di Mario Vota
Mi trovai,
agli inizi degli anni Trenta, collega di Vieri Bongi nel Ginnasio di
Ventimiglia, ove ero stato destinato quale docente di lettere classiche:
l’incontro con questo mirabile dotto avvenne appunto nell’altana di
quella scuola ove erano sparsi a casaccio basamenti, cippi, stele romane
scampate alle incursioni predaci di vari musei italici ...
Da tempo il professore
lucchese insegnava nel Ginnasio inferiore, lassù nell’acropoli della
«città esatta» come la definisce le sensibilissima scrittrice pistoiese
Gianna Manzini in un articolo stupendo apparsa anni fa sul «Corriere».
Io notai subito in lui
un tratto tipico del «signore» toscano, austero e nel contempo cordiale,
grave e nel contempo arguto, incline alla compostezza del discorso e al
frizzo pronto e benevolmente motteggiatore, alla sensata osservazione
come all’ironia sempre lontana dalla malignità.
Diventammo veri «sodales»:
da qualche anno ero stato sfornato dall’ateneo torinese ove, fra gli
altri, avevo avuto insigni maestri quali lo storico De Sanctis e il
grande glottologo istriano Bartoli, e ciò mi autorizzava a credermi un
«addetto ai lavori» come si abusa dire oggi.
Però, davanti all’amico
Vieri, non tardai a capire che la mia cultura di fronte alla sua
onniscienza era ben misera cosa: provavo assai spesso quell’impressione
che anche la persona di discreta cultura avverte con disagio e
scoramento quando sfoglia uno schedario di una grande biblioteca
pubblica !
Questa abissale
differenza fra lui e me in fatto di conoscenza (e anche di «virtude») la
sintetizzai un giorno con un motto estemporaneo: «S’io sono il Garda - e
tu sei l’Ontario ! Tu sei il "pontifex" - io il Caudatario! ». Sorrise e
mi disse: «Lodo l’arguzia nella forma non ... nel contenuto !». Ciò
perché la sua modestia era direttamente proporzionale alla preparazione
incredibile.
Nelle nostre
indimenticabili conversazioni al tavolo del caffè o nei peripatetici
giri per la vetusta città mi citava lunghi brani di Lucrezio o qualche
ode di Orazio, oppure era la volta di Byron o di Shelley, di Heine e di
Goethe, di D’Heredia o di Prudhomme. Non si aveva che da scegliere ...
Aveva Bongi uno sguardo
un po’ spento (miopissimo, non portava occhiali). Si affissava in
orizzonti lontani come «La malinconia» del Durer, ma l’occhio
all’improvviso guizzava come quello di un furetto, e ciò accadeva
particolarmente quando si avvedeva che l’interlocutore denunciava una
qualche imperdonabile lacuna o diceva una ben evidenziata «grulleria». (Heu,
quotìens mihi contigli!).
Una sera, mentre
salivamo per l’erta di mattoni di Via Falerina, che mal rischiaravano i
rari lampioni elettrici (l’allampanato lampionaio d’un tempo felice
l’aveva emarginato ... il progresso !) gli dissi all’improvviso: «Che
strano il tuo nome: Vieri».
Egli mi si rivolse di
botto stupito e con tono di disappunto mi inchiodò alla mia imprudente
uscita: «O che non sai - mi disse - chi fu Vieri de’ Cerchi ?».
Perdio lo sapevo, sapevo
i riferimenti danteschi ai Cerchi (e a Vieri in particolare) e ai
Donati, ma in quel momento incorsi in un «fading» malaugurato della
memoria !
Mi spiegò poi: «A que’
tempi in Toscana, Oliviero si vezzeggiava in Vieri, Ruggero in Geri,
Raniero in Neri, ecc.». Deglutii amara saliva e lo lasciai parlare a
lungo sulle discusse preminenze della lingua toscana, sui riboboli e
sugli abusi che di questi si facevano da taluni scrittori come Lorenzo
Viani ...
Lo trovai spesso intento
a risolvere «puzzles» riservati a solutori abilissimi, in pubblicazioni
inglesi e francesi, per cui era necessario di quelle lingue conoscere
anche parole disusate o comunque rare, e sempre ne usciva vittorioso.
Avrebbero dovuto
bastarmi le numerose prove che quotidianamente mi dava del suo sapere,
eppure io, stupidamente, tramai un «lucciolo» come direbbe Dante, per
sincerarmi della vastità di tutto quel suo mondo di cultura: trassi un
giorno dalla avita e disordinata biblioteca dei miei, due libri a
casaccio: i «Pamphlets» di Courier e il «Cinq - Mars» del De Vigny, che
scorsi con ansiosa fretta, per poi all’indomani far cadere il discorso
su quelle opere.
Quel mio stupido e
odioso sospetto ammainò le «gonfiate vele»: egli, Vieri, sul «vigneron»
della Turenne e sul bellissimo ufficiale di Napoleone mi trattenne a
lungo con citazioni e confronti brillanti e profondi. Ne fui
mortificato, pentito amaramente della mia imperdonabile leggerezza.
Gli rimproverai talvolta
le troppe ore passate incollato ad una scacchiera, che per me era un
gioco sedentario e dilapidatore di fosforo. Ricordo che mi disse: «Vedi,
gli scacchi sono quello che qui in Liguria chiamano la "ciampornia"
ossia lo scacciapensieri, almeno per me, che, come tutti, ho i miei
guai».
Con Vieri passai giorni
felici: ci univa anche la comune predilezione per certi autori come
Lucrezio, Catullo o Virgilio; come Anatole Françe e Prudhomme, come
Dante, Manzoni e soprattutto Pascoli.
I superficiali e cioè
quelli che poco lo conoscevano lo giudicavano un pedante, una
enciclopedia ambulante su lunghe magre gambe, un pozzo di vacua
erudizione; (lo chiamavano «fisciaüra» per la magrezza che in effetti
era tale da far pensare al Forese Donati del Purgatorio dantesco).
Niente di tutto ciò:
accanto all’uomo dottissimo e dotato di straordinaria memoria c’era
l’uomo di «coeur gros», sensibilissimo all’arte (sapeva anche disegnare
con mano sicura!) il quale, recitandomi un «Poema Conviviale» di Pascoli
o, dello stesso un poemetto latino, aveva gli occhi lucidi di trattenute
lacrime! Per le mie nozze mi donò una raccolta di classici e vi scrisse
come dedica «Mnemosynon sodalis».
Sì, ricordo di un amico
che insegnava in una scuoletta ginnasiale in una cittadina (sia pure
augusta e sacra per le sue memorie) e che in fatto di affinata cultura
ed anche di erudizione e di intuito critico avrebbe messo alle corde i
più insigni Accademici d’Italia.
Questo era Vieri Bongi.
Caro Vieri, sono stato spesso col pensiero accanto a te, ho tante volte
rifatto le strade percorse con te sotto il bel sole intemelio ed ho
rivolto a te quel verso che Persio indirizzò al suo maestro: « ...
tecum etenim longos memini consumere soles» ...
I giorni solari passati
con te furono tali perché anche rischiarati dalla inesauribile fontana
di sapienza e di bontà che raggiava dalla tua mente e dal tuo cuore ...
LA VOCE INTEMELIA anno XXXXVII n. 3 - marzo 1982
Era un pozzo di scienza il preside del ginnasio di Ventimiglia negli "anni trenta”
RICORDO DI VIERI BONGI
UN SONETTO PER VIERI BONGI
PERSONAGGIO CHE FECE EPOCA NELLA VENTIMIGLIA ANNI TRENTA
Qualche anno fa il nostro giornale ospitò un frizzante articolo di Mario
Vota sul Prof. Vieri Bongi, caratteristico personaggio della Ventimiglia
Anni Trenta, ed oggi siamo lieti di pubblicare questo sonetto del dott.
Rinaldo Ferrerò che abbiamo avuto dal Comm. Giuseppe Bruschi.
Il
Prof. Vieri Bondi fu insegnante di materie letterarie al Ginnasio di
Ventimiglia Alta (nei pressi di Porta Nizza) negli Anni Trenta, appunto.
Lucchese di nascita e tipica figura di studioso – eruditissimo, miope,
longilineo - viveva in solitudine. Soltanto al pomeriggio lo si vedeva
nello scomparso “Caffè Ligure” giocare a scacchi (la sua grande
passione) al solito posto e col solito amico.
Il
Prof. Bongi era orgoglioso del suo strano nome, già portato da un
personaggio della Divina Commedia, Vieri dei Cerchi, un guelfo di parte
bianca come Dante, assieme al quale aveva partecipato alla Battaglia di
Campaldino, del 1289.
Al professor Vieri Bongi
Alto, curvo, occhi stretti sul giornale,
almeno cento volte t’ho incontrato
dell’antico Ginnasio per le scale
o, in Ventimiglia vecchia, trasognato.
Eri, per tutti, il dotto universale
e noi “Fessura” t’avevam nomato *
perché german di crepa naturale
dalle vetusta mura generato.
Eri il Professor Bongi a nome Vieri,
ombra di Dante e mente nell’antico:
vagante sei così nei miei pensieri
in quel defunto mondo, tanto amico
della Città dei Conti nei sestieri,
del profondo saper sempre mendico.
Rinaldo FERRERO
*) Tra gli studenti, il professor Bongi era unanimemente conosciuto come “fisciaüra”, tanto era magro. Amava gli autori classici, tra i quali prediligeva Lucrezio, Virgilio e Dante, ma era ferratissimo anche in letteratura moderna. Suo unico svago il gioco degli scacchi, che definiva”ciampornia”, cioè scacciapensieri..
LA VOCE INTEMELIA anno XLIII n. 4 - aprile 1988