“Sed tamen quodnam ob scelus iter mihi necessarium retro ad Alpes versus incidit ? Adeo quod Intemelii in armis sunt: neque de magna causa. Bellienus, Verna Demetrii, qui ibi cum praesidio erat, Domitium quemdam, nobilem illic Caesaris hospitem, a contraria factione nummis acceptis, comprehendit et strangulavit: civitas ad arma iit eo nunc cohortibus mihi per nives eundum est. Usquequaque, inquis, se Domitii male dant. Vellem quidem Venere Prognatus tantum animi habuisset in vestro Domitio, quantum psecade natus in hoc habuit”.
CICERONE, Ad Familiares, VIII, 15. - Lettera di M. Clelio Rufo. Anno 49 avanti Cristo, 15 marzo.
Con l'unificazione nazionale, nella seconda metà dell'Ottocento,
sorse la necessità di fornire uno stemma, corredato di un
motto, che definisse formalmente la nostra città. Forte delle sue attente cognizioni storiche locali,
per Girolamo Rossi è stato
facile ricavare il tutto, quindi farlo approvare dai nobilissimi
padri coscritti del Consiglio Comunale d’allora, come richiesto
dall’araldica ufficiale di stato.
Per lo stemma, optò per il leone rampante,
simbolo del Libero Comune Marinaro, in auge agli albori del
Millennio; mentre per ricavare il motto cittadino, egli si riferì a quanto
appreso da una lettera a Cicerone, scritta nell’anno 49 a.C. da Marco Clelio Rufo.
Questa lettera ci ha comunicato notizie dirette sulla situazione politica interna della nostra città, agli albori dell’Impero Romano, quando il partito pompeiano provocò disordini nella Capitale dei Liguri Intemelii, classificata “civitas” e sede di un “municipium” già dall’anno 89 a.C., facendo assassinare un concittadino, il nobile Domizio, che ha concesso ospitalità a Giulio Cesare, nel suo viaggio verso le Gallie.
A questa provocazione i cittadini insorsero, impugnando qualunque tipo di arma, al fine di rendere innocua la parte pompeiana, fino al sopraggiungere delle truppe, appositamente accorse dalla Provenza, guidate da Marco Clelio Rufo, luogotenente di Cesare, che riportarono la legalità nel presidio minacciato.
Ecco il testo della lettera, dove appare evidenziata l'origine del motto:
Giunto
ad Albio Intemelio. Cesare sostò presso la casa del nobile Domizio. La
casa potrebbe esser stata la cosiddetta «domus del cavalcavia», scoperta
nel 1916, dov’era stato ritrovato un pavimento in mosaico geometrico.
Nel 1958, su quel sito venne anche ritrovato uno splendido pavimento in
mosaico policromo dell’epoca imperiale.
È vero
che quella domus dovette subire un radicale rinnovamento edilizio
a seguito del saccheggio ottomano del 69 d.C., ma quel mosaico
restò al suo posto, già calpestato da Cesare.
In
seguito all’ospitalità data al futuro dittatore da Domizio, la fazione
pompeiana pagò un certo Bellieno, domestico del prefetto Demetrio, per
strangolare il nobile e vendicare l’onore ricevuto.
Per
quello, il 9 marzo del 49, i cittadini, per la maggior parte partigiani
di Cesare, insorsero contro il presidio militare, costringendo Marco
Celio Rufo, nonostante l’inverno, a passare le Alpi Marittime, con
alcune coorti, per intervenire.
Traendola dalle lettere di Cicerone alla famiglia, dove il celebre
senatore raccontava dei fatti capitati ad Albium Intemelium in
quel marzo, nell’Ottocento, lo storico Girolamo Rossi, scelse questa
affermazione, per formare il motto, col quale fregiare lo stemma della
nostra città:
Civitas
ad arma iit.
LA VOCE INTEMELIA anno LIX n. 9 - settembre 2004
Luigino Maccario
Quando
la nostra città deciderà d’essere adatta a produrre turismo, si potrà
accorgere di possedere un angolo storico, probabilmente calpestato da
Giulio Cesare, quando nel 49 avanti Cristo, nel bel mezzo della Guerra
Civile, si avviava in Spagna per sorprendere le legioni pompeiane
guidate da Afranio e Petreio, mentre Pompeo si trovava in Epiro.
MOSAICO CALPESTATO
SCAVI E RITROVAMENTI
ANNO 50 a.C.
Giulio Cesare, passato l’inverno negli accantonamenti, contro il suo
solito partì a tappe velocissime per l’Italia, volendo rivolgersi
personalmente ai municipi e alle colonie a cui aveva raccomandato la
candidatura del proprio questore Marco Antonio ad una carica
sacerdotale, quella primaria degli àuguri che avevano anche un peso
politico. L’elezione di Antonio, avversata dal partito aristocratico
anticesariano, avviene nel 50, grazie anche ai voti degli abitanti
delle città italiche e delle colonie romane con diritto di voto.
Metteva in
campo volentieri la sua influenza a favore di questo personaggio a
lui molto legato e da lui mandato avanti poco prima per porsi
candidato; e tanto più rudemente per contrastare la prepotente
fazione di alcuni pochi, i quali attraverso la sconfitta elettorale
di Antonio miravano a scalzare l’influenza di Cesare nel momento in
cui usciva di carica. Ed anche se gli giunse in viaggio, prima di
toccare l’Italia, la notizia della sua elezione ad àugure, tuttavia
non giudicò motivo meno doveroso di visitare municipi e colonie
quello di ringraziarli dei molti suffragi e dell’appoggio prestati
ad Antonio; intanto avrebbe raccomandato anche la propria persona e
il proprio vanto per le candidature elettorali dell’anno successivo.
Il 49, per il consolato del 48. Per il 49 i consoli erano risultati
avversi a Cesare, con la sconfitta del suo candidato, il generale
Servio Sulpicio Galba, con lui in Gallia fra il 58 e il 56.
I suoi
avversari si gloriavano sfacciatamente dell’elezione a consoli di
Lucio Lentulo e Gaio Marcello, intesa, dicevano, a spogliare Cesare
di ogni vanto e rispetto, mentre il consolato era stato negato a
Servio Galba, che pure godeva di assai maggior favore tra
l’elettorato, per i suoi stretti legami d’amicizia e i rapporti con
lui quale suo luogotenente.
Cesare fu
accolto al suo arrivo da tutti i municipi e le colonie con
incredibili segni di deferenza e di affetto. Egli arrivava allora
per la prima volta da una guerra che aveva coinvolto la Gallia
intera. Non fu trascurato nulla che si potesse inventare per
abbellire le porte, le vie, i luoghi in genere per cui Cesare
sarebbe passato. La gente gli andava incontro in massa con i propri
figli, s’immolavano vittime dappertutto, piazze e templi erano
invasi dai divani disposti per banchetti, come per assaporare in
anticipo il godimento di un formidabile trionfo. Così era grande la
magnificenza degli abbienti, l’entusiasmo degli umili.
Dopo aver
percorso in lungo e in largo la Gallia romana, Cesare tornò con la
massima celerità presso l’esercito, a Nemetocenna. Convocate tutte
le legioni dagli accantonamenti invernali ai confini dei Treviri, vi
si recò anch’egli e passò in rassegna l’esercito. Pose Tito Labieno
a capo della Gallia romana per ottenere il suo appoggio in vista
della propria candidatura al consolato. Da parte sua compiva solo
gli spostamenti a suo giudizio necessari per far cambiare di luogo i
soldati a vantaggio della loro salute. Là sentiva dire spesso che
Labieno era sobillato dai suoi avversari, ma lo rassicuravano che
ciò avveniva per i disegni di poche persone, desiderose di privarlo
mediante un decreto del Senato di una parte dell’esercito. Labieno
passò tra le file pompeiane, ove divenne un fanatico e ancora abile
combattente in Africa e in Spagna, fino a che cadde nella battaglia
di Munda il 17 marzo del 45.
Nel 1852, sul lato Sud degli scavi,
in direzione eccentrica rispetto al castrum, serrato fra
quattro muri sui quali si aprivano tre porte, è stato rinvenuto un
bellissimo mosaico policromo a motivi geometrici, raffigurante le
Quattro Stagioni.
Pur rimanendo nei pressi di
quello che dovrebbe esser stato il porto canale nervino, segnalato
da alcuni grossi anelli di ferro, nei pressi; l'edificio che lo
conteneva poteva non essere necessariamente legato all'attività
portuale.
In quegli anni di
approssimazione archeologica, scoperto e sottoposto ai rilievi di
rito, il bel mosaico, conservatosi sotterrato per secoli, si è
dissolto al contatto con l'atmosfera.