Per finire dedicherò qualche minuto ad illustrare sommariamente
alcune delle peculiarità del dialetto di Olivetta, formato su una
base ligure estremamente arcaica, con la sovrapposizione di un
lessico occitanico altrettanto arcaico, influenzato però dal
piemontese, per una sua provenienza attraverso il Piemonte o per
l’immigrazione dei piemontesi Gastaldi provenienti da Nizza.
Una delle più importanti caratteristiche della lingua parlata in
alcune località dell’antico dominio ligure italiano è quella della
trasformazione delle
a) S antevocaliche o finali in una h espirata. Questa
evoluzione è un fenomeno che ha interessato una delle più importanti
tribù liguri preromane, quella dei “Camuni”, oggi rappresentati dai
circa 800.000 abitanti di Bergamo e delle sue valli. Ed è conservata
inoltre in punti isolati come Olivetta, nei comuni della Val
Graveglia nella riviera di levante ed in un comune del Canton
Ticino. A Olivetta si dice: hàa “sale”, hàuha “frutto del gelso”,
hanhüga “sanguisuga”, heba “cipolla”, höriu “liscio”,
huh “brutto”,
hihàh “setaccio”, hest “testo per cuocere”, huisciàa “soffiare”. Fra
i miei informatori ho avuto, oltre quelli di Olivetta anche un
vecchio compagno di scuola di Libri, che mi ha permesso di capire
come è avvenuta questa trasformazione. A Libri il fenomeno si
presenta in una fase più antica, che corrisponde al suono sordo del
th inglese di thank “grazie”, mouth “bocca” o a quello sonoro (dh)
di that “questo”, with “con”, unificati poi nella h di Olivetta.
b) L’altra caratteristica non meno importante è quella della
“metafonesi”, che comporta la trasformazione della vocale tonica di
una parola quando termina, come nei plurali, con una i atona. Così
la è aperta di tènp “tempo”, vèrm “verme”, pènc “pettine” diventa
chiusa nel plurale ténpi, vèrmi, pénci. La è chiusa passa ad
i: bék
“becco degli uccelli”, désk “desco”, mé “mese” diventano al plurale
biki, diski, mihi. La o aperta passa ad
ö: korn “corno”, korb
“corvo”, got “bicchiere” diventano kórni, korbi,
goti. La u di furn
“forno”, lub “lupo”, rut “rotto” diventano fürni,
lübi, rüti.
c) Le e mute non hanno come in francese un “suono
indistinto”, ma sono totalmente mute e vengono perciò sostituite con
una i, vocale di appoggio: latino
HOMINE, francese homme, oliv. omi
singolare e plurale; francese sucre “zucchero” hücri; francese
poudre “polvere” purvi, francese âne “asino” anhi.
I plurali dei sostantivi derivati da basi latine in -RU,-RE, -LU,
-LE non si fa con una i, ma partendo dall’accusativo plurale della
parola. Così latino MULU: müu, ma il plurale si forma dal latino
plurale MULOS: müls: mü (ss): mü; fìi plurale fi “filo”; latino
DOLO: dòo plurale do “lutto”; màa plurale
ma “male”; barbés plurale
barbé “barbiere”.
Molte
altre sono le straordinarie caratteristiche del dialetto di
Olivetta, ma non voglio approfittare ulteriormente della vostra
pazienza e ricordare piuttosto gli informatori, che mi hanno
permesso lo studio del dialetto. Ricorderò per primo Giovanni
Gastaldi di Libri, a cui ho già accennato, morto tre giorni prima
della pubblicazione del volume, che aspettava con ansia, e
trovandomi in quei giorni a Roma, non ho potuto neanche rivederlo.
Fra gli informatori di Olivetta, hanno partecipato alle inchieste
Silvio Gastaldi. Alente Limon, Attilio Gastaldi e soprattutto
Valerio Gastaldi vulgo Felice, che ha continuato gli anni seguenti a
darmi la sua validissima collaborazione, a cui si è aggiunta
nell’ultimo anno quella di Ferdinando Iperti.
Il più antico documento sulla comunità della Penna ci racconta che era
stata donata da Guido Guerra, conte di Ventimiglia, al comune di Genova
nel 1157. Ritengo però che si tratti piuttosto di una vendita, suggerita
dal fatto che il comune di Ventimiglia si stava trasformando in
Repubblica Marinara ed aveva obbligato i Conti a giurare la Compagna
Comunale, privandoli del loro potere.
Il nome della Penna, in dialetto a Pena,
continua il latino PINNA, che ha preso il
significato di “cucuzzolo di montagna”, come nelle tre Penne della
Repubblica di San M’arino e nelle altre Penna italiane . L’antico
castello che i Conti avevano eretto alla Penna, come in tutte le altre
comunità della contea, era stato rafforzato dai genovesi e munito di una
guarnigione, costituendo il confine della Repubblica lungo la valle del
Roia, rimasta tale fino all’inglobamento del 1815 nel Regno di Sardegna
e cioè per ben 658 anni. Facevano parte della Comunità, oltre il
capoluogo, anche il Fanghetto e Libri ed in dipendenza diretta dalla
Penna, un numeroso gruppo di masserie.
Fra queste c’era il Migrané, nome
che deriva dal genovese antico Migranéu, cioè “zona piantata a
melograni” che trovandosi alla confluenza del rio Tron, col
torrente Bevera, è molto ricco di acqua ed avevano perciò costruito in
questa località un’ancrüsa: lat. INCLUSA,
cioè un bacino per fluitare durante le piene i tronchi d’albero verso
Ventimiglia; l’ancrüsa veniva chiamata anche puharée dal
verbo puhàa “spingere” cioè i tronchi fuori dal bacino. Nelle
vicinanze c’era il passaggio, attraverso un guado, della strada dello
Strafùrcu, nome del valico che, salendo per la valle del Bevera, serviva
a portare il sale da Nizza al Piemonte ed anche a comunicare con
Ventimiglia. La strada diretta che aveva fatto costruire il Comune di
Ventimiglia fino a Breglio dal 1448 al 1453, per servire la frazione di
Airole, creata in quegli anni, era stata resa intransitabile dai
genovesi, i quali temevano un’invasione dal Piemonte nei loro territori
ed era inoltre male accetta da Nizza, che temeva di perdere il
redditizio commercio del sale.
Le favorevoli caratteristiche del Migrané,
nel quale si erano spostate anche alcune famiglie della frazione Torre,
designavano questa località come quella più adatta per il futuro centro
comunale. Il nome della località passò poi da Migrané al Piřùn
con un “r palatale” derivato dalla L di Pilone sul latino
PILA col suff. -ONE diminutivo, che era una
“piccola edicola religiosa in onore di Sant’Antonio”, da cui deriva
ancora oggi il patronimico degli abitanti di Olivetta, i quali non si
chiamano olivettani o olivettini, ma aggiungendo al Piřùn il suffisso
dell’antico ligure -àscu, si chiamano pirunasc.
Assieme al Pirùn si è abbinato il nome di
Sant’Antoni, per l’esistente oratorio, trasformato più tardi in chiesa
parrocchiale. Ma soltanto nel 1701 appare per la prima volta, in latino,
il nome di OLIVETA, in occasione del matrimonio di
Federico Rej con Angela Limon, avvenuto “IN SACELLO
RURALI S. ANTONI UBI VULGUS DICITUR OLIVETA”, che è il plurale
del neutro OLIVETUM, col suff. latino -ETU,
e significa “gli oliveti”. Questo nome è stato però storpiato, come
spesso accade nella toponomastica ufficiale, sostituendo il suff. -ETU
col suff. dimi’nutivo -ETTU, facendo diventare il
nome del nostro paese Olivetta “piccola oliva”. Probabilmente gli stessi
incaricati d’italianizzare i nostri toponimi hanno trasformato anche il
nome della frazione di Fanghèto “località fangosa” in Fanghetto, nome
addirittura sprovvisto di senso comune. Ma anche la Penna è stata
vittima di questi signori, i quali, per non confondere la nostra Penna,
con le altre Penna italiane, non hanno trovato di meglio che di
trasformarla in Piena, piena forse soltanto della loro stupidità,
dimostrata perché hanno poi testardamente ignorato le due deliberazioni
del Consiglio Comunale del 1862 e 1863, che avevano proposto di
sostituire questa ignobile “Piena”, con “Penna sul Roia”.
La crescita dell’abitato del Piřùn, diventato Olivetta, è stata però
lenta e nel 1816 era ancora la più piccola masseria della comunità. Nel
1840, su una popolazione totale di 1280 ab. ce n’erano a Olivetta con
tutte le sue frazioni 540, al Fanghetto 200, alla Penna 240 ed a Libri
300. E soltanto nel 1881, data alla quale la comunità ha toccato il suo
massimo con 1588 ab. Olivetta con le sue frazioni aveva raggiunto i 749
ab., il Fanghetto 210, la Penna 265 e Libri 334. Dato questo forte
aumento della popolazione di Olivetta, nella seduta consigliare del 20
marzo 1889, si prospettò la convenienza di portare la sede del comune ad
Olivetta, che era collegata con una carrozzabile alla strada nazionale
o, meglio ancora, di portarla a San Michele, frazione di Olivetta, che
si trovava addirittura sulla strada nazionale, comunicante col
mandamento di Ventimiglia e con la Prefettura di Porto Maurizio. E così
fu fatto il 16 marzo del 1890 e ne festeggiamo oggi, 4 agosto 1990, il
centenario.
ZONA INTEMELIA
È certo che questo problema, sorto dopo la cessione della contea di
Nizza alla Francia, col trattato del 1860, è stato dibattuto
magistralmente da quel grande diplomatico che era Camillo Benso Conte di
Cavour, il quale, malgrado i plebisciti di Tenda e della Briga per
passare alla Francia assieme a Nizza, aveva ottenuto dall’Imperatore
Napoleone III che restassero in Italia. E così pure che ci restassero
Pigna e la Rocchetta, le quali dipendevano amministrativamente da Sospel
rimasto con Nizza. Ed aveva inoltre ottenuto di conservare le alte valli
della Tinea e della Vesubia, situate nell’entroterra nizzardo, dove
esisteva una riserva di caccia al camoscio del Re Vittorio Emanuele II,
probabilmente nella previsione d’i potersene servire in futuro, come
moneta di scambio, per avere una valle del Roia interamente italiana.
Occorre aggiungere che i nostri successivi governanti sono stati
assolutamente incapaci di continuarne la politica, all’infuori del
Presidente Biancheri, a cui dobbiamo la carrozzabile della val Roia, da
lui fatta costruire, malgrado l’opposizione di Nizza, fra il 1866 ed il
1877.
E per carità di patria non
riporto l’articolo che ho dovuto pubblicare sulla Voce Intemelia del 18
novembre 1950, intitolato “Olivetta figlia bastarda” per le angherie
fatte al nostro comune dal governo italiano.
Dopo il 25 aprile 1945, malgrado fosse stato istituito in Italia un Governo militare anglo-americano, il gen. De Gaulle aveva inviato a Ventimiglia e nell’alta val Roia il 29° Reggimento di Fanteria Coloniale Algerino e vari mèmbri dei Comités de rattachement a la Françe, che erano stati organizzati in Francia, fra persone originarie dei comuni intemeli italiani, molte delle quali avevano già la nazionalità francese. Da questi comitati furono tenuti in val Nervia e nell’alta val Roia plebisciti più o meno addomesticati, per avvalorare le richieste di annessione. A Ventimiglia era stata invece istituita una semplice amministrazione, presieduta da M. Romanetti, un ex dirigente locale dalle ferrovie francesi e lo stesso De Gaulle ha dichiarato più tardi di aver rinunciato all’annessione di Ventimiglia, non essendo d’accordo la popolazione.
In quel periodo avevo fondato nella zona l’«Unione Federalista Intemelia»
associata al «Movimento Federalista Europeo» italiano a cui faceva
riscontro un analogo movimento francese, ed anche alla «Federazione
delle genti alpine», comprendente una diecina di Associazioni sorte
nell’arco alpino compreso fra la Liguria Intemelia ed il Trentino, per
assicurare alle popolazioni autonomie particolari nel quadro regionale
italiano ed europeo. Per noi il problema particolare era quello di
affrontare le pretese annessionistiche di De Gaulle, che si erano estese
anche alla comunità della Penna, probabilmente per la richiesta di
qualche vecchio generale, in ritardo di parecchie guerre, che voleva
impadronirsi della Penna, fortilizio imprendibile della Repubblica di
Genova in val Roia, ed ho proposto perciò la creazione di una “Zona
Franca Intemelia” italo-francese, senza alterare l’appartenenza politica
dei singoli comuni partecipanti.
Il governo militare anglo-americano aveva
frattanto costretto le truppe francesi a ritirarsi dall’Italia ed aveva
nominato un capitano inglese a Governatore di Ventimiglia. Questo
governatore si era circondato di consiglieri comunisti, in quel tempo
contrari al progetto della Zona Franca, poi caldamente sostenuto dal
ministro comunista Scoccimarro, e ci aveva negata l’autorizzazione di
pubblicare un nostro periodico per propagandarla. Per controllare la
condotta di questo Governatore, che aveva sollevato in città, per vari
motivi, molte proteste, era stato mandato un colonnello americano, il
quale, senza avvertirlo, mi aveva autorizzato a pubblicare La Voce
Intemelia ed aveva poi fatto trasferire il Governatore a Genova, a
comandare una pattuglia di polizia militare, per rastrellare nelle ore
notturne i soldati ubriachi. L’ispirazione di proporre l’istituzione
della “Zona Franca Intemelia” mi era venuta dalla franchigia doganale
che Cavour aveva elargito ai comuni di Tenda e della Briga, creando un
eccezionale benessere nelle due località, di cui tutta la gente della
nostra zona era a conoscenza. Aderirono perciò in complesso 30 comuni,
19 dei quali italiani, Airole, Apricale, Baiardo, Bordighera, Camporosso,
Castelvittorio, Dolceacqua, Isolabona, La Briga, Olivetta, Perinaldo,
Pigna, Rocchetta Nervina, San Biagio, Seborga, Tenda, Vallebona,
Vallocrosia e Ventimiglia; ed i francesi: Breil, Castellar , Castillon ,
Fontan , Gorbie, Menton, Moulinet, Roquebrune, Sainte-Agnès, Saorge,
Sospel. Verso la fine dell’aprile 1946 una Commissione d’Inchiesta
Interalleata si era recata a Sospel per indagare poi in val Roia sui
sentimenti delle popolazioni italiane e francesi. Ed un appello a questa
commissione che avevo preparato per spiegare il progetto della Zona
Franca, pubblicato poi su La Voce Intemelia del 4 maggio 1946, è stato
consegnato alla Commissione, da un pirunasc Ettore Spisani, a quel tempo
consigliere comunale di Olivetta. La Commissione formata da un
americano, un inglese, un russo e un francese, non era la più adatta ad
indagare. Il francese era insieme giudice e parte in causa, il russo
poco favorevole ad un accordo franco-italiano.
Tuttavia la relazione della
Commissione aveva accertato che tutta la popolazione chiedeva la piena
libertà di circolazione lungo l’intera vallata e, quanto all’annessione
alla Francia, Tenda era contraria e Briga favorevole. Nel successivo
mese di maggio sono stato ricevuto a Milano, assieme al prof. Nino
Lamboglia, dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi.
Era stato l’on. Achille Pellizzari,
Rettore dell’Università di Genova, che si era interessato del problema
della val Roia e che mi aveva onorato della sua amicizia, a parlargli
del mio progetto di zona franca ed a fissare l’incontro. Al mese di
luglio mi ero recato in Svizzera per sposarmi, dato che fra le leggi del
ventennio ce n’era anche una che richiedeva una domanda, non ricordo se
in bollo o in carta libera, per ottenere il permesso di sposare una
straniera. Ed io, che ero senza tessera di partito ed avevo notoria fama
di oppositore, avevo ricevuto una comunicazione di rifiuto da parte del
Podestà di Ventimiglia ed avevo perciò dovuto rimandare il mio
matrimonio alla fine del regime. Dopo la cerimonia nuziale, stavamo
pensando alla scelta di una località alpina, fra le molte che offre la
Svizzera, per il viaggio di nozze, quando ho ricevuto notizia di un
telegramma da parte della Presidenza del Consiglio, che sarei stato
ricevuto a Roma il 19 luglio dal Presidente De Gasperi. Un viaggio
disastroso, le ferrovie italiane non funzionavano e si viaggiava in
autobus stracarichi e sgangherati. Ma in compenso un’accoglienza
veramente calorosa e cordiale da parte del Presidente, che ha voluto
sapere tutto dei danni e delle sofferenze della popolazione intemelia
durante il conflitto, dei tentativi dei Comités de rattachements,
dell’adesione dei comuni italiani e francesi alla mia proposta e poi
l’invito di trattenerci per collaborare, con i vari Ministeri, alla
preparazione del progetto ufficiale della Zona Franca.
Fra gli altri erano presenti al
Viminale per l’occasione gli on. Pellizzari, Paolo Rossi, Luigi Einaudi
e Novella ed il Ministro delle Finanze Scoccimarro, che si è informato
di molti particolari del progetto, assicurandoci che avrebbe messo in
moto al più presto le competenti Direzioni del suo Ministero.
Siamo rimasti una diecina di
giorni a Roma, caldo infernale, all’albergo l’impianto dell’aria
condizionata guasto. Ho girato per i vari Ministeri interessati e, fra
l’altro, non posso tacervi che al Ministero degli Esteri non sapevano,
che De Gaulle, oltreché sul Tenda e la Briga avesse avanzato pretese
anche sulla Comunità di Olivetta San Michele. Il progetto di Zona Franca
fu poi presentato alla Conferenza della Pace a Parigi il 31 agosto 1946
dall’on. Giuseppe Saragat, che era allora Ambasciatore d’Italia presso
la Repubblica francese. Ma M. Couve de Mourville, che rappresentava la
Francia, pur conoscendo l’interesse del progetto, ha persistito
ostinatamente a reclamare le rivendicazioni territoriali, promettendo
che avrebbe studiato la possibilità di realizzare la Zona Franca dopo la
firma del Trattato di Pace.
Abbiamo perciò voluto
richiamarlo a questa sua promessa, organizzando il 24 novembre a
Ventimiglia un grande raduno dei 21 comuni italiani che avevano aderito
al progetto della Zona Franca, che sono intervenuti in massa, con le
loro amministrazioni comunali, larghe rappresentanze delle popolazioni e
con loro bande musicali.
Abbiamo parlato dal balcone del municipio
ad una folla entusiasta, che gremiva il piazzale e le vicinanze, ma le
promesse di Couve de Mourville, si sono rivelate soltanto vuote
promesse.
M. André Botton sindaco e Consigliere generale di Breil, col quale ero
amico, aveva, dopo la firma del trattato di pace, presentata al
Consiglio Generale di Nizza, la seguente mozione, che è stata votata
all’unanimità: «La delimitazione delle frontiere prevista dal trattato
di pace in val Roia, non ha interamente realizzato le rivendicazioni
degli abitanti della valle.
L’inciampo più considerevole
continua a sussistere ed il Consiglio Generale chiede perciò che la
strada Breglio-Ventimiglia-Mentone venga internazionalizzata». Col
signor Botton abbiamo poi stabilito di creare una “Commissione di
Studio, italo-francese, dei problemi di frontiera”, di cui eravamo poi
stati eletti presidenti delle due delegazioni. Alcuni anni più tardi,
non essendosi il signor Botton ripresentato alle elezioni comunali di
Breil, il suo posto è stato preso dal signor G. Palmero, sindaco di
Mentone.
Quando poi il Signor Palmero è
diventato Consigliere Generale e deputato, ho offerto la mia presidenza
della Commissione all’amico Raoul Zaccari deputato italiano ed europeo,
perché le due presidenze fossero politicamente più equilibrate. Una
Commissione formata da soci dell’Unione Federalista Intemelia e di un
analogo gruppo mentonasco ha ripreso a funzionare dall’inizio del 1952
per indicare ai politici italiani e francesi i problemi nuovi o non
risolti.
Dopo i vari podestà e commissari prefettizi del ventennio fascista, sono stati eletti sindaci di Olivetta San Michele nel 1945 Lorenzo Trucchi, dal 1945 al 1947 Giulio Iperti e dal 1947 al 1948 l’avv. Lorenzo Limon come Commissario Prefettizio e dal ‘48 al ‘49 come sindaco. E voglio ricordarlo per la sua calorosa adesione al progetto di zona franca e alle commissioni di studio per i problemi di frontiera. Ma in special modo per la nostra collaborazione col signor Paul Tardivo, sindaco di Sospello, per l’apertura della strada e del valico Sospello-Olivetta, che è stata poi, grazie al nostro vivo interessamento, realizzata. Nel 1949 Lorenzo Limon, avendo rinunciato alla carica di sindaco si era trasferito a Ventimiglia per dedicarsi interamente alla preparazione del volume intitolato PENNA VINTIMILI - Olivetta San Michele, che in 456 pagine riporta una documentazione della vita della nostra comunità dal 1157 al 1959. A questa opera ha lavorato quasi fino al momento della sua morte, avvenuta nel 1961, e la pubblicazione postuma del volume, stampato dalla SASTE di Cuneo, è stata curata dalla sua nipote, la dott. Liliana Mercando. Sovrintendente ai Monumenti di Torino. Ricordando la nostra amicizia e la nostra collaborazione ho proposto ed ottenuto che il suo nome venga ricordato nel Dizionario Biografico dei Liguri illustri, edito dalla Consulta Ligure, la cui pubblicazione del 1° Volume è prevista per il 1991 a Genova e sono lieto che anche la nostra comunità sia ricordata in questa grandiosa opera, con un suo rappresentante.
A seguito dell’accoglimento delle rivendicazioni territoriali di De Gaulle alla conferenza della Pace di Parigi, degli 832 abitanti che formavano la comunità di Olivetta San Michele ne passarono alla Francia 366 della Penna e di Libri, il quale fu subito provvisto di una strada carrozzabile che aspettava da lunghi anni, e ne rimasero all’Italia 466, diminuiti nel censimento del 1981 a 334 fra Olivetta (248 ab.), San Michele e Fanghetto. E in quest’occasione vorrei rivolgere ai nostri politici qui presenti l’invito di chiedere al nostro governo di fornire ai comuni montani italiani tutti gli aiuti ed i benefici che la Francia fornisce a quelli francesi, in modo che possano sviluppare attività sufficienti ad occupare i giovani ed a creare attrezzature ed agevolazioni necessarie per trattenere o per richiamare nel paese i pensionati. Così si comporta, qualunque sia il Governo, lo Stato francese con i comuni montani per mantenerli in vita. Da noi invece, lo conoscete l’ultimo progetto dei nostri governanti ? Far scomparire tutti i comuni con meno di 5.000 abitanti, semplice no ! Perché non muoiano, niente di meglio che ammazzarli e non vi dico altro.