Sabato 28
febbraio scorso, alla Civica Biblioteca Internazionale di Bordighera, il
Prof. Stefano Verdino, dell'Università di Genova, ha presentato il suo libro
«La Poesia in Liguria», opera che fa parte di una collana di
antologie regionali edite dalla Forum/Quinta Generazione di Forlì.
Parlare di una «linea ligure» ella poesia odierna o fare riferimento a
gruppi e correnti è quanto mai difficile, per non dire impossibile, che gli
autori moderni e contemporanei, anche per via della particolare
conformazione geografica della regione, vivono appartati operando
isolatamente e in modo del tutto eterogeneo.
Ma,
in passato, principalmente nel periodo a cavallo fra l'Ottocento e il
Novecento, e successivamente negli Anni Trenta, la voce della Liguria si
fece sentire anche in campo nazionale.
E,
per leggere poeticamente la regione, basteranno alcuni nomi come quelli di
Novaro, Boine, Sbarbaro, Ceccardo Roccatagliata e così via fino a Caproni,
Barile e Montale.
Oppure, volendo restringere il campo al solo Ponente, basterà citare Angiolo
Silvio Novaro, Francesco Pastonchi, Antonio Rubino e Renzo Laurano, quest’ultimo
scomparso nel 1986.
Un
discorso a parte merita la poesia dialettale, rappresentata nel volume di
Verdino da un buon numero di autori con Edoardo Firpo in testa.
Compresi i contemporanei, i poeti dialettali e in lingua segnalati
dall’autore sono una settantina e, fra essi, alcune delle voci più
significative della provincia di Imperia: Abbo, Cassinelli, Conte, De
Giovanni, Vivaldi e il ventimigliese Andrea Capano, vincitore del "Premio
Firpo '86".
Per
l’occasione, era giunta a Bordighera, dalle varie parti della Liguria, una
qualificata rappresentanza di poeti che hanno letto al pubblico della
biblioteca i loro versi.
Generalmente in ritardo, la poesia regionale finisce per ricalcare modelli
superati cosicché il suo quadro non risulta quasi mai sovrapponibile a
quello nazionale.
Ma,
a volte, a momenti provinciali di retroguardia, si possono anche alternare
anticipazioni o comunque aperture verso novità ed esperienze di provenienza
nazionale e straniera.
Come
nel caso de «Il primo libro dei trittici» definito da Verdino uno
dei più coraggiosi testi del simbolismo italiano.
Pubblicato nel 1897 dalla tipografia Gibelli di Bordighera, esso contiene i
sonetti di tre autori «simbolisti»: Giribaldi, Molfettani e Alessandro
Varaldo che allora era agli inizi della sua carriera di scrittore, essendo
nato a Ventimiglia nel 1876.
Stefano
Verdino
LA POESIA IN LIGURIA
Forum/Quinta Generazione - Forlì 1986
da
LA VOCE INTEMELIA
anno XLI n. 3 - marzo 1987
Lucio Gambi,
insigne geografo italiano, scrive che l’uomo, generalmente, «in qualche
modo fa suo un ambiente, perché riconosce in esso delle vocazioni o
disposizioni o inclinazioni o inviti, cioè delle potenzialità a
fornirgli certe energie, certe produzioni».1
E - oso aggiungere io - un ambiente, a sua volta, tende a determinare,
nell’uomo che lo abita, delle connotazioni, delle peculiarità, delle
caratteristiche psicosomatiche, mentali, culturali.
A queste leggi
di natura non può ovviamente sottrarsi l’uomo ligure, circondato com’è
da un paesaggio morfologicamente tormentato e difficile da affrontare e
da vivere; accolto in un corpo stretto, oblungo e arcuato, digradante
verso il mare, nel quale - come dice Giuseppe Conte,2
poeta - sembra destinato a ineluttabilmente scivolare per scomparirvi.
Eppure, quest’ambiente - cioè questa striscia costiera, e con essa
l’uomo ligure - si mostra disperatamente aggrappato al suo forte
entroterra dove forse, o certamente, intravede l’estrema speranza di
salvezza.
Dunque la
Liguria ora va verso il mare, ora verso la terraferma; ora parte, ora si
ferma; ora esorta: «andamu», ora cede: «mi m’afermu chi», dando vita ad
un viaggio-dolore («viagiu-ciacrin») che sembra non aver mai
fine: «u viagiu-ciacrin mai ciü fenìu»3
di Andrea Capano. La realtà fisica, il paesaggio, ripeto, tormentati e
ostici, creano incertezza, la quale da luogo a stanchezza e angoscia
esistenziale, e, in particolare nel poeta, insinua sfiducia in se stesso
e fa sì che quasi tutta l’arte di lui ruoti incontrovertibilmente intorno
al tema della "negazione".
«Na !», «No !»,
grida infatti Capano all’inizio di una sua poesia;4
e in un’altra giunge a considerare se stesso un relitto: «sun in astracu».5
Anche Gabriele Cassini è soggetto ad una medesima disposizione d’animo e
confessa: «mi nu sun bon a vive, / mancu a vuglierme ben».6
Franco D’Imporzano, per non essere da meno, dice di se stesso: «a sun
ign’ànima persa».7
È logico che,
di fronte a queste auto-negazioni, sia il tempo che lo spazio finiscono
col mostrare i loro limiti, quasi una loro inutilità: il "quando" e,
soprattutto, il "dove" vengono privati del loro intrinseco o pratico
significato. Capano e Cassini, segnatamente, si avviano verso questo già
ricordato «viagiu-ciacrin» che non vuole, o non può, aver fine; ed
entrambi giungono ad ammettere di non sapersi muovere nello spazio, di
non sapere dove andare; Capano: «unde andamu nu u samu mancu nui»;8
Cassini: «und’andar a nu u sacciu mancu mi»;9
e se D’Imporzano mostra di conoscere un percorso, questo e certamente la
stessa mèta paiono vaghi se non cupi: «Serra u cadèrnu, smorsa u
lanternìn: / a andamu versu a nöte sensa sogni».10
E tuttavia,
quest’angoscia, questo dramma esistenziale non sfociano mai in tragedia,
ancorché poetica, letteraria. Negazione, infatti, non significa
necessariamente rifiuto ottuso e rancoroso, non approda fatalmente ad un
auto-annichilimento, ad un auto-annientamento. Paradossalmente questa
"negazione" si snoda attraverso una continua osservazione della realtà
circostante, non solo per censurare o rifiutare, ma spesso, addirittura,
per contemplare. Direi che, sebbene possa apparire assurdo,
contraddittorio, questa "negazione" è animata da smaniosa esigenza di
contemplazione, a volte angosciante esigenza di contemplazione. E se gli
uomini, secondo Capano, sono presi dalla vita come in un vortice che
ricorda quello della trottola («a sgavàuduřa»; «sgavauduřàndu andamu»;11
se la vita per Cassini «l’é u vive de a musca ente una teřagnà»,12
oppure «cuscì a ghe sun cařàu cume i ghe cařàu ente e lüme e purselete e
i muschigliui»;13
se, infine, D’Imporzano sostiene che «e couse tropu viste i ne sciaca /
cù in sensu greve de munutunia»;14
nondimeno, queste immagini di innegabile pessimismo non arrivano a
distruggere definitivamente il più intimo e sano senso che della vita
hanno i nostri tre poeti, e ciò consente loro la riscoperta di antiche
sensazioni e, per il tramite dei loro versi, provoca l’offerta di ben
altre immagini. Se illuminate dal sole o arricchite dal sogno, poco
importa: in esse può finalmente godersi una dolcezza affrancante,
chiara, distensiva, riposante, come in D’Imporzano con Vedri d’aiga
durse, o Nustalgia; in Cassini con Tei nevu, o «Sciti
sciurìi de aveglie e parpagliöre, / spurghe de mei e lune de rosoliu»
di A me ne vagu, o Mia maire; in Capano con Cansun d’i
tempi növi d’i ciuchi ch’i cioca e altre gioiose filastrocche e
bizzarri nonsense di Gh’eira in ciarrun pautrun.
Il criterio
introspettivo adottato in questa brevissima presentazione dei poeti e il
medesimo che ho cercato di adottare nel musicare i loro testi,
aggiungendo, per confermare la «dolcezza affrancante, chiara,
distensiva, riposante» di cui abbiamo più sopra detto, qualche tema
musicale sbarazzino, smaliziato, qualche ritmo sudamericano quale il
mambo o la bossanova, al fine di sdrammatizzare un po’ l’atmosfera di
alcuni testi.
Ascoltiamo,
dunque, alcuni suoni, tra parole e musica, di questo angolo di Liguria e
cerchiamo di colmare il nostro cuore pensando anche alle aspre ma in
fondo dolci e remissive vallate, alle umili e discrete riane;
penetrando, col cuore stretto d’emozione, i carrugi, dalle cui
«pietre, lento, umido, deciso, / guida silenziosa / al silenzioso
andare, / ci viene incontro il tempo».15
Accostiamoci
così alla nostra - anche mia, dunque, benché io sia calabrese - alla
nostra terra, restiamo a lei aggrappati fino a quando il cemento non
finirà per soffocarla, oppure, in un ultimo disperato tentativo di
autodifesa, la Liguria tutta, come avvertiva il poeta, non dovesse
decidere di scivolare in mare, inabissa.
1) Lucio GAMBI, Calabria, in «Le Regioni d’Italia»,
collana fondata da Roberto Almagià e diretta da Elio Migliorini, UTET,
Torino 1978, vol XVI, p. .
2) Giuseppe
CONTE,. . .,
3) Andrea
CAPANO, Teragnae (Ragnatele), Bordighera 1987, p. 15.
4) Andrea
CAPANO, A sgavàudura e u dagliu (La trottola e la falce fienaia),
Genoval986, p. 21.
5) Ibidem.
6) Poiché di
Gabriele Cassini non esistono raccolte poetiche, faccio sempre
riferimento a testi di sue canzoni: in questo caso, a «Mi nu sun bon a
vive».
7) Franco D’IMPORZANO,
Vedri d’aiga durse (Vetri d’acqua dolce), Ventimiglia 1999, p. 15.
8) CAPANO, A
sgavàudura..., cit, p. 17.
9) CASSINI, «A
me ne vagu».
10) D’IMPORZANO,
Vedri d’aiga durse, cit. p. 39.
11)
12)
13)
14)
15)
Articolo apparso su LA VOCE INTEMELIA - giugno 1984
MIRàNDU
PE' U
SUTìŘU