Epidemie storiche |
Dal Seicento al chiudersi dell’Ottocento, come hanno dovuto sopportare molti territori europei, anche il ventimigliese è stato percorso da ferali epidemie, che lasciarono il loro carico di morte, cambiando di fatto il modo di vivere. Il Seicento della peste nera e l’Ottocento del colera.
IL VESCOVO GANDOLFO
E LA PESTE DEL SEICENTO
di Nino Allaria Olivieri - 1992
Agli inizi del 1628 una nuova ondata di peste invadeva la Liguria: nella Lunigiana si segnalarono i primi casi all’inizio del mese di maggio: altre notizie, purtroppo allarmanti, venivano dalla Provenza e dalla città di Lione. Unico rimedio per il Magistrato della Sanità fu ancora quello di allertare le città rivierasche e i grossi nuclei abitativi della zona di Ponente. Si elessero i magistrati della Sanità cui si concessero pieni poteri. Anche la città di Ventimiglia ebbe le sue guardie e due posti di controllo sorsero sulla strada romea di Latte e nelle adiacenze di Porta Canarda.
Agli uomini della sanità si doveva ricorrere per il “libello sanitario o cedola”; erano controllate le uscite delle persone e delle merci.
Le imposizioni non sortirono gli effetti desiderati, perché coloro che si trovavano in posizione di privilegio per censo, di famiglia o di religione, per non soggiacere a controlli non mancarono di escogitare sotterfugi a danno della salute pubblica.
Una categoria che non seppe sottostare alle leggi e a numerosi divieti furono non pochi ecclesiastici: i frati regolari e i questuanti «et alcuni uomini di ordini detti i misericordianti». Di tali abusi una lettera della Curia Romana ne fa edotta la stessa Magistratura della Sanità e lo stesso Vescovo Gandolfo.
Con lettera del 31 Agosto 1630, da Roma, il Cardinale Onofrio scrive al vescovo: «Non pochi ecclesiastici e religiosi tentano di introdursi furtivamente, senza boletta e vengono da posti banditi, senza dichiararsi sospetti di caniaggio (sic). Per quanto nella sua Città e diocesi ella abbia notizia che regolari, sia di qualsiasi ordine, congregazione, o istituto capitano senza boletta di sanità e obbedienza dei superiori, procuri di farlo carcerare e punirlo severamente per esempio degli altri secondo stimerà conveniente ...».
Il 7 ottobre, poiché si accrescono gli abusi, un’altra lettera dello stesso Cardinale Onofrio ordina al vescovo Gandolfo di usare ogni punizione propria dello stato laicale «esclusa la pena di morte o altre pene ripugnanti alla pietà dei sacri canoni».
È consigliato al vescovo la pena della scomunica, della sospensione a divinis, la privazione dei benefici di officio e di dignità. Potranno essere applicate pene pecuniarie e corporali «citra mortem».
Il Vescovo Gandolfo così pressato, il 16 di dicembre emana solennemente «la Tavola della Sanità» per gli ecclesiastici, religiosi e qualsiasi essere posto sotto la Corte Vescovile. Sono dieci capitoli, i quali resteranno noti quale «tavola o decalogo nel periodo di calamità».
Inizia coll’esprimere ai Canonici, ai Prepositi, ai curati e agli aventi cura d’anime il rammarico dei suoi amministrati di non attendere alle leggi del Magistrato della Sanità. Preannunzia le pene spirituali e pecuniarie «a chi di qualsiasi dignità e ordine d’ora in poi non si attenesse alle sue disposizioni».
Vuole sotto pena di scomunica che i «Capituli» siano letti ai fedeli. Sono dieci; l’uno si interseca agli altri; si aggirano in sottigliezze, senza lasciare dubbio di incomprensioni o della minima chiarezza. Sono rivolti al clero diocesano e a tutti gli ordini , congregazioni esistenti nella diocesi.
Si proibisce il pentirsi «ove si fosse scoperta o avuta notizia di peste ed entrare in Diocesi senza fede o patente di sanità. Nessun ecclesiastico ardisca metter piede nel territorio della Diocesi se passato in luoghi sospetti o creduti infetti, ancorché in possesso di boletta».
Occorre l’espressa licenza del Magistrato della Sanità. La Boletta di ogni religioso deve recare nome, cognome, patria, statura, età, pelo, effige e contrassegni. Ai «rastrelli di Sanità» non si conceda libero transito se la «boletta» ha più di venti giorni di rilascio. Chi porterà boletta falsa, manomessa, con firme illeggibili, corretta, comprata, imprestata, firme di sanitari di fuori diocesi, dovrà essere fermato ai «rastrelli» e quanto prima consegnato alla Corte Vescovile. Altre pene a quei religiosi od ecclesiastici che ardiscono imprestare e regalare bolette.
Si proibisce di introdurre qualsiasi minima mercanzia o robbe nuove o vecchie, anche se si asserisce di provenienza non infetta.
Sotto pena spirituale a giudizio del Vescovo sarà punito ogni religioso che darà alloggio a persona di dubbia provenienza; non si dia cibo o bere, né si ardisca tenere alcuno per guida o per aiuto.
Si fa obbligo a chi fosse a conoscenza di religiosi entrati furtivamente in Diocesi di farne denuncia al Vescovo, che quanto prima a norma delle licenze concessagli, non mancherà di una condanna pecuniaria o spirituale.
Anche i «Dieci Capituli della Sanità» sono disattesi. Non pochi ecclesiastici della stessa diocesi di Ventimiglia eludono ogni controllo sanitario della sanità e lasciate le vie romee, per strade traverse escono dalla diocesi privi di boletta. Colti in fallo, con sentenza perentoria sono sospesi a divinis e privati del beneficio.
Tre religiosi francescani provenienti da Nizza eludono i due cancelli di sanità a Latte e a Porta Canarda. Si presentano in città; denunciati e fatti prigionieri, immediatamente sono giudicati e condannati alla secolarizzazione; al superiore, per non aver osservato i «Capituli», la sospensione del mandato.
(Vedi Arch. Vescovile, Filae 119 N. 257).
LA VOCE INTEMELIA anno XLVII n. 7 - luglio 1992
La peste
e “l’aceto dei sette ladri”
di Nino Allaria Olivieri - 2000
Dal mese di giugno dell’anno 1656 al maggio del 1657 la calamità della peste investì tutta la Liguria. Genova contò i propri morti in numero di novemila; Savona, Oneglia, San Remo non furono meno colpite.
Ventimiglia e alcuni villaggi a fondo valle, anche se non in numero eccessivo, dovettero piangere i propri morti: i registri parrocchiali, riletti di sfuggita, enumerano i decessi «di uomini e donne adulti duecento ottanta quattro». Le tombe gentilizie e patronali erette nelle varie chiese cittadine e il cimitero presso San Giovanni al Cavo non furono sufficienti e non pochi cadaveri rimasero lungo tempo in attesa di sepoltura.
Il locale parlamento si rivolse al vescovo Promontorio affinché indicasse un nuovo sito idoneo nella impossibilità di reperire alcunché attorno e fuori le mura della città, dopo divergenze inutili, si indicò uno spiazzo presso la Bastia, oltre il Roia. Di facile soluzione fu la sepoltura dei morti nelle masserie fuori le mura: il vescovo ordinò fossero sepolti «in loco, fuori abitato, con sopra un segno di croce».
Al problema cimitero si aggiunse l’opera caritatevole e dovuta del trasporto e del rito della sepoltura che con suo decreto il vescovo ordinò «provvisoriamente sia come rito solo la santa aspersione». All’acuirsi della calamità altro problema fu il reperire uomini atti al prelievo dei cadaveri.
Le confraternite di San Giovanni (Bianchi) e della Buona Morte (Neri), il cui primario fine era accompagnare i fratelli e i poveri cessarono, in parte, la dovuta opera di misericordia.
La paura aveva preso il sopravvento. Gli abbienti e chi aveva terre fuori città vi cercarono rifugio. L’aria pura e il vivere solitario avrebbero risparmiato sia il terrore del veder morire, sia la vita. La città di Ventimiglia poteva dirsi deserta.
Costretti dal giuramento e da umanità operarono alcuni medici, due sacerdoti e un numero imprecisato di miserevoli che alcune carte del tempo ricordano con il nome di “Scioatori”, cioè “Becchini”.
I becchini, segnati di una croce bianca sulla schiena e accompagnati da due messeri, anch’essi crociati in azzurro, percorrevano due volte al giorno le strade di Ventimiglia, annunziando, a chi occorresse, la loro opera con il ritmato suono di un campanello.
Non mancavano di prudenza. Il volto loro era coperto da una maschera nera terminante a becco di uccello (forse da questa maschera il nome di becchino). Pure i medici usavano prudenza. Da varie carte di archivio se ne ricava una ben buffa fotografia. Chiamati presso un malato, e i malati erano per lo più di nobile famiglia locale, indossavano una lunga veste di marocchino, sigillata al collo e dai polsi stretti, una maschera con lungo e capace becco di uccello entro cui era una spugna o cotone imbevuto di varie essenze aromatiche; anche le mani erano inguantate e impugnavano una bacchetta di ferro con lama per l’apertura di eventuali bubboni.
Per prevenzione ogni medico faceva uso di particolari e studiate essenze. Il chirurgo Bono consigliava ad un suo collega l’uso dello “aceto dei sette Ladri”, composizione, al tempo, in uso presso i medicastri dei paesi e da lui appresa da una certa Sommariva «inquisita ed assolta nei passati processi». «Deve essere di buon rimedio se la poveretta non fu condannata».
Lo “Aceto dei sette ladri” era un assieme di erbe alcune aromatiche, altre velenose e diuretiche, che rubate in sette orti e da sette ladri, poste per sette giorni a macerare in aceto avrebbero, per virtù di fermentazione, impedito il germe pestifero di entrare dalla bocca e dalle nari. Le scuole mediche del tempo consigliavano la Teriaca, antidoto reale e universale di Andromaco, protomedico di Nerone imperatore.
Tanta e tale era la prudenza che di essa il padre Anton Maria, agostiniano scalzo, testimonio occulare della peste in Ventimiglia e Genova scriveva: «Sanitari, infermieri, ministri del culto adempivano il loro ufficio stando ricoperti con cappe incerate. Procedevano calzati per non calpestare cose infette. Odoravano spongie imbevute di aromi. Gli ambienti erano disinfettati, facendo accendere qualche fascio di ginepro. Era poco meno che cascare nell’acqua senza bagnarsi o nel fuoco senza abbracciarsi».Non mancavano di prudenza. Il volto loro era coperto da una maschera nera terminante a becco di uccello (forse da questa maschera il nome di becchino). Pure i medici usavano prudenza. Da varie carte di archivio se ne ricava una ben buffa fotografia. Chiamati presso un malato, e i malati erano per lo più di nobile famiglia locale, indossavano una lunga veste di marocchino, sigillata al collo e dai polsi stretti, una maschera con lungo e capace becco di uccello entro cui era una spugna o cotone imbevuto di varie essenze aromatiche; anche le mani erano inguantate e impugnavano una bacchetta di ferro con lama per l’apertura di eventuali bubboni.
Per prevenzione ogni medico faceva uso di particolari e studiate essenze. Il chirurgo Bono consigliava ad un suo collega l’uso dello “aceto dei sette Ladri”, composizione, al tempo, in uso presso i medicastri dei paesi e da lui appresa da una certa Sommariva «inquisita ed assolta nei passati processi». «Deve essere di buon rimedio se la poveretta non fu condannata».
Lo “Aceto dei sette ladri” era un assieme di erbe alcune aromatiche, altre velenose e diuretiche, che rubate in sette orti e da sette ladri, poste per sette giorni a macerare in aceto avrebbero, per virtù di fermentazione, impedito il germe pestifero di entrare dalla bocca e dalle nari. Le scuole mediche del tempo consigliavano la Teriaca, antidoto reale e universale di Andromaco, protomedico di Nerone imperatore.
Tanta e tale era la prudenza che di essa il padre Anton Maria, agostiniano scalzo, testimonio occulare della peste in Ventimiglia e Genova scriveva: «Sanitari, infermieri, ministri del culto adempivano il loro ufficio stando ricoperti con cappe incerate. Procedevano calzati per non calpestare cose infette. Odoravano spongie imbevute di aromi. Gli ambienti erano disinfettati, facendo accendere qualche fascio di ginepro. Era poco meno che cascare nell’acqua senza bagnarsi o nel fuoco senza abbracciarsi».
LA VOCE INTEMELIA anno LV n. 3 - marzo 2000
IL COLERA DEL 1884
di Nino Allaria Olivieri - 1997
La tragica situazione sanitaria creatasi in Ventimiglia per il colera di Marsiglia, passato alla storia con la dicitura ingentilita di “Morbo di Marsiglia”, trova una perfetta sua cronistoria nella “Positio super vita et fama sanctitatis” del Servo di Dio, Tomaso Reggio, vescovo di Ventimiglia dal 1877 al 1892.
Riproporla in fuggevole sintesi fa rivivere una triste ed eroica pagina di quel non lontano tempo, che fu di trepidazione per la popolazione e occasione di azioni eroiche.
È agli inizi del mese di maggio del 1884 che dal di là delle Alpi pervengono notizie di una epidemia non bene identificata, la quale, lungo le spiagge della Provenza, semina morte. Le autorità governative italiane si pongono in giustificato allarme e prestano particolare attenzione alla frontiera di Ventimiglia, possibile canale e via di accesso di individui portatori di morbo.
Nel mese di giugno il colera, ha il suo epicentro in Marsiglia: i morti non si contano più e non si vede un ripiego per bene sperare. Molti abitanti del nizzardo cercano scampo verso l’Italia con pressione alle Grimalde.1
Il 3 luglio si insedia in Ventimiglia il Commissario governativo Noghera. Reca circa seicento militari, che disporrà di guardia lungo i crinali oltre il Grammondo e in Latte stabilisce la sede del “cordone sanitario”. Latte diventa centro operativo: posta, medici, operatori sanitari. Tutto è pronto per accogliere in quarantena oltre duemila ricoverati.
Il vescovo Reggio richiama sacerdoti e operatori alla cooperazione. La risposta, anche se non del tutto negativa, trova corrispondenza eroica in don Nicolò Noaro, parroco della Cattedrale che, con cristiana abnegazione, lascia la cura della parrocchia ai canonici e si porta a vivere, notte e giorno, nel Lazzaretto. I registri parrocchiali notificano la sua opera sacerdotale: 11 battesimi, 21 decessi.2 Altri documenti descrivono dei molti atti di sacrifici e di carità da lui compiuti.
Il 4 luglio fu il giorno del primo e massiccio arrivo, cui ne seguirono altri, anche se di minore intensità. Il 19 luglio il vescovo Reggio chiede, con le lacrime agli occhi, dopo aver invocato lo Spirito Santo al termine di una messa celebrata nella cappella delle Suore di Santa Marta, che quattro suore si offrano per opera di assistenza presso il Lazzaretto. Lui stesso le accompagnerà. Trascorrono sei giorni, un fatto increscioso, che porterà ad alcuni arresti, turba il lavoro delle buone suore: alcuni infermieri tentano di violentare due di esse: la calma rientra nel Lazzaretto dopo l’arresto dei facinorosi.
La prevenzione non dà i frutti sperati. In Ventimiglia si verificano casi sporadici di morte, ma nel complesso la popolazione resta serena. Non pochi cercano rifugio nelle vallate.
Nel mese di agosto il morbo di Marsiglia fa registrare un’impennata nel distretto di Bordighera: sono colpiti alcuni pescatori e, nel rione dell’Arzilia, due intiere famiglie vi troveranno la morte.
A fine agosto la arroccata Seborga dovrà contare, sopra una popolazione di 312 anime, ben 35 persone decedute a causa del colera. Nei dintorni cresce il terrore. Il parroco chiede aiuti spirituali e materiali. È una richiesta fatta a vuoto. Sarà, fra i molti, solo il sacerdote Gerolamo Leardi a recarsi volontario in Seborga per prestare la sua opera di prete e di infermiere. Il buon Leardi morirà poco dopo, forse non a causa del morbo.3
È da giudicare il caso di Seborga come a se stante. Il 12 settembre, riportano le cronache che il Prefetto e il sottoprefetto, alla presenza del generale De Sonnaz, si recarono in Latte e sciolsero il cordone sanitario.
Pericolo scongiurato dunque. Il vescovo, impressionato dai fatti di Seborga, si era premurato di chiedere aiuti ai fedeli della diocesi. Il 1° ottobre si reca in Seborga, visita le famiglie una ad una, si interessa della salute e di ogni situazione famigliare.
Reca le offerte raccolte, che distribuirà di sua mano. La somma era di Lire duemila.
(da “Posìtio Canonizationis”, Archivio Vescovile, Ventimiglia)
Note:
(1) Intere famiglie sceglievano i passi del Cardellino e del Cornà per sfuggire al controllo di quarantena mentre il grosso dei fuggiaschi entrò lungo la ferrovia Nizza-Ventimiglìa. Si calcolò che, ai primi del mese di luglio, il numero salì a 3.700. Fu creata una sorveglianza marittima.
(2) È certo che il numero dei decessi fosse di più alta entità; alcuni dei morti erano di nazionalità francese e di credo ebraico. Venivano sepolti nelle vicinanze dei baraccamenti, in fossa comune, dopo aver cosparso i corpi di calce.
(3) Venne sepolto in Seborga; il Vescovo volle onorare la sepoltura inviando il suo Vicario Generale.
LA VOCE INTEMELIA anno LII n. 2 - febbraio 1997