S E T T E C E N T O
D I S A G E V O L E
La puntuale ricerca tra gli archivi vescovili ventimigliesi, prodotta da Nino Allaria Olivieri e pubblicata su LA VOCE INTEMELIA, negli Anni Novanta, ha messo in luce particolari episodi di vita popolare che possono concorrere a migliorare la visione delle notizie storiche da tempo conosciute. Per tutto il Settecento, fino ai rivolgimenti portati dalla Rivoluzione Francese, le condizioni del territorio Intemelio sono state oltremodo disagevoli, molto dovuto al transito di eserciti famelici, aggravato da ampie razzie prodotte da bande di briganti al loro seguito; inverni particolarmente rigidi che dettero inizio alla distruzione dell’intera cultura di agrumi, assai diffusa tra San Remo e Mentone.
Il capo dei Barbetti
Dopo una devastante piena del Roia, nel 1710, un’angosciante epidemia si presentò nel 1735, tanto da richiedere un nuovo camposanto che potesse contenere le numerose sepolture, non più accettabili all’interno delle mura cittadine, vicino alle chiese, com’era usanza che si protraeva fin dal Basso Medioevo, con gravi disagi e malanni, poi definitivamente allontanati dai decreti napoleonici in materia.
La ricerca di un nuovo cimitero
per far fronte alla moria - 1735
di Nino Allaria Olivieri
L’anno 1734 e i primi due mesi dell’anno 1735 sono per Ventimiglia un periodo in cui fanno strage due gravi epidemie: la malattia della fame e la febbre, che falcidia vecchi e giovani.
Al divieto di sbarcare grani e derrate alimentari - scarse per i tempi avversi - i più ripiegano su quanto ancora la terra produce. L’Annona stenta, via terra, a rintracciare grani; il pane viene razionato; vari tafferugli, presso i panificatori comunali, si riescono a sedare a stento.
Una nuova e sconosciuta epidemia si abbatte sulla città e sul contado. I chirurgi la definiscono «epidemia della febbre»; né il Magistrato della sanità della repubblica di Genova è in grado di porgerne ragione anche se invia ai Capitani lettere di allerta. Si riscontra la inutilità dei rastelli di Sanità.
Tra la generale morìa si annota un grande numero di soldati spagnoli, allora di stanza o di transito in Ventimiglia. Al Parlamento e all’ufficio della Sanità si presenta pressante il problema della sepoltura. E poiché in gennaio e febbraio del 1735 la morìa aumenta in modo impressionante ,il Consiglio si rivolge al vescovo Mascardi «affinché indicasse un nuovo luogo atto alla sepoltura come in precedenza aveva concesso l’Oratorio di San Giovanni Battista e sue adiacenze».
Incaricati del problema e della scelta logistica sono i consiglieri Carlo Lorenzo Olignani, Domenico Maria Porro e Vittorio Porro. Il 12 febbraio 1735 scrivono al vescovo Mascardi: «Stanti li pubblici schiamazzi che continuamente si sentono e si risentono per il fetore grande, che tramandano le sepolture ubicate ed erette col vs. caritatevole consentimento nell’Oratorio di San Giovanni, quali in oggi, attesa mortalità dei Spagnoli, si ritrovano piene e quasi costretta questa povera Città a non trovare più chi voglia sepellire e dar mano all’opera di misericordia».
L’esigua capacità interna dell’Oratorio di San Giovanni, in cui si erano scavate due fosse comuni, e la esigua capienza dello spazio antistante lo stesso si era presto esaurito. Al che si deve assommare una inumazione frettolosa e alla rinfusa.
Si evince inoltre da uno scritto dell’allora priore della Confraternita della Buona Morte come non pochi fratelli si estraniarono «non potendosi soffrire né reggere omninamente alla puzza, che non solo in loco Loci ma nelle vicinanze strade provoca chiunque a grandissima nausea».
La magnifica Comunità teme «di qualche infezione d’aria o altro sinistro accidente». I tre consiglieri (in santo ed ubidiente accordo col loro vescovo» debbono «cercare un sito pro interim in cui a meno rischio possano seppellirsi li cadaveri». Il Porro propone uno spazio al Lago; altro in terre ai Cammini e l’Olignani indica «loco idoneo e perenne» oltre il Roia «ove dicesi Bastia».
Il vescovo Mascardi la sera stessa, consultato il suo fiscale e il Capitolo, invia al segretario della Comunità «un biglietto di assenso in cui delega lo stesso Preposito a benedire il luogo da loro scelto».
Fu decretata terra di sepoltura la Bastia ed ebbe termine, dopo alcuni secoli, quello che fu per la città il «Cœmeterium Sanctae Mariae apud Ecclesiam Cattedralis».
(1735, Lettera al Vescovo - Missione pro altro sito. Archivio vesc. – Ventimiglia)
LA VOCE INTEMELIA anno L n. 3 - marzo 1995
L’odissea di Gavotti in Ventimiglia:
notaio, sposo e padre
di Nino Allaria Olivieri
Drammatiche vicissitudini, affrontate con spirito spartano e fiducia in Dio e negli uomini, sono il tema dominante, scritte con minuta grafia nel “Notiziario”, che di lui rimane nel “Fondo Notai distrettuali” di Savona.
Nativo di Sassello giunse in Ventimiglia con la moglie Antonia Garbino di Sassello, con tutta probabilità nella primavera dell’anno 1747, quale notaio “extra Moenia” dietro invito del Capitano Francesco Maria Di Negro Governatore di Ventimiglia. Aprì la scanno nel Quartiere Oliveto con poca fortuna: tuttavia ricorda di essere stato nella città attuario per tre anni del Capitano Di Negro. Se poco era il pane, fu grande la stima dei nobili della Città e non mancherà di averli padrini ai battesimi dei figli.
L’8 di novembre dell’anno 1750 muore la consorte Maria Antonia di Sassello. Scrive nel suo notulario: “con avere prima sofferta una malattia cronica dalla metà d’agosto fino al giorno della sua morte e il di lei cadavere è seppellito nella Chiesa dei RR. PP. Osservanti della Annunziata fuori Ventimiglia”. La notificazione è fredda; non una parola che indichi dolore, anzi annota: “Fin dalli giorni di sua malattia che si trovò con grande pericolo di morte fece atto dal notarlo Muraglia in Bordighera dove ci trovammo a caso di cambiare aria nel quale fece legato a mio favore di 300 lire come in atto di sua dote”. La vedovanza e il dolore non piegarono l’animo del Gavotti: Scrive: “1750 3 dicembre ad un’ora di notte, giorno di S. Francesco Saverio, son passato a seconde nozze, con la sign. Maria Margherita, figlia del q. Paolo Denevina”. Il matrimonio avviene in Ventimiglia e il notario Giuseppe Aprosio attua uno strumento dotale di lire 2000.
Moglie nuova, vitalità nuova: arrivano i figli di anno in anno, vita e morte. Ai 11 di settembre 1751 alle ore 4 della notte nasce dalla nuova consorte una figlioletta, che battezzerà nella Cattedrale, padrino il Capitano di Ventimiglia Di Negro e madrina Giulia Maria Barbara, vedova di Matteo Nicolò Galleani.
Due anni dopo, il 28 maggio, nasce un figlio maschio, cui verrà imposto il nome di Paolo Antonio Maria: Ministro del battesimo è il cognato canonico e padrini il Magnifico Gio. Andrea Curli e Francesca Maddalena, moglie del magnifico Giacomo Porro, figlia del notaio Morena. Tre mesi dopo il piccolo Paolo muore e verrà seppellito nella Chiesa dell’Annunziata.
Il Gavotti lascia saltuariamente la scanno per attuare fuori città. La qualifica di notaio “extra moenia” lo rende ramingo di villaggio in villaggio con la consorte; nel 1754 è a Pieve ove nasce un altro figlio maschio, lo battezzerà con il nome di Paolo Maria, che due anni dopo muore in Taggia il 19 agosto.
Nel 1757 è ancora in Taggia, il 6 marzo nasce Maria Maddalena ma il 14 giugno 1759 “dopo una malattia di più mesi cagionata dal vaiolo del quale fu casualità in Ventimiglia, fu seppellita nella Collegiata”.
Fatto rientro in Ventimiglia il 29 novembre 1758 è padre per la quinta volta; al figlio imporrà i nomi di Angelo Batta Paolo Andrea, ma il 28 maggio dell’anno 1760 all’età di diciotto mesi morirà in Taggia “per una malattia di sette e più giorni di febbre e convulsioni”.
Sono notazioni fredde; non traspare rimpianto né quella naturale disperazione di un padre che, impotente, assiste alla distruzione della propria famiglia. Forse fiducia e rassegnazione ai disegni di Dio ?
Nel 1752 lascia definitivamente Ventimiglia per Ceriana; poiché sono le notazioni del suo attuare. Del tempo trascorso in Ceriana ricorda ed enumera la nuova prole.
Nasce nell’anno 1762 Ignazio Crisostomo Gasparo; nel 1764 nasce Teresa, morta poco dopo la nascita; nel 1765 Eugenia Teresa, nel 1768 Maria Teodora, nel 1770 Paolo Maria Balthasar e ultima nel settembre del 1774 Angelo Maria.
Dal 1777 sarà definitivamente a Sassello e a Stella ove sarà “attuario” fino al 1800 ...
Ma l’odissea del notario Gavotti continua con il figlio Paolo; nel 1796: il 7 marzo viene condannato dal capitano Lorenzo Di Negro a 10 anni di carcere per l’omicidio di Devota Muratore. Chiuso nelle carceri di Savona evade e viene accusato di un nuovo omicidio. (Dal notulario del Gavotti, notaio)
LA VOCE INTEMELIA anno LVIII n. 11 - novembre 2003
I Magnifici
e i Caprari
1758 di Nino Allaria Olivieri
I Magnifici Galleani, Speroni, Orengo e Lanteri. più volte avevano fortemente lamentato - con energiche rimostranze - presso il Capitano contro i danni che «li caprari si facevano lecito apportare con liberi ardurre alla stessa spiaggia del mare le scorte».
Contro i caprari, in tempi di calamità e di timori infettivi, il Senato di Genova e il Magistero della Sanità s’erano premurati nell’emanare grida di divieto. Il tempo prima e lo scongiurato pericolo allentò la guardia dei Sanitari tanto che dagli stessi pastori, più volte incriminati, le stesse famiglie benestanti attesero e ricercarono personali benefici.
Il 12 marzo 1758, congregato il Magnifico Consiglio e il Generale Parlamento alla Loggia, si pone all’ordine del giorno il problema dei pubblici pascoli delle Bandite. Sono i Campari a relazionare sull’operato dei caprari e degli notificati danni «relazionati».
I Magnifici invocano leggi nuove e più severe; si impone la regolarizzazione dei siti e la demarcazione dei tratturi e il tempo dei percorsi. La seduta è quanto mai animata: i Magnifici nel far prevalere i violati diritti, i parlamentari del popolo forti nella difesa dei poveri villici.
È notte di già inoltrata quando si adiviene ad un accordo tra le parti. Il cancelliere può redigere l’ordine del giorno. «Ogni Capraro o possessore di bestia caprina o ovina dovrà seguire le nuove accordate disposizioni. I trasgressori subiranno pena di Lire 30 applicabili: 7,10 all’illustrissimo Capitano della Città, Lire 7,10 all’accusatore, Lire 7,10 al padrone della terra dannificata e Lire 7,10 alla Magnifica Comunità».
Se le penalità sono eccessive, più pesante e restrittivo è lo steccato che la legge erige alle spalle della città. «Per riparare a così gravi pregiudizi i confini per lo innanzi» verranno così stabiliti: dalla zona del Nervia, escluso l’aggregato, si potrà lambire le case di Battaglin Orengo e di G.B. Galleani; il Brecco di Roverino sarà confine per le terre di Trucco. I greggi nel Bevera «si potranno nutrire fino all’edificio dei Fratelli Gibelli»; dalla parte d’Olignana fino alla Cappella di San Lorenzo; alla Sgorra e Sealza fino alla Cappella di San Bartolomeo; in regione Latte alla Torre del Magnifico Aprosio e Casa de Giachei; in Zona La Mortola «sin alla Cappella di N. S. dell’Ariverti e Cappella novamente eretta alle Grimalde»; quelli della Villa e Olignana fino a San Lorenzo e Castel d’Appio.
L’inoltrarsi con greggi sulle strade vicinali demarcate era oggetto di un’altra penalità: Lire 20, delle quali 10 all’accusatore, e Lire 10 al proprietario dei terreni lambiti dalla strada.
Anche il Bandiotto imprevidente aveva a sborsare Lire 10 alla Comunità.
Era usanza che gli stessi Magnifici per letamare le terre agregate chiedessero «una o più notti per accumolo di strame». Per così vecchia usanza il parlamento si premura apportare alcuni codicilli dettati da convenienza: «... quando le capre - si sottolinea - dovessero passare da una regione all’altra per dare notti, in quel caso, possano passare per la pubblica strada oltre detti confini ne incorreranno in pena alcuna».
Ne intendevano palesemente ostacolare altre usanze di preto diritto dei pastori; nei mesi caldi i greggi caprini per ragioni di vita del bestiame erano soliti essere avviati alle spiagge «per satinare». Il continuato brucare erbaggi insipidi e aridi poteva apportare malattie all’apparato digerente e ingenerare una ostinata inappetenza. Cibarsi di erbe bagnate di rugiada marina e salsa, sorseggiare acqua salina, bagnarsi sul bagnasciuga significava la salvezza del bestiame e l’ottima riuscita in latte.
Si legge nell’ordinanza: «Potranno passare su strade vicinali senza incorre in pena alcuna li quattro mesi dell’estate, per quelle tal volte ... senza però dannificare ad alcuno».
Il 27 Aprile il cancelliere Angelo Aprosio estraeva rigorosa copia che consegnava «al Cavalero Giuseppe Bottaro per una grida solenne». Il 29 e 30 dello stesso mese e il 2 di maggio, il Bottaro «ad alta, chiara et intelligibile voce, presenti et audienti molte persone» ne fa per tre volte proclamazione in Ventimiglia «in solite piazzette et inanzi la Cattedrale» e nel luogo di Airole e in quel di Bevera. (vedi Copia auten. Delib. Parl. cart. 247)
LA VOCE INTEMELIA anno XLVIII n. 9 - settembre 1993
Benedetta corda !
di Nino Allaria Olivieri
Autorità ecclesiastiche contro autorità civili; secchie rapite e campane rubate; Storie di altri tempi, di ogni villaggio e storia di Ventimiglia.
Volgeva l’anno 1713, era la prima domenica di dicembre; con buona alacrità e febbrile lavoro, sei operai, sotto la direzione del maestro della pietra, Francesco Borgogno, oriundo di Perinaldo ed emulo del dotto Cassini, lavoravano al tetto della “Loggia Pubblica”.
Occorreva porre in loco una grossa trave in quercia alla sommità del tetto.
Mastro Borgogno cercò corde «atte alla bisogna, lunghe e di buona resistenza al peso».
Né nella Comunità, né alla darsena ve ne era alcuna.
Fu dietro suggerimento di un Officiale dell’Ospedale di Ventimiglia, alla cui cura e capacità era stato appoggiata la manutenzione dell’Orologio e delle Campane della cattedrale, che Mastro Borgogno ripiegò sulla lunga e robusta corda pendente nel campanile.
Erano presenti due dei tre Consoli: il magnifico Antonio Ricci e Antonio de Lorenzi.
Richiesto loro il permesso e ricevutolo, furono inviati due operai sul campanile che staccarono la corda «e in breve tempo la recarono presso la Loggia alla bisogna, per indi riportarla, entro mezzora dall’amozione, sul campanile».
Il fatto urtò la suscettibilità non tanto del capitolo e del prevosto, quanto quella degli oppositori all’operato del Senato.
Sette tra gli oppositori recarono presso la Curia una lettera di accusa e di denigrazione contro il Borgogno «uomo senza religione e turbatore della giurisdizione ecclesiastica».
Il Procuratore Fiscale della Curia, con non celata soddisfazione, si pose di subito ad istruire il processo di inquisizione.
Molti della Città si allarmarono. Il Borgogno a suo nome e a difesa degli operai ricorse ai componenti il Senato che, in pubblica riunione, sentiti i due concedenti e gli ufficiali dell’Ospedale, stillarono lettera oppositiva, corredata da ferme giustificazioni.
Si diceva che il Borgogno aveva agito «ed imposto sotto permissione» che per decreto dell’Universalità l’Orologio, le campane e le corde erano di loro proprietà e cedute in custodia all’Ospedale; che «ab immemorabile» erano gli ufficiali dell’Ospedale a far le compere a spese del senato; che pertanto la corda era di proprietà comunale «anche se ad uso e bene della Chiesa Cattedrale».
La conclusione venne perentoria. «Noto a tutti i presenti, che dopo un quarto d’ora la corda venne riportata in suo loco senza danno alla cattedrale e che in quel tempo non fece funzione alcuna».
Il 17 dicembre, verso sera, il Magnifico Bernardo Galleano e G. B. de Lorenzi, a loro volta, recarono altra lettera oppositoria presso il Procuratore Fiscale e alla presenza del magnifico G. B. De Rubei e Giuseppe Molineri ne richiesero copia.
La contrapposizione non rifiutò le richieste modalità legali del tempo, ma assunse toni di tragicità.
Trascorse due ore, nel Portico del palazzo vescovile, il Notario e cancelliere della Curia diede lettura della lettera alla presenza di Antonio Pallanca e di Bartolomei Biamonte, testi a ciò chiamati. Il 18, a sera, il Procuratore Fiscale, esaminato a lungo l’esposto (forse a malincuore) emetteva sentenza definitiva.
«Nulla per causa a non procedere non essendo, in questa circostanza ritrovato delitto di lesiva immunità ecclesiastica.»
Fu fatto pervenire ai due Procuratori ed ufficiali l’atto di sentenza nulla ... «La quale scrittura sortirà suoi effetti dopo di che il segretario del Capitolo avrà di presenza resa notizia che la corda sia, in vero, risalita sul campanile e suo loco et senza danno alcuno».
Una postilla a calce della sentenza menzione che lo stesso Vicario generale sottoscrisse il tutto «et mandavit Promitoribus Civitatis omnia ed effectum sententiæ».
A distanza di quasi trecento anni, ci si potrebbe chiedere se gli amministratori di allora non avessero avuto altri problemi cui porre mano. Forse che sì, forse che no. Anche questa vertenza resta uno dei tanti tasselli che concorrono ad illustrare la storia di Ventimiglia. Due poteri pronti ad urtarsi per un non nulla.
Uomini eletti all’amministrazione ed attivi per il bene della Comunità non dovrebbero essere un esempio ?
LA VOCE INTEMELIA anno LIII n.10 - ottobre 1998
LE BANDE DEI “BARBETTI”
1745
Alla morte dell’Imperatore Carlo VII, nel 1740, Maria Teresa d’Ungheria e l’elettore di Baviera ne pretesero entrambi la successione sul trono d’Austria, sostenuti: lei da Inghilterra e corona Sarda, lui da Prussia, Spagna, Francia. Genova rimase neutrale, ma ciò non impedì all’ammiraglio inglese Mathew di venire a Ventimiglia , nel febbraio 1744, per cercare eventuali provviste nemiche, dandosi a sperperare le farine e incendiando anche la casa di Antonio Rossi, console di Spagna. Solo allora Genova inviò un certo numero di granatieri còrsi al comando di Domenico Invrea, che si diedero persino a restaurare il Forte del Colle.
Il 2 aprile i Gallo-Ispani varcarono il Varo e occuparono Nizza, costringendo le truppe piemontesi ad imbarcarsi su navi inglesi ormeggiate a Villafranca per ritirarsi ad Oneglia, dando modo ai Gallo-Ispani di entrare nell’Intemelio.
Il comandante Invrea, su richiesta, dovette lasciar passare le forze spagnole che, da Garavano e dalla Penna, vennero ad accamparsi nelle Asse fino a Bordighera. Di qui una colonna marciò su Oneglia e un’altra si portò all’attacco di Dolceacqua che fu messa a sacco l’11 maggio, seguita da Pigna, Isolabona, Seborca, Apricale, Broglio e Perinaldo; mentre Oneglia, invece, costrinse i Gallo-Ispani a ripiegare nel Nizzardo.
Il 22 aprile 1745, vi ammassarono sessantamila uomini, mentre il 1° maggio Genova firmava con Francia e Spagna l’alleanza d’Aranjues, dichiarando di farlo a salvaguardia dei suoi diritti siglati nel trattato di Worms. Da Nizza, l’11 maggio l’esercito entrò nel genovesato alleato.
A Ventimiglia l’infante Don Filippo prese alloggio nel palazzo di Pasquale Galleani e rafforzò la guarnigione.
Partito l’infante, forze sardo-piemontesi aggregate a bande di «barbetti», comandate dal Cavaliere Alfieri, scesero per la valle del Roia fin sotto le mura di Ventimiglia, dove ottennero dal Capitano Sperone il libero ingresso per impadronirsi della guarnigione francese; assicurando di non dar molestia al popolo. Impadronitisi della guarnigione francese e delle sue derrate, rubarono anche le mercanzie degli abitanti caricando di preda 150 cavalli e muli, da portare a Nizza. I marinai di alcune barche ancorate sul lido si aggregarono e levarono l’ancora carichi di bottino.
Dopo qualche tempo, una banda di quattrocento «barbetti», guidati da certo Olivieri di Cuneo, scesa a tutelare le retrovie attorno a Ventimiglia, operò malversazioni di ogni genere, finché il loro capo venne sorpreso, rintanato in una caverna dei Balzi Rossi. I briganti resistettero e una cinquantina cadde fino a quando il capo fu ferito a morte e trasportato nell’ospedale della città, dove spirò. Intanto la flotta bombardava Savona, Genova, Finale e San Remo.
A margine della guerra, Pennaschi e Breglienchi aumentarono i disaccordi di frontiera sulla gestione di acqua e pascoli; intanto che gli abitanti di Castelfranco e di Pigna si battevano, aiutati dai soldati genovesi, francesi e sardi, i quali finirono per saccheggiare Pigna e bombardare Castelfranco.
dagli appunti di Filippo Rostan - 1970
1710 - L’INONDAZIONE DEL ROIA
di Nino Allaria Olivieri
Il «Libro primo del Capitolo della chiesa cattedrale», per i curiosi di storia locale, riporta una notizia affatto religiosa, ma a tema meteorologico. Per la rarità dell’accaduto, il canonico segretario non volle tralasciare di relazionarne minuziosamente «a memoria dei posteri». Fu infatti un avvenimento che fece tremare i ventimigliesi, allarmò il Capitolo e mons. Mascardi, da quattro mesi Vescovo in Ventimiglia.
Era il 13 del mese di dicembre. L’estate era trascorsa in totale siccità; l’autunno secco e accaldato, aveva, tuttavia permesso un passabile raccolto. I vini, anche se in quantità ridotta, ribollivano a ottima gradazione; la raccolta delle olive, iniziata, prometteva ottimo olio. Ma da Bevera, dalle Torri e gli Olignani lamentavano scarsità d’acqua per frangere. Si indissero vari giorni di «sequella» per la dragatura dei Bedali. Si paventò, per non perdere il raccolto, di frangere «a sangue».
Fra i mille dubbi, quanto meno attesa si presentò la catastrofe. Nella notte del 9 dicembre, con guizzi e frastuoni, i primi radi goccioloni; fu ben presto acqua insistente: durò tutta la notte, si intensificò il giorno 10 e 11 con brevi soste.
Nella notte, tra ore di serenità, un fortissimo vento dal mare sferzò la Marina, alcuni tetti vennero spazzati via; dall’Annunziata a Morodebò sradicò olivi, scoperchiò il Convento dei Padri Conventuali; gravissimi danni subirono le Case canoniche e il vicino Monastero. Con tutta la sua foga limacciosa - mista a detriti - il fiume Roia si allargò verso la piana del Convento mentre forti raffiche di vento ne ostacolavano il delusso in mare.
Il giorno 12, alle ore 10, riprese a piovere a grande intensità. I Ventimigliesi si allarmarono: il Parlamento, impotente, allertò i cittadini e chiese al vescovo Mascardi di indire una processione per impetrare l’aiuto divino e del loro patrono San Secondo.
Il vescovo decretò, seduta stante, quanto erano i desiderata dei cittadini. Scrisse al Capitolo e stabilì che lo stesso giorno, 13 dicembre, alle ore 23 Capitolo e Clero fossero partecipi alla processione di penitenza «per portare le reliquie di San Secondo, stante il caso repentino dell’inondazione del fiume Rotuba e gonfiatura del mare».
Il Capitolo delegò il tutto al Prevosto «onde verso le ore ventitré dato il segno con le campane, radunata la città con sue torcie delle case, e quattro della chiesa, presente mons. vescovo, il Capitolo e il Clero e popolo di tutta la Città si è con fede portata sopra la cassa e sotto baldacchino la Santa Reliquia sino alla metà della piazza».
La processione dalla piazza si inoltrò al Cavo; il can. Ricci «fatta l’officiatura e recitate le orazioni ad petendam serenitatem impartì al fiume Roia, al mare, all’aere e alle nubi la benedizione con la Reliquia nel busto, scongiurando».
Rientrati in Chiesa cattedrale, cantato il Miserere «ognuno si è ritornato a casa e l’area si è rischiarata, il mare livellato et il fiume consumato». (vol. I, Relaz. Capitolo, 1710)
LA VOCE INTEMELIA anno XLIX n. 12 - dicembre 1994
La pace della guerra di successione d’Austria venne firmata in Aquisgrana, il 18 ottobre 1748, dopo di che la Zona Intemelia visse un quarantennio di relativa pace, avendone assoluta necessità. Quattro volte i Gallo-Ispani la avevano attraversata, e tre gli Austro-Sardi; Dolceacqua fu bombardata e così Castelfranco; tre volte espugnato il Forte del Colle a Ventimiglia e Monaco sbarrata. Gli Inglesi sbarcarono in Ventimiglia e bombardarono San Remo; per due volte bande di “Barbetti” rapinarono i dintorni di Ventimiglia. Invece Nizza trasse molto profitto dalla presenza e dal passaggio delle truppe franco-spagnole, col materiale che vi sbarcarono, tanto che si asserisce dell’arricchimento di molti.
Quei fatti d’arme avevano evidenziato la vulnerabilità della Pianura Padana se aggredita attraverso la via litoranea ligure, mentre Genova si rese conto dei rischi che una strada di tale importanza strategica avrebbe potuto procurargli, pur nell’evidente decadimento. Quindi, la lasciò andare in rovina, cosicché in avvenire si fosse poco invogliati ad utilizzarla. Per contro, Vittorio Amedeo II, seguendo le dritte di Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I basò invece la sicurezza dello Stato sulla viabilità, in specie quella della strada Nizza-Tenda-Torino, la quale avrebbe concesso di movimentare più agevolmente, verso il Piemonte, truppe e rifornimenti sbarcati a Nizza. Nel 1780, dette inizio ai lavori per trasformarla, sicché quando Nizza venne annessa alla Francia, verso la fine del secolo, il francese Benoit Lamothe così ammise l’eccellenza di quei lavori: «Le chemin de Tende, qui est une espèce de quai de plusieurs lieues de longueur, est un monument digne des Romains».
Qui applicata e oggi distrutta, una placca commemorativa, portava la seguente iscrizione in lettere di bronzo, rilevata dall’abate Bonifaci:
«Vittorio Amedeo III, re di Sardegna, sempre più attento all’interesse pubblico, al fine di rendere più rapido il trasporto di merci a partire dalle rive del mare, attraverso le province subalpine, con un atto di singolare preveggenza e con un’ammirevole perseveranza, ha riparato e condotto a buon fine questa strada aperta un tempo da Carlo Emanuele I di Savoia, , per le bestie da soma e le vetture. Egli ha abbassato le cime assai vicine dei monti, gettato ponti, costruito muri, allargandola a 18 piedi per renderla atta a ricevere veicoli e spianandola da Limone fino a Nizza su 45 mila passi.
Fatta nell’anno 1784. Disegnata ed eseguita dall’architetto P.A. Cappellini»