ballerini e non, applicando
al risvolto dell'abito, con uno spillo, un pezzetto o due di nastro
colorato, che funzionava quale ricevuta dell'immancabile obolo, che
erano conosciute come "gigiòle". Il colore, come la loro
combinazione, o la forma, dei pezzetti di nastro, cambiava di volta
in volta, affinché qualche maschio non facesse il furbo, esibendo la
gigiola della volta precedente.
L'altro sistema prevedeva
l'acquisto di un certo numero di "cartéle", sorta di
contromarche in cartoncino che venivano ritirate da attenti addetti,
all'entrata del ballo a palchetto. Dopo l'uso per qualche anno, che
rendeva le cartele una sorta di brandelli cartacei,
inverosimilmente unti, gli organizzatori le rinnovavano, con una
tornata di provvidenziale stampa.
L'uso delle cartele,
prevedeva l'impiego della corda, tesa fra due addetti a percorrere
tutta il palchetto, a spingere le coppie di ballerini che non
intendevano abbandonare la pista, mentre alcuni addetti
intervenivano sulla parte mediana della corda, facendole superare le
teste dei ballerini che, rimanendo sul posto, consegnavano però la
cartela, altrimenti: fuori dal palchetto, alla maniera del
parco buoi.
A cominciare dai primi anni del Novecento, si ha notizia della
presenza della "cattura della papera lasciata libera in mare", tra
le prove popolari nel corso dei festeggiamenti patronali di San
Secondo, il 26 d'agosto, in piena stagione balneare.
Nelle acque della Marina San Giuseppe, dal 1946, terminato
il devastante conflitto mondiale, la tradizione riprese assai
partecipata. Lo conferma la foto qui accanto, scattata nel 1947, che
ritrae la cattura della papera da parte di un nutrito equipaggio,
formato da baldi giovanotti, tutti appartenenti a stimate famiglie
locali.
L'usanza tenne banco fino agli Anni Settanta, anche se
gli anni di assenza arrivano a risultare parecchi. Dopo quel
periodo, ancora libero da controindicazioni, entrarono pesantemente
in scena gli animalisti, che suggerirono altri tipi di passatempi.
Oggi, per andare a caccia folclorica di papere, bisogna
fare come i canottieri lombardi della FIC, che si sono recati in
tournée in Cina, dove il divertimento è ancora concesso.