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S E I C E N T O

R E G R E S S O

In questo secolo la giurisdizione del Comune ventimigliese comprendeva ampi territori, con Airole, in Val Roia e tutta la bassa Val Nervia. Confinava a levante col comune di San Römu, a nord coi comuni di Dolceacqua e Penna, a ponente col torrente Garavano, alle porte di Mentone. Importante supporto al Comune erano le Otto Ville: Camporosso, San Biagio, Vallecrosia, Sasso, Vallebona, Borghetto, Soldano e Bordighera, che fornivano un terzo dei rappresentanti del Parlamento ed un terzo dei Sindaci. Queste erano amministrate da due Consoli nominati dal Comune e dovevano partecipare ad ogni sorta di gravame amministrativo, traendo scarsi benefici locali. Gli incarichi d’onore e gli uffici amministrativi venivano conferiti ai soli ventimigliesi: il Priore del Consiglio, il Governatore dell’Ospedale, l’Ufficio d’Annona, Ufficiali di Milizia, Maestri Razionali, Tesoriere, erano cavati dall’ordine dei Magnifici, per prepotente consuetudine.

 

    L’istituzione dei “Magnifici”, richiamata da costumi spagnoleggianti, ha portato la degenerazione pubblica della maggior parte della classe nobile. A causa dell’elevato costo per il sostentamento del presidio militare, la Repubblica pensò seriamente a smantellare le difese al Forte del Colle. L’intera cittadinanza, come i commissari inviati dalla Repubblica, in considerazione del ruolo strategico della città, avversarono il paventato smantellamento del Forte; destinando un nutrito gruppo di guarnigioni per il Ponente ligure. A Ventimiglia vennero distaccate trentadue compagnie per un totale di 2.795 uomini.

 

 

LA  REAZIONE  DEI  PLEBEI

E  DEI  VILLANI

di Nino ALLARIA OLIVIERI

    La notte della Pentecoste del 1625, Ventimiglia inizia la rivolta che la storia chiamerà la “reazione dei plebei contro i Patrizi”. Il principe Vittorio di Savoia da Oneglia marciava sulla città; da Genova - con cinque galere e cinquecento fanti di rinforzo - s’era appressato alla bocca del Roia il generale Giustiniani: venuto a terra, ispezionato il Forte e le milizie locali, radunò il Parlamento e i Nobili per comunicare loro la non resistenza e la impossibilità di organizzarla. Il suo fu un dire chiaro; i nobili ignavi e timidi accettarono e applaudirono. Le milizie locali, in parte uomini delle Ville, e non pochi facinorosi gridarono al tradimento non solo contro Genova, ma verso i Patrizi, che per anni avevano servito e dei quali avevano sopportato le angherie in gabelle e sequelle.

    La mattina del 18, lunedì di Pentecoste, la città si destò in tumulto. Del fatto, i documenti conservati nell’Archivio vescovile, ne tramandano minuziosa descrizione. Sono atti, testimonianze giurate, sentenze e condanna dei protagonisti.

    Si legge: «Il 18 maggio 1625 il popolo rompe gli indugi: vuole giustizia. Ñon pochi iniqui e poco memori della salute delle loro anime, il giorno di Pentecoste osarono entrare nel Palazzo vescovile, nel quale risiedeva il Vescovo, armati, e violentamente estrassero alcuni cittadini e cittadine della Comunità, che si erano rifugiati per evitare il furore, che contro loro aveva eccitato il popolo della città e delle Ville; con la violenza entrarono nel Palazzo infranti i ferri delle porte».

    È il prologo del lungo processo, iniziato pochi giorni dopo gli avvenimenti, e terminato con condanna il 13 giugno e fatto pervenire dal giudice secolare al fisco ecclesiastico.

    Questi i fatti e i protagonisti. Il nobile Porro, di 22 anni, alfiere delle milizie locali, ritrovatosi braccato dai rivoltosi, di buon mattino cercò riparo nelle stanze del Palazzo vescovile; per identica ragione lo seguì il Magnifico Francesco Riccobono e il figlio Giuseppe, cui si unirono il signor Orengo Clemente, Augusto Porro e Giannettino Bernaus.

    I rivoltosi, in robuste schiere, portavano la protesta per la contrada dell’Oliveo e nella Piazza. Si assemblarono nella Piazza antistante la Cattedrale urlando, imprecando contro i nobili: «Ladri, pecoroni». Accortisi che alcuni avevano scelto il Palazzo vescovile a loro rifugio, «inscenarono forte protesta, ne seguì tumulto, urlando, sotto la finestra del Palazzo: ladri, bastardi, imbroglioni».

    Era impensabile un qualsiasi atto di difesa. Padre Allavena, ohe trovavasi in Palazzo per suo ufficio, si affacciò gridando «Viva San Giorgio». Aveva scorto che era il ventimigliese Mariantonio Costa il capo sommossa ed era suo amico. La folla rispose al sacerdote: «Calate, poco coraggiosi, venite fuori».

    Mariantonio rompe ogni indugio, afferra una grossa pietra, spezza i ferri del portone e «per primo, armato di moschetto e pugnale nudo si inoltra per le stanze. Lo seguono Bernardo Bellone di Vallebona con altri due, uno di Bordighetta e l’altro di Soldano. Tutti armati: detto Bernardo di moschetto e li altri doi d’archibuggio».  Narra nella sua deposizione processuale il Magnifico Orengo: «et arrivandoci da in anzi la porta- con pugnale nudo in mano, disse verso di noi che calassimo, e rivolto a quello di Bordighetta se non calassi disse mi tirasse un archibuggiata».

    Impaurito, l’Orengo si avvia all’uscita; si imbatte in Battò Viale detto «il Verga», che «voleva sparare una moschettata verso di lui». Padre Allavena è presente; si avventa contro il Verga «che mandò a vuoto il bersaglio». Deporrà ancora: «Me ne andai in chiesa; vennero molti soldati armati che feccero molto strepito e violenza, ma non li conobbi essendo molto alterato e fuori di me».

    Nel Palazzo continua la ricerca dei Nobili. Il Costa e il Bellone salgono alla secondo stanza, trovano il Magnifico Orazio Sperone e Agostino Porro, che costringono a scendere in Piazza. Depositeranno di quel pauroso momento: «Mi trovavo nella camera del Palazzo che resta verso la piazza, venne Costa di Ventimiglia e Bellone con spada nuda in mano e con moschetto e micia in atto di sparare. Gridava: Che viva, che viva, ed io risposi: San Giorgio».

    Nel Palazzo si è rifugiato il nobile Clemente Orengo. La sua deposizione è quanto mai esplicativa. Dirà: «Non vidi alcun armato in Palazzo perché quando sentìi, al principio, che dicevano: vengono, sono qui, parecchi cittadini e cittadine ci ritrovammo in una stanza del Palazzo e serassimo la porta della stanza che resta, mettendoci dietro per tenerla chiusa; sentimmo persone che picchiavano alla porta».

    Alla perquisizione non resta estraneo il vescovo Gandolfo, né sono risparmiate le stanze da lui abitate. Sarà la deposizione del Barnaus a narrare ciò che il Costa tentò contro il Vescovo. Nipote di Lichino Ardissone, fittavolo della Torre in Latte, dice ai giudici che vide Costa e Ruscone ed altri ‘armati di moschetto con micia accesa e la spada nuda aggirarsi innanzi alla stanza del Vescovo e gridava «Viva San Giorgio». Parlò con il Costa, lo consigliò a far cercare le chiavi «e mentre si partivano alla ricerca di dette chiavi mons. Vescovo aprì di dentro e ne tornò in dietro e detto Costa entrò nelle stanze e guardò con Mons. sino nella sua stanza». La perquisizione nella stanza del Vescovo non acquietò il Costa; mons. lo accompagnò «fino sopra la porta del Palazzo persuadendolo di volersi acquietare». Incolpò il Vescovo di nascondere i ribelli, al che il Gandolfo replicò «Non faccio queste cose».

    Il sabato 18 giugno il Tribunale ecclesiastico, sentito i giudici secolari e ravvisato il delitto di violenza fatta al Vescovo, decreta scomunica maggiore al Costa, al Bellone «perché detti iniqui restassero segregati dalla partecipazione delli meriti di Madre Chiesa e del commercio con i fedeli e dell’ingresso in Chiesa».

(v. Archivio Vescovile, Criminalia, 6 A 6. 1625)

LA VOCE INTEMELIA anno XLIX  n. 1  - gennaio 1994

 

 

Reddito ed esito

1634     

                                                                                                                                      di Nino Allaria Olivieri

Il 17 maggio 1634 il Parlamento e i sindaci, appena eletti, ricevono, a seguito di, loro istanza, una sintetica “dichiarazione” dell’introito e reddito di essa Comunità che procedono dalla vendita delle Gabelle - vendita che si fa di tre anni in tre anni - e della vendita degli erbaggi - quando si vendono - che con occasione di guerre e contagione si è mancato per anni detta vendita.

Stesore della dichiarazione ne è il Cancelliere Razionale, Melichio Fenoglio: uomo di scanno, meticoloso a non dirsi. Da anni impegnato a contabilizzare le poche ed incerte entrate è sua premura il premettere che alcune gabelle non furono introitate per eventi bellici “e contagioni”. Notevole calo di domanda e conseguente mancato introito si ebbe dal 1631 causa il contagio, che falcidiò il bestiame minuto. I bandiotti, in prevalenza dell’Alta Val Roia, per plausibile paura, non avevano partecipato al bandimento. La situazione era nota ai sindaci. Chiamati a governare e determinati a risollevare le sorti della Comunità occorreva loro la conoscenza delle fonti di entrate e di uscite. E il Fenoglio non usa termini nebulosi: telegrafico nella enumerazione, quasi se a lui impiegato, nulla importasse, dichiara che: «lo introito e lo reddito è di L. 9465 ma l’esito, ovvero sortita, è di L. 16109,16».

Affianca una spiegazione. Enumera ogni cespite di entrate e ogni uscita: nell’uno e nell’altro caso dichiara che, in avvenire, occorrerà buona amministrazione.

Sono redditi: le varie gabelle a cui soprastanno i mestrali, e si vendono sempre a lire 150 all’an­no per una entrata di L. 6550. La terza parte delle condanne criminali inflitte dai capitani in numero di 80 per un incerto e variabile introito di L. 90, cui si assommano L. 30, terza parte delle multe fatta dai mestrali. Ottimo il censo annuo di Mentone, Dolceacqua, Castellar, Piena, per la somma di L. 1450.

Con altre tanto distacco, il Fe­noglio enumera le uscite ossia debiti a cui la comunità deve, in ogni modo, far fronte.

Grava un censo annuale della Serenissima Camera per L. 6845; gli stipendiati e altri per L. 1519. I salariati della sanità, per i quali si spendono L. 32 al mese, per la somma di L. 304 annue.

Il governatore, il capitano, gli alfieri, i sergenti richiedono ogni mese L. 125 per il logoramento degli utensili di guerra e l’esborso annuo sale a L. 1380.

Pure “dar l’oleo alli corpi di guardia reca spesa di L. 120”.

Le spese di pagliacci, coperte, tavole, cavallotti e altre accidentali che arrivano a somma di L. 600”.

Alle spese militari si affiancano quelle “de tutti li uomini della Universalità”. Il ponte in legno, che emette alla Bastia, richiede spesa per L. 200.

“È del parlamento provvedere alla Cattedrale di corde per le campane e per due organi et altri ripari per L. 40”. “A merito di re­sidenza e di povertà il Rettore in Bevera riscuote un censo annuo di L. 91, 16.

Alle spese di comune amministrazione il Fenoglio fa seguire l’ammontare di impegni gravanti da tempo la comunità. Non possono i sindaci dimenticare “le fuori straordinarie” che possono salire a somme di buon rilievo: le andate dei sindaci in Genova o in particolari missioni; la “diaria” dovuta ai messi di lettere.

Gravano i prestiti contratti in Genova per la costruzione delle Mura  con l’annuo versamento di L. 700 e “per L. 4000 de frutti de L. 806 alla ragione di 5 per cento, che ha da versare di debito alla Comunità oltre le L. 1600 che al presente si ha da liberare per via di cottemo, conforme alli ordini lassati dal signor Nicolò Zoagli”.

E ancora una volta il cancelliere Fenoglio riassume e affer­ma: “In tutto annuale debito di L. 16.109-16. Senza ombra di malizia, è giusto pensare che il meticoloso razionale abbia tra sé e sé pensato: “a voi il da farsi: non siete sindaci ?

(Arch. Vesc. Civil. Fol. 135)

LA VOCE INTEMELIA anno LI  n. 3  - marzo 1996

 

Vandyck

 

Le strade da Nizza a

Ventimiglia, nel 1624

di Nino Allaria Olivieri

    Fu il 1624 un anno di trepidazione e di non celate paure per la città di Ventimiglia. Genova aveva ammassato forti guarnigioni di milizie a Camporosso, in previsione di un attacco da parte del Duca Carlo Filiberto I e poiché, a seguito del convegno a Susa, Genova si vide assediata da preponderanti forze sabaude, ritirò  - a difesa della città  - tutte le guarnigioni dislocate nelle fortezze della Riviera. Ventimiglia conservò il suo presidio, cui venne affidato il compito della difesa nella eventualità di un attacco da ponente, da Nizza.

    Fu ordinata, da parte del Magistero della guerra, una dettagliata enumerazione di ogni possibile strada di accesso alle mura della città di Ventimiglia.

    La relazione risultò minuziosa (vedi Foglietta Militarium, Fz. 1140, anno 1624) e drammatica; si acclarò quale fosse il lato vulnerabile delle sue difese e per quali strade o facili accerchiamenti fosse possibile attentare alle mura della cerchia.

    Il relatore enumera cinque percorsi di accerchiamento; specifica che come punto di sfondamento sarebbe stato di certo scelto Porta San Francesco e Porta San Michele, anche perché il bastione di Santa Croce ed altri posti ‘della cerchia avrebbero opposto valida resistenza. Il passo della Fontana di Peglia venne indicato quale certo punto di transito e di accerchiamento, al compiersi delle cinque possibilità di attacco.

    Si legge: «Partitesi di Mentone per strade honeste, assai presto si arriva nel paese e dominio della Rep.ca di Genova dove, lontano un miglio in circa, vi è Balzi Rossi: passo forte e facile a trincerarsi e guardarsi con venti in trenta moschettieri continui ...».

    A rifuggio alli moschettieri si indica una «torre delli Raspandi, sudditi di Monaco». A mezzo miglio poi della città può fare fronte al nemico «una torre sopra il passo con porta a rastrello, sopra la strada detta Porta Canarda, passo tortissimo e facile a difendersi di dove si va in città alla Porta San Francesco, resta il camino in essa sotto il Forte San Paolo ...».

    Al nemico si offrono due possibilità: se Canarda resiste all’urto, «si può passare alla Sealza e per Sant’Antonio ... venirsene per due strade alla città», una verso Bevera e per strada malagevole pervenire alla fontana di Peglia.

    L’altra dalla terra delle Ville e superato il Castello d’Appio convergere  sia a Porta San Francesco che a Porta San Michele ... «passando similmente sotto il Castello San Paolo parte coperti, e parte scoperti lontani da esso un’archibuggiata».

    Le truppe savoine avrebbero potuto iniziare l’azione di accerchiamento da molto lontano.

    Per la strada del traffico del sale «commoda per carri» si arriva a Sospello. In Sospello «si potria far massa di gente di tutte le Ville e Castelli» e puntare su Ventimiglia «per il passo dell’Olivetta, passo facile a guardarsi e continuando con strade cattive si arriva all’Ostraforco; si viene alla volta della Città».

    Una terza possibilità si presagiva da Sospello con percorso più lungo e faticoso. In Val Roia il dominio sabaudo amministrava Breglio, aggirando il Castello della Penna transitando per Breglio, Saorgio e Briga e Tenda «e altri luoghi di detto dominio di Savoia per le montagne e boschi chiamati il Lione, Pascale et altri Boschi con strade non molto buone e difficilissime per l’ordinanza, ma facili alla sfilata», incidere su Pigna, sfondare il ponte di Bonda e transitando per Isolabona occupare Dolceacqua per puntare con l’ala destra, attraverso il fiume Roia alla Porta San Michele.

    Alle truppe savoine si presentava l’ultima strada. La strada Apricale - Perinaldo con tutta facilità avrebbe avvicinato alla piana di Camporosso e alla città di Ventimiglia «non essendovi riparo di natura alcuno».

    Le cinque previsioni, in parte si avverarono l’anno successivo.

    Il 19 maggio del 1625 l’esercito sabaudo è alle porte di Ventimiglia pronta a difendersi.

    Scoppiano tumulti fra gli stessi abitanti; in Ventimiglia si bruciano i registri delle tasse, si dimostra ostilità alle stesse autorità genovesi. Il vescovo calma gli animi e i tumulti.

    Il 20 maggio Amedeo Vittorio entra in città proveniente da Albenga. L’armata, partita da Nizza per via montuosa, sbuca su Pigna, attacca Baiardo, assedia Triora per congiungersi, dopo distruzioni, al forte dell’armata in Ventimiglia.

LA VOCE INTEMELIA anno XLVII n. 2  - febbraio 1992

 

 

IL BURIGELLO E L’UOMO DI CASTELFRANCO

1670

di Nino ALLARIA OLIVIERI

    Espletavano l’uno e l’altro quel giovedì del 2 di ottobre del 1670, in Ventimiglia, alle prime ore del giorno, il proprio compito. Il Burigello, con buona scorta di sbirri controllava l’annona, il via-vai della gente e i non pochi uomini delle Ville, giunti di buon mattino per smerciare i prodotti della loro terra. E poiché il Parlamento s’era detto inflessibile e di molto severo, la sorveglianza s’era fatta minuziosa a non pensare ai primi dell’inverno.

    L’uomo di Castelfranco - gli atti processuali ne tacciono le generalità - anche lui era sceso alla città per mandato ufficiale della sua Comunità. Lungo fu il suo camminare per strada impervia ma, quale uomo scelto, non poteva nulla recriminare, tanto più che a norma delle clausole, aveva già in parte percepito libre una per ogni cinque miglia da percorrere. Recava in Ventimiglia alquanto denaro, testo di decime dovute alla Mensa vescovile, più volte sollecitate.

    Al Vescovo, inoltre, sempre a nome della Comunità, quale interesse doveva far offerta di un capretto, di ottimi marroni e due fiasconi di olio di prima spremitura.

    All’imbocco del ponte presentò le credenziali ai gabellieri di guardia; sborsò il dovuto in denaro genovese e ricoperto il «corbino con vistosa pezza turchina», attraversò i vicoli del Lago, giunse sulla piazza della Cattedrale. A lato della chiesa aveva già individuato la residenza del Vescovo quando l’urlo imperativo del Burigello lo impietrò come una statua. Gli sbirri stavano per arrestarlo e condurlo nella prigione. L’uomo si dimenò, urlò, gridò all’ingiustizia, si disse pronto a pagare una seconda ammenda.

    Fu allora che il rev. Pietro Pastore, udite le urla, stimò di intervenire. Disse parole concitate ad esortative agli sbirri, né manco di ripetere che il tutto suonava grave offesa alla persona del Vescovo, a cui il povero uomo era inviato.

    Sopraggiunse, nel frattempo, un agostiniano, pré Fabiano Sciorato: era reduce da un colloquio con il Vescovo. Dei due fu il più intraprendente, e poiché il tutto appariva palese offesa al Vescovo, invocò castighi e certe punizioni che quanto prima sarebbe arrivate, firmate da chi sa stare in alto.

    Il Burigello, impaurito, rilasciò il pover’uomo e il Vescovo ebbe decime e offerte. La notizia balzò in Parlamento e nella Curia: i più sorrisero di buon cuore; alcuni fecero del fatto un dire piacevole.

    Di ben altro parere fu il Promotore fiscale, Gino Giacomo, amico del Burigello, il quale - preso penna e pergamena - denuncia al Vescovo con accusa montata a due sacerdoti, difensori di un povero uomo.

    Il 4 ottobre egli scrive: «... venuto a notizia che li giorni pausati conducendo gli sbirri della Corte secolare in prigione un uomo del luogo di Castelfranco, qual aveva presso dì se un certo corbino, il rev. Pastore ebbe ardire di fare resistenza contro detti ministri della giustizia insieme col rev. Pré Sciorato con avergli tolto l’uomo dalle mani».

    Al Vescovo chiede di imbastire un processo e punire con tutta severità gli ecclesiastici colpevoli. E poiché il processo richiede testimoni, all’ora del mezzogiorno fa recapitare un foglio di comparizione al nobile Francesco Aprosio e alla di lui moglie Teodora Vacca, nonché ad un certa Genebrina Rainero di professione fantesca.

    Il Promotore fiscale è a conoscenza che la sua richiesta di condanna rischia di essere in avvenire lettera morta. Nel dubbio sottoscrive altra minaccia ai tre testimoni: «comparent ad injormandam Curiam super forum ecclesiasticum sub pena quattor scutorum aurei piis-operibus applicandi …».

    Prima ad essere interrogata è la nobile signora Aprosio: è di un dire sbrigativo, veritiero e privo di fronzoli; si meraviglia che un prete accusi due confratelli, buoni e di vita cristiana, per aver dato consiglio cristiano ad un soldato rude.

    Non da meno è la fantesca: «udii, conobbi le voci che ben mi son comuni da molto tempo per simil cause, ma non attesi in più perché m’andai in casa per ritirare le mie galline ch’erano scapate ...».

    Ultimo testimone fu il nobile Aprosio: egli tagliò corto; disse il vero, né mancò di far trapelare dal suo dire che in tutta la faccenda predominava astio verso il Pastore e molta simpatia per l’opera e la persona del Burigello.

    Nessuna carta riporta l’esito del processo. Anche sopra questa miseria di uomini, il buon Vescovo - pensiamo - avrà steso un lembo del suo mantello !!

(Arch. Vesc. Vent. Filza 30 cart. 10  - anno 1670)

LA VOCE INTEMELIA anno LXIII n.6  - giugno 2008

 

 

Prospero  Spinola,

capitano  di  Ventimiglia

1683

di Nino Allaria Olivieri

    Il 10 maggio del 1683 il Capitano della Serenissima Repubblica di Genova, in Ventimiglia nella Curia della città, dettava al notaio Francesco Ravizzo, un proclama ai sudditi di qualsiasi condizione e grado.

    Determinato a espletare in tutto il suo compito e a disporre condizioni generali per un vivere ordinato, imponeva alcune regole da osservarsi da chicchessia.

    Il primo impatto con le realtà cittadine mise in evidenza che i vari disordini, i pubblici alterchi, il ricorso a vendette private, erano piaga di gente incolta ed unica correzione restava intervenire con mano forte e alla prigione quale estremo rimedio fare precedere grosse multe. Si spinse oltre: promise a chi denunciasse un contravventore un terzo della pena pecuniaria. Erano rei tutti coloro che per i vicoli, le piazze, nei luoghi di riunione, portassero armi a lama lunga o coltelli da offesa. Con privilegiato consenso, ottenuto dagli ufficiali della Curia, potevano portare arma bianca: i commercianti, i messi e i nobili. Ogni contravventore “o voluto delinquente” doveva essere condannato a due scudi di oro buono da versarsi uno al denunciante e l’altro alla cassa della capitaneria.

    Il gioco delle carte, la frequenza con cui nel corso dell’anno veniva praticato e le crescenti poste, cause di miseria e di indebitamenti, fu preso in debita considerazione. Proibizione assoluta di giocare nei luoghi pubblici, sulle strade, nelle taverne e nelle stesse case private. La proibizione venne estesa a ogni individuo sia “esso nobile, sacerdote, e della plebe”. I contravventori, oltre alla perdita del vinto e alla sanzione di tre scudi d’oro, potevano essere posti, se recidivi, alla berlina in una domenica mattina.

    Il Capitano Spinola, sollecitato dal Senato della Serenissima, con fermezza propria del casato, affrontò il tema malattie, pestilenze, epidemie e sanità. Problema proprio alla città, nel passato, per la sua situazione paludosa.

    In Ventimiglia la nettezza delle strade, delle piazze era quanto mai dimenticata; maiali, pecore, capre, cani, circolavano e pascevano liberamente nelle vie alla ricerca di cibo. Dettava a riparo di tanto abuso: «Si proibisce, trascorsi otto giorni, dalla proclamazione, che i Suini ossia i porchi, i montoni, o capre circolino per le vie; i possessori di detti animali dovranno tenere chiusi in apposite stalle detti animali; le porte siano costruite di buon legno e non lascino trapelare odori. In caso contrario d’autorità saranno uccisi i porchi e ripulite le stalle. Si proibisce tassativamente buttare, ammucchiare bruttura sulle porte di casa e delle stalle, negli angoli e nei pressi delle mura dalla città».

    Lo Spinola sembrava conoscere l’animo dei Ventimigliesi; con decreto apriva il forziere dei sudditi: «I contravventori verranno multati con tre scudi d’oro e se recidivi saranno impiegati alle sequele sino a pulizia ultimata».

    Da vari documenti rinvenuti a corredo del citato proclama e consegnati in Sezione “Criminalia Doc.7” si confermava l’attenzione dello Spinola per le strade Matuzia-Ventimiglia e Ventimiglia-Mentone. Si legge: «E considerando noi che resta conveniente per la pubblica utilità che le strade, tanto d’essa città quanto giurisdizione, tutte siano acconce e comodate e che per esse ogni uno possa trafficare e travagliare comodamente, sì per viandanti che per le bestie, comandiamo perciò ad ognun a cui tocca, niuno escluso, debba fra giorni otto aver fatto acconciare in tutta questa giurisdizione diligentemente le strade sotto la pena d’uno scudo d’oro da applicarsi come sopra, avvertendo che, passato detto termine, si visiteranno dette strade e si castigheranno i delinquenti».

    Il notaio, terminata la stesura e accolta la firma del Capitano, nella stessa mattinata, consegnava tre copie del proclama ai messi: Viale, Antonio Trucchi e Pietro Pegliasco, i quali “a chiara ed comprensiva voce” nei luoghi soliti lo renderanno pubblico. È una lontana pagina della moderna Ventimiglia, un ripetersi di problemi sempre attuali, ma un ricordo che in quel lontano 1683 un pubblico ufficiale tentò, forse senza riuscirvi, di farne un paese vivibile. È il ritorno della storia.

(Criminalia Vol. 7 Curia vesc.)

LA VOCE INTEMELIA anno LXIII n.6  - giugno 2008

 

 

LE  GRIDA  DEL  CAPITANO

STEFANO DELLA TORRE  -  1609

di Nino ALLARIA OLIVIERI

    Era l’anno 1609. Reggeva la Capitaneria di Ventimiglia e sua giurisdizione il nobile genovese Stefano Della Torre. Malgoverno, disordini, opposizioni che destabilizzavano ogni istituzione in una città carica di incertezze e nella quale covavano pericoli di eventuali sommosse. La piaga del banditismo locale imputridiva non meno di quella della Repubblica: in Genova il Senato aveva allertato la zona occidentale per la fuga dalle prigioni genovesi dei banditi Murragliano e Guercino, autori di vari sequestri.

    Anche il Capitano Della Torre si rese conto della necessità di un fermo intervento; individuò due situazioni contro cui urtarsi e porre ottimi ripari, opporsi al banditismo locale, frenare le frequenti risse fra gli stessi abitanti e portare alla minima decenza il vivere cittadino.

    Il 13 maggio 1609 emette un duro decreto-grida, suddiviso in dodici atti proibitivi; non solo volle fosse affisso al Palazzo di giustizia; inviò messi sulle piazze e nelle ville che a forte voce portassero il contenuto «ai ricchi et a chi non sà di lettera».

    Per primo, ai bestemmiatori e ai «negatori del divino» assegnò pene severissime. Riconfermava, per licenza dal Senato di Genova i banditi Guercini, banditi capitali e la taglia decretata dal senato sarebbe stata data a chi «tra gli uomini di nostra Città o sua Giurisdizione, ne avrebbe recato il capo reciso o indicato il luogo onde il cadavere posasse».

    Altra ricompensa a chi rivelasse l’abitazione «dei vari malfattori, che grassano li abitanti nelle ville o sulle strade».

    Un occhio di particolare interesse gettò sulla vita quotidiana degli amministrati e i loro passatempi. «Le ostarie o sia begude (bettole) sono luoghi di mala vita» per ciò né i proprietari né i gestori in esse «permettine gioco alcuno né rappellazione alcuna» sotto pena di chiusura, di tratti di corda e «di scuti doi per ogni uno d’essi rappellatori».

    Risse, percosse, ferimenti è quanto può attendersi da chi frequenta l’osteria, affinché la giustizia possa agire con sicuro intervento comanda: «a li barbieri (erano allora medici, infermieri) et altri a queli accadrà medicare alcuno ferito o percosso debbano subito venirlo a notificare in Corte».

    Il Capitano teme che. o per denaro o per paura, alcuni della Città si uniscano ai banditi; per i compiacimenti, decreta oltre le pene severissime della Repubblica ad altre a lui riservate. Troppe armi: spade, draghe, stiletti, spadini sono portate liberamente per le strade, «alcuni di notte e di giorno recano archibuggio da ruota e simili»  con pericolo di vendette o di sommossa. «Né vi sìa persona alcuna di qualsiasi stato, grado e condizione, portare armi tanto offensive come difensive sia di giorno che di notte». Le pene ai trasgressori sono: multe, tratti di corda, prigione, espulsioni e sequestro dei beni. Ai forestieri di transito, o con breve sosta portatori d’armi, si ordina: «leghino dette armi e non legandole cascheranno nella istessa pena».

    Il libero vagare di bestie sulle strade in città, i pollai nei fondi di casa, i cani lasciati in libertà, l’immondizia, sempre più crescente, e il timore di epidemie spingono il Della Torre a drastiche ordinanze.

    «Si ordina che coloro che hanno porci nella Città, o pecore, cani e capre, sia di giorno che di notte non debbano presumere lasciarli andare per esse strade, sotto pena di scudi due per ogni volta».

    «Non sia lecito buttar immondizie né brutture né far staggi inanzi le case e quintane ... e chi avesse dette brutezze debba fra dieci giorni ... aver netato e levato tutto». Pena quattro scudi per ogni volta.

    Particolare attenzione è rivolta alla manutenzione delle strade. L’ordine è dato «a chi appartiene conciar le strade e vie publiche dinanzi a loro case o vero possessioni, orti et altri luoghi e territori». Il tutto da farsi in dieci giorni sotto pena di un scudo oltre le spese di cavalcatura.

    Ordini e grida del lontano 1609, ma quadro a tinte scure di quel modo di vivere. Se i secoli tracollano «il picciol germe di seme antico ancor germoglia».

(vedi “Grida del Cap.no Della Torre, Archivio Vescovile, Ventimiglia)

LA VOCE INTEMELIA anno XLIX n. 10  - ottobre 1994

 

 

Il  bandito  Revello

da Breglio  -  1610

di Nino ALLARIA OLIVIERI

    Di prima mattina, il 29 marzo 1610, il Burgello Sanguignone, Giacomo Rossi e Giacomo Carbone, escono in servizio da Porta Nizza. Ispezionano le guardie del rastrello di Porta Canarda per proseguire, con passo svelto, al posto di guardia in Ciotti, sito nella vicinanza del guardino del magnifico G. Concenda.

    Lungo la strada si imbattono in un uomo di nazionalità francese, timoroso, lo sguardo smarrito. Si fa conoscere e con voce concitata narra della sua avventura. Tre giorni innanzi, in Ospedaletti, era stato bastonato, schiaffeggiato e derubato di tutto il denaro. Ne aveva fatto denunzia al podestà di San Remo, il quale aveva nell’aggressore individuato Francesco Revello da Breglio, un bandito della più grossa risma.

    Sul Revello pendeva una taglia e correva voce che si aggirasse attorno alla città di Ventimiglia.

    I quattro discorrevano delle cose avvenute quando: «un uomo di grande statura - scriverà il bargello nella relazione - pieno di vita, vestito con calzoni di panno nero, gippone di tela bianca, calzette di cordonato turchini, scarpe nere e capello nero tondo, un ferraiolo attorno di panno burello. Aveva un piatto pieno di pesci» si fa loro innanzi.

    Al burgello sembrò il Revello; il francese urlò essere l’uomo che in Ospedaletti lo aveva bastonato e derubato.

    Venne arrestato. Legato con corde ai fianchi e alle mani, venne in Ventimiglia rinchiuso nel carcere “dalla porta di ferro”. Scrive ancora il bargello: «Cercato se avesse qualcosa adosso, trovarono un volume dì processi, un mandillo, una coronetta, del filo bianco e delle agoglie con non poche pezzette: un forcone di ferro in archibugio, una medaglia di ottone nuova, quale ha da una parte Madonna e dall’altra un Cristo con doe Marie. Due patachi di Savoia e una moneta di argento, cui leggesi P.G.S. - G.H. Gr».

    II Capitano si portò alle carceri per vedere il prigioniero. Vennero chiamati due bregliesi residenti in Ventimiglia. conoscenti del Revello. Accese le candele e fattosi alla prima porta della prigione il Capitano chiamò a voce alta il Revello e Revello rispose. Fattolo avvicinare alle sbarre anche Genesio Gallo di Breglio lo riconobbe e lo dipinse uomo forte, di furbizia diabolica, capace di ogni azione.

    Per maggiore sicurezza si dispose il trasferimento del prigioniero al carcere del Forte San Paolo. Scortato dagli uomini della guardia salì al Forte seguito da gente curiosa. Rinchiuso “in turris eiusdem Castri” ebbe piedi e mani legati “con molti giri e sicurezza”.

    Gli atti processuali si fermano alla pura cronaca. E a noi resta che sognare e decretare la triste sorte.            (Crim. 6  4 fol. 75)

LA VOCE INTEMELIA anno LI  n. 5  - maggio 1996

 

 

Il Vescovo Promontorio e il

Diritto  di  Asilo

di Nino ALLARIA OLIVIERI

    Vincitore delle milizie savoine all’assedio della Penna e «del Brecco», il Maestro di campo Giovanni Del Prato è accolto trionfalmente dal Parlamento e omaggiato di ricca spada. Temendo, tuttavia, nuovi attacchi dal versante dell’alta Val Roia, con grande perizia militare inizia a riorganizzare l’esiguo gruppo delle sue soldatesche. Tra i soldati stremati dalle passate fatiche e in parte decimati dagli scontri serpeggia scoraggiamento; da parte di alcuni ufficiali si spinge alla diserzione e si tentano approcci con ufficiali del Principe Amedeo II di cui si conosce l’intento di portare nuovo attacco sulla terra genovese.

    Fautori del malcontento e delle diserzioni sono l’alfiere Riformato Moreti e il caporale Giorgio Neri, entrambi della compagnia Comando. Nella notte del 6 settembre 1672 durante una ennesima riunione di «subordinazione» a cui partecipavano molti soldati, sono scoperti per delazione e trovandosi in grande pericolo e consapevoli delle punizioni loro spettanti, si danno alla fuga «scalinando le muraglie della cinta della città ...».

    Il Neri, «ufficiale e reo principale», si rifugia all’Annunziata nel convento dei PP. Minori Osservanti, fuori le mura. Chiede ed invoca il diritto di asilo ecclesiastico, che con bolla il Papa Gregorio da non molto aveva ricordato a tutti i belligeranti.

    Le ricerche del fuggitivo non danno alcun esito; si è sul punto di sospendere «ogni diligente ricerca ed inquisizione ancor nei campi» allorché «per lingua troppo corrente di un conventuale» il Magistro di Campo viene a conoscenza del «loco e del vivere del reo sergente». Con lettera «di tutta urgenza» e di suo pugno chiede al Padre Guardiano e al Vescovo Promontorio l’estrazione. Si legge: «Si teme la fuga e di molte conseguenze, perciò si supplica V. S. Ill. di degnarsi di concedere facoltà di estrarlo da detto Convento con le clausole e le cautele ordinarie ...».

    Il vescovo Mauro temporeggia; ignaro dei fatti fà inquisire sulla personalità del fuggitivo e sulle ragioni. Alcuni giorni dopo darà risposta riservando alla Sua autorità ogni giusta interpretazione dei casi contenuti o espressi dalla Bolla gregoriana: «... il caporale Neri verrà estratto dal Convento e consegnato ai Ministri del braccio secolare e indi carcerato nelle Carceri Secolari a nome della Chiesa sino a che fosse deciso e dichiarato se esso Caporale ritiratosi in detto Convento godesse l’immunità ecclesiastica ... ne segue necessaria conseguenza che esso gode la immunità ecclesiastica in maniera che deve essere restituito alla Chiesa cioè Convento ...».

    Le clausole sono lette, discusse e sottoscritte dal Magistro Prato, da G. Agostino Filippi, suo auditore e da Giovanni Sapia il lunedì 26 settembre 1672.

    Il Vescovo permette la estrazione per la seguente ragione: «...eo quo Curia Ecclesiastica non habet Carceres ad hoc ubi custodiri possit et dummodo custodiatur Curie Seculari». Il 21 dicembre nella sala del Del Prato, magistro della guerra, sita sulla Piazza Pubblica, vicino alla casa di Giulia Maria Fenoglio, si sottoscrive atto definitivo per l’accettazione delle clausole.

    Il Vescovo studia il caso, raffronta decreti, chiede consigli e dopo quaranta giorni, poiché la Bolla gregoriana non faceva espressa menzione né la fuga era nei casi considerati «usa carità paterna e sentenza salomonica». «... alla quale fine, nel giorno d’oggi premesse le solite citazioni nelle maniere e forme più civili et a lei di più soddisfazione ho deciso e dichiarato che il delitto di fuga commesso dal detto caporale non è delitto espressamente considerato dalla Bolla gregoriana, e che però vi sii luogo alla promessa scarcerazione e restituzione ... che perciò in ordine alla mia carica ho stimato necessario dar parte alla S. V. illustrissima della detta mia deliberazione e di­chiarazione con trasmettergli la qui annessa copia». «Si compiaccia perciò in osservanza si della promessa fattami».

    Della decisione del Vescovo ne è informato il Senato della Repubblica di Genova, il quale scriverà al Magistro di Campo al 20 febbraio 1673: «Duce e Governanti della Rep. di Genova: ill.mo Magistro, all’avuta di questa, liberate dalle Carceri il soldato Giorgio Neri e lo farete riporre nella Chiesa di dove è stato estratto, dandone notizia a cotesto Vescovo per la decisione che ha fatta di godere l’immunità della Chiesa. Tanto eseguirete».

    Il 24 febbraio innanzi alla Curia e al Palazzo vescovile veniva affisso altro decreto: «ordinava militum Neri Giorgium reponendum esse in Ecclesia Sanctæ Annuntiationis R.rum PP. Minorum Observantium a qua fuit extratus ut ex actis».

    Il 25 dello stesse mese di primo mattino i messi della Curia, Lodisio Gardone e Carlo Viale attestano di aver condotto e depositato il nominato soldato Neri nella Chiesa del convento. Firmato signor Filippi notaio della Curia Secolare di Ventimiglia.                        (vedi Arch. Vescovile Filza 40, n. 32 anno 1673)

LA VOCE INTEMELIA anno XLVII n. 11  - settembre 1992