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“ALL’INFERNO E RITORNO”
DI UN BRIGASCO IN RUSSIA
di Renzo Villa - 1990
Eugène Lanteri-Minet ha descritto nel libro “Marcher ou mourir”
l’allucinante avventura da lui vissuta come soldato italiano
nell’inverno 1942-43.
Oggi (1990) è un tranquillo signore di 68 anni che trascorre la sua vita fra Beausoleil e La Brigue da dove è originaria la sua famiglia. Partecipa regolarmente ai raduni degli Anciens Sapeurs di Nizza, gemellati con l’A.N.G.E.T. di Ventimiglia, l’associazione che raggruppa gli ex appartenenti all’arma del genio e alla specialità trasmettitori dell’esercito italiano. Ciò perché Lanteri-Minet, quando nel 1941, all’età di 19 anni, fu chiamato alle armi, venne destinato al 15° Reggimento del Genio di stanza a Chiavari, presso Genova, e qui imparò i segreti delle radiotrasmissioni.
Terminato il corso, nel luglio 1942, fu trasferito a Pinerolo, alla scuola di cavalleria, ma come radiotelegrafista a bordo di una delle due autoblindo che poi avrebbero seguito l’Armir (Armata italiana in Russia) con compiti di protezione dello stato maggiore.
Il racconto della sua allucinante esperienza, Lanteri-Minet lo ha fatto scrivendo un libro “Marcher ou mourir - Récit historique” {Editions Francophones, Tourcoing 1989, 66 F.).
Il volume che è certamente l’unico pubblicato in Francia su questo argomento, va ad aggiungersi a tutta la sterminata serie di memoriali sulla campagna di Russia apparsi in Italia dal dopoguerra ad oggi. L’avventura dell’autore ebbe inizio con un interminabile viaggio in treno-tradotta, di tremila chilometri, attraverso l’Italia, l’Austria e la Cecoslovacchia, fino a raggiungere l’Ucraina. Al momento della partenza dovette abbandonare la sua amata bicicletta e accontentarsi di portare con sé la macchina fotografica e la scatola degli acquerelli; la pittura è infatti una passione che non lo ha mai abbandonato.
In Russia, i rapporti dei soldati italiani con la popolazione erano abbastanza cordiali, ma la situazione militare si faceva, di giorno in giorno, sempre più critica. L’equipaggiamento e il vestiario, soprattutto gli scarponi, non erano affatto adatti per affrontare il grande freddo che stava per arrivare.
Ed era proprio il “generale inverno” l’alleato più potente atteso dai russi che, agli inizi di dicembre, sferrarono l’attacco contro il settore tenuto sul Don dalle divisioni “Cosseria” e “Ravenna”. Era l’inizio di una spaventosa tragedia che si sarebbe consumata nel cuore di quell’inverno 1942-43 con la disastrosa ritirata attraverso la steppa ghiacciata lungo la quale motivano, a migliaia, tutti coloro che, come dice il titolo del libro, non avevano più la forza di proseguire il cammino.
Una immane tragedia che Lanteri-Minet ha vissuto giorno per giorno a bordo della sua autoblindo in panne, ma rimorchiata dalla consorella, con la quale riuscirà miracolosamente a salvarsi. Innumerevoli gli episodi, di disperazione ma anche di coraggio, dei quali l’autore è stato testimone durante l’infernale odissea della ritirata che vide rinnovarsi il dramma vissuto 130 anni prima dall’armata napoleonica.
A mietere vittime fra la massa dei fuggitivi non erano soltanto gli attacchi dei carri armati e dei partigiani o le gragnole di colpi sparati dalle “katiuscia”, i micidiali lanciarazzi a canne multiple chiamati anche “organi di Stalin”. Come si diceva prima, il nemico peggiore di quegli uomini alla disperata ricerca della salvezza era poi ancora il freddo che, in certi momenti, come ricorda l’autore, raggiunse i 46° sotto zero. Anche per Lanteri-Minet, e per i suoi compagni di sventura sopravvissuti alla ritirata, vi fu un altrettanto storico passaggio della Beresina, ma a bordo di un treno e definitivamente fuori pericolo. A Minsk, ultima tappa dell’avventura prima del ritorno in Italia, le due autoblindo reduci dalla campagna dì Russia e risparmiate dalla guerra, furono requisite dai Tedeschi e di esse si perse ogni traccia. Purtroppo, con i due mezzi blindati, scomparvero anche i bagagli e gli effetti personali di Lanteri-Minet e dei suoi commilitoni, compresa la macchina fotografica con le eccezionali immagini riprese in quei drammatici giorni.
L’unico oggetto che si salvò fu una “balalaika”, acquistata dall’autore, e rimpatriata assieme a lui come ricordo della Russia.
La gioia del ritorno doveva essere però di breve durata. L’8 settembre 1943, al momento dell’armistizio fra l’Italia e gli alleati, Lanteri-Minet cadde prigioniero dei Tedeschi e dovette partire un’altra volta da Pinerolo per una nuova, ma non meno dolorosa, avventura in Germania dove fu deportato nello Stalag III - A in un campo di concentramento in Germania. Una vicenda che potrebbe fornire materia per un altro libro, conclusasi anch’essa fortunatamente con il secondo rimpatrio, al quale seguì il “rattachement” di Briga e Tenda alla Francia, vissuto e partecipato dall’autore.
ALPI DEL MARE n. 0 - 1990 - ODAC Nice (AM)
LUGLIO 1942
L’ÖTANTANÖVE ANDAVA SUL DON
I Ventimigliesi d'oggi, per evitare che quel sacrificio possa dissolversi nell’oblio, approssimandosi il Settantesimo anniversario della partenza di quello verso il fatale Fronte Russo, hanno organizzato una esposizione di reperti e cimeli, appartenuti a quei giovani militari, così tragicamente impiegati.
Reduce dalle battaglie combattute su Fronte Occidentale, nel 1940, la Divisione Cosseria, dell’89° Reggimento Fanteria Salerno; di stanza a Ventimiglia, nel 1942, venne mobilitata nell’Armata inviata, con le forze tedesche, sul Fronte Russo.
Il 4 luglio di quell’anno, iniziarono i trasferimenti, dalla Stazione di Ventimiglia, usando “tradotte” formate da vagoni merci o bestiame, ognuno adattato a contenere quaranta saldati, che dormivano sul pavimento, con una sola coperta, usando per cuscino lo zaino. Hanno viaggiato così per venti giorni.
Una buona documentazione fotografica mostra i Battaglioni dell’Ottantanove, affardellati, con zaino e fucile, nel tragitto tra la caserma Gallardi e la Stazione, in marcia attraversano la città, che inconsapevolmente gli faceva festa. In testa la Fanfara, seguita dalle autorità civili e militari dell’epoca, in abito da parata, li hanno accompagnati al treno.
Questa iniziativa si ripromette di porre le basi, affinché la celebrazione di quell’avvenimento possa tornare ad essere un appuntamento annuale, con almeno la deposizione di una corona alle lapidi ed una conversazione alla memoria.
Dagli Anni Trenta, i Ventimigliesi sono stati particolarmente legati al reggimento di fanteria, che ha avuto base nella caserma Carlo Gallardi; era il popolare “Ötantanöve”, sacrificato sul Fonte Russo.
Pasquino BUSELLI anni 22 nato a Peccioli (PI) celibe
Giacomino SANGIOVANNI anni 21 nato a Crema (CR) celibe
Luigi Paolo GAMBI anni 21 nato a Pieve di Teco (IM) celibe
Nicola GILIBERTI anni 35 nato a Grumento Nova (PZ) celibe
Dante FICAI anni 27 nato a Incisa in Val d’Arno (FI) coniugato
Giuseppe BOZZI anni 27 nato a San Ginesio (MC) celibe
Lorenzo VIALE anni 39 nato ad Airole (IM) celibe
Giovanni TESTA anni 26 nato a Villanterio (PV) celibe
I funerali si svolsero in forma solenne, presenti le massime autorità civili e religiose oltre al Podestà e i generali di forza.
Le bare dopo la celebrazione della messa officiata dal Cappellano Don Didero furono sistemate su dei camion diretti verso il camposanto, con a seguito una immensa folla e preceduta dai bambini delle scuole elementari.
Nessun fiore ma tanto silenzio e dolore per quei soldati periti per una banale disgrazia. Una morte certamente non accettata da un militare a difesa della Patria.
Esattamente l’11 febbraio e per pura fatalità, alla stessa ora dell’incidente, presso l’Ospedale Santo Spirito, dopo un atroce agonia, spirava Salvatore GUGLIELMO di anni 21, nato a Palermo Pallavicino (PA), celibe.
Tre squilli di tromba furono il mesto saluto dei Fanti uniti a quanti vissero da vicino questo momento di storia ventimigliese.
LUGLIO 1942: Cinque mesi dopo i cittadini tra lacrime e sventolii di bandiere si strinsero in segno di gratitudine ed affetto all’89° Reggimento Fanteria che sfilò per l’ultima volta per le vie del centro prima di partire verso quell’avventura chiamata Russia …
* Qualche decennio più tardi, in quella medesima struttura, gli enti preposti decisero di costruirvi un ospedale. Il dottor Ferrero, che ricordava bene ciò che accadde per via del terreno franoso e soggetto a smottamenti, cercò di fare opera di convinzione nelle alte sfere ma non fu ascoltato. L’apprezzato medico purtroppo fu solo un buon profeta e infatti lo stabile ancora in ottime condizioni crollò inesorabilmente.
U BERRIUN anno II n. 2 - 2003
L’89° Reggimento Fanteria che rappresentò la prima forza di difesa sul confine italo francese fu trasferito da Genova a Ventimiglia nel 1930 e per dodici anni fu dislocato in varie Caserme cittadine. La Sede del Comando era la Gallardi: un grande e austero edificio costruito su tre piani tra il 1932 e il 1934 a circa un chilometro dal Borgo sulla sinistra del fiume Roia. La struttura capace di contenere oltre un migliaio di uomini fu intitolata al Tenente Carlo Gallardi, appartenente all’89° e caduto eroicamente sul Carso nella prima guerra mondiale.
La cerimonia di inaugurazione ebbe luogo il 16 luglio del 1935 alla presenza di ufficiali e truppa del 47° Règiment d’Infanterie Coloniale francese, che nel 1918 aveva combattuto al loro fianco.
Nel vasto piazzale in cui si accedeva con i mezzi da trasporto attraverso una ripida salita c’era la palazzina adibita alla Direzione generale che si raggiungeva anche attraverso la scaletta di servizio a lato della garitta. Nel centro dell’area di parcheggio il lavatoio e sul lato opposto un confortevole e provvisto deposito di materiali e vivande oltre la cucina adibita ai militari. Oltrepassando il secondo cancello a confine con l’area militare e dopo aver attraversato la strada comunale al bivio tra Bevera e San Bernardo vi era la scuderia che serviva anche al Reggimento Batteria ospitato dall’89°.
A memoria di alcuni anziani altre caserme locali erano in forza all’esercito: si tratta dell’Umberto 1° dove era alloggiata la G.A.F. (Guardia alla Frontiera).L’antico Forte dell’Annunziata sopraelevato di un piano dai Bersaglieri giunti a Ventimiglia nel 1892, fu munito dagli stessi alle dipendenze del capitano Giuseppe Lavailea del sentiero che ancor oggi porta in località Calandre.
La caserma Vittorio Emanuele, sita di fronte alla vecchia e insufficiente fortezza in zona Funtanin, ospitava i guastatori. A tal proposito è certo che una notte i soldati alloggiati in questo edificio furono fatti sloggiare per via di alcune vistose crepe che si erano improvvisamente formate sui muri.*
Al pianoterra della Bligny era di stanza l’armeria a servizio di tutti i militari. In quel luogo venivano riparate e controllate le armi e c’è chi afferma che un corpo speciale si occupava anche della costruzione di nuovi modelli.
Intorno alle ore 18 la nostra città era invasa dai soldati in libera uscita e i locali, i cinema si riempivano di gioventù: un bacio, un gelato, un intreccio di relazioni e qualche delusione e paura da parte di chi non sapeva come liberarsi del fardello che a quei tempi era veramente pesante da portare.
Si era altresì instaurato un rapporto di servitù tra i giovani e le donne ventimigliesi che lavavano e cucivano in cambio di favori quale la possibilità di accedere ai vettovagliamenti. Dalla città ogni sfilata del Reggimento era ammirata ed applaudita e quando passavano per le vie con il tricolore lacerato dalle ferite di guerra destavano nella popolazione l’ammirazione e la riconoscenza.
Mille e più aneddoti da raccontare, ricordi di fatti accaduti che riaffiorano nei meandri dei nostri pensieri solo per averli sentiti in tempi ormai lontani e l’impressione di continuare a viverli da vicino come il susseguirsi di una sequenza cinematografica di cui, nostro malgrado siamo i protagonisti ...
1942: Le Calandre
... quello a cavallo fra il 1941 e il '42 fu un brutto inverno. Da giorni faceva un particolare freddo e la pioggia battente sotto un cielo di piombo non permetteva che un raggio di sole potesse solo sfiorare le foglie profumate della macchia mediterranea.
La Francia a pochi chilometri di distanza sembrava una cartolina surreale in mezzo alle nebbie che salivano dal mare e quel 9 febbraio una forte mareggiata aveva come spazzato via la sabbia dorata che nelle onde s’infrangeva con violenza sulla scogliera delle Calandre.
Erano circa le due della notte: un gruppo di Guardie alla frontiera all’interno di una insenatura rocciosa naturale appositamente messa in uso e adoperata per la sistemazione delle mitragliatrici in funzione antisbarco stavano riposando dopo una giornataccia. A turno tenevano d’occhio la situazione anche se fuori era buio pesto e solo qualche lontano bagliore illuminava il paesaggio spettrale. Il giovane Dante con la piccola radio all’orecchio cercava di rompere discretamente quel silenzio assurdo nel fracasso di una tempesta ascoltando i bollettini di guerra. Nove giovani di stanza alla soprastante Caserma Umberto I°, pieni di speranze e di ardore cercavano di portare un minimo di comfort in quella postazione disagiata, umida, a contatto diretto con la roccia. Questa era la guerra ! Quante volte avranno sentito i discorsi del nonno o del papà sulle passate vicende ma ora la favola era purtroppo un’amara realtà da affrontare con coraggio ed abnegazione.
Un tuono più fragoroso del solito squarciò le nubi gonfie d’acqua e l’eco si confuse con il rumore di una frana coperti da una fitta polvere che si alzava verso la roccia arcuata e a picco su quel minuscole fortino inghiottito da un cumulo di sassi scesi improvvisamente dalla montagna.
Un Fante di guardia in un punto dove si poteva dominare tutta la zona, comprese che qualcosa di poco piacevole poteva essere accaduto proprio nel luogo dove i suoi amici commilitoni erano di servizio.
Non c’era tempo per le supposizioni o per cercare di soffocare l’angoscia del momento:Allarme,allarme e poi il sudore freddo in tutto il corpo.
Arrivarono le ambulanze a sirene spiegate, i pompieri volontari di sede al Borgo,le varie milizie,i colleghi del G.A.F. e in poco meno di un’ora la notizia aveva fatto il giro della Città.
Il disagio del luogo raggiungibile solo tramite il viottolo rallentò i lavori di recupero delle salme e la speranza di trovare ancora qualcuno vivo diventò sempre più flebile come le torce puntate su quel cumulo di pietra e terra diventato in pochi attimi una tomba scavata da mani pietose e sanguinanti.
Ridotta dell'Annunziata, via Verdi 41, Ventimiglia