Federico Palmero e Renzo Villa – giugno 1978
LA VOCE INTEMELIA
Al giorno d’oggi, bere un buon bicchiere di vino nostrale sta diventando
ancor più un lusso che pochi possono permettersi. Pensare che un tempo,
proprio dalle nostre parti, si coltivava così tanta uva, di talmente
tante qualità di vitigni,1
che non si trovava casa dove non si consumasse vino fatto in proprio,
non acquistato dal vinaio; anzi tutti ne facevano tanto da vendere.
Nei villaggi agricoli, quasi tutte le case erano attrezzate di un
pergolato, dove ritrovare il fresco in estate, sul quale si protendevano
i tralci di alcuni vitigni, che a settembre permettevano l’assaggio dei
gustosi acini.
La terra del nostro territorio, argillosa e marnosa, in cui hanno
sedimentato frammenti di rocce preesistenti; asciutta e scaldata dal
sole, è quella più adatta ad impiantarvi una vigna; cosicché, fin dai
tempi antichi, ci si sono ambientate molte qualità che giungevano da
ogni parte del mondo conosciuto.
Prendiamo in esame il nostro vino più famoso, il “Rossese di Dolceacqua”,
conosciuto in ogni dove.2
Pare si tratti di una qualità di Nebbiolo, che era coltivata nella zona
attorno a Ventimiglia, fin dal tempo degli antichi Romani.3
Al crollo dell’Impero Romano, il passaggio delle orde barbariche ha
determinatola quasi scomparsa di quel vitigno, del quale si hanno
scarsissime notizie, nel corso del medioevo; mentre è certa la ripresa
della sua coltivazione al sorgere del Libero Comune Marinaro. Quelle
vigne si sono poi consolidate, tendendo ad ingrandirsi nel corso di
tutto il lungo periodo della Dominazione Genovese.
Si racconta che il Rossesse fosse piaciuto molto a Napoleone, che nel
1798 era stato ospite dei Marchesi Doria, in Dolceaqua, tanto che se ne
era fatto inviare molte botti alla corte di Parigi.
Anche Camillo Benso, conte di Cavour, riconosciuto buongustaio, lo
avrebbe bevuto volentieri, fin da quando, giovane luogotenente del Genio
Sabaudo, era stato in Ventimiglia, per la ristrutturazione delle
fortificazioni di Forte San Paolo e dell’Annunziata.
Il Rossese è un’uva nera, dolce, che matura a grappoli piuttosto radi,
composti da acini non molto grossi, i quali in maturazione volgono in
rosso carico. Il risultante vino è rosso, di quel rosso che gli
intenditori chiamano “rubino”. Si tratta di un vino corposo, rotondo,
che realizza dai tredici ai quindici gradi, lasciando in bocca un gusto
di liquirizia, affinata da una punta di dolce. Può essere bevuto già a
sei mesi, ma se viene lasciato un po’ affinare, giunto a compimento,
assume un gusto ed un profumo di rosa appassita, aggiunto a quello della
violetta, divenendo di color mattone. Non essendo disposto
all’invecchiamento, dopo una decina d’anni, secondo le annate, si
sveste, perdendo colore e gusto, gravandosi del poco esaltante sapore
della sorba. Certamente, il Rossese è un vino che non può invecchiare,
dato che si è più disposti a berlo che a tenerlo in cantina.
Un tempo, si vinificava anche il Rossese passito, il quale raggiungeva i
diciassette o diciannove gradi; mentre qualcuno piantava i vitigni di
Rossese bianco, che produceva bellissimi grappoli di color
giallo-dorato, rilasciando un vino bianco secco che arrivava ai tredici
gradi.
Esistevano molte vigne famose, di Rossese, oggi rappresentate dai siti:
“Terre Rosse”, “Terre Bianche” e “Tramontina” a Camporosso;
“Addolorata”, “Arcagna” e “Rocchini” a Dolceacqua; “Posatoio”,
“Garibaudo” e “Abrigheto” a San Biagio della Cima; “Pini”, “Beragna” e
“Fulavino” a Soldano; “Curli”, “Möglie” e “Massabò” a Perinaldo.
Era menzionato anche il Rossese prodotto a Latte, nelle vigne di “Piemattone”,
dei “Trinchi” e dei Marchesi Orengo; non era da meno quello fornito dalle
vigne “Pietrino”, “Colletti”, “Batine”, “Rugliae”, Fasciasse” e “Sette
Cammini” presenti nelle due Mortole.
Un’altro vino, forse meno antico del Rossese, ma non meno valido, è il “Varlentin”,
ossia il Vermentino locale;4
che
comunque è già menzionato nel 1400. Non possiamo accertare di essere
stati i portatori di quel vitigno in Sardegna, oppure siano stati i
Saraceni ad introdurlo sul nostro territorio, così come nella Gallura,
in provincia di Sassari.
Si coltiva in filari, ma si può avviare a ricoprire pergolati, lasciando
una catena di cinque o sei gemme sul tralcio, al momento della potatura;
quando invece le viti coltivate a filari, ne chiedono soltanto due.
Il Varlentin è un vino bianco, secco, delicato, con una gradazione di
dodici o tredici, che lascia in bocca un gusto di mandorla amara. Si
accompagna bene col pesce. Un tempo si vinificava la qualità dolce,
passita, che arrivava a diciassette diciotto gradi, esponendo i grappoli
d’uva ad appassire su graticci. Di questa qualità era famosa la
produzione di “Nonno Baciccia”, nella Piana di Latte. Varlentin se ne
coltivava poco, per trovarlo in quantità bisognava recarsi a Bussana,
Diano Castello e Diano San Pietro.
Un vitigno del quale non si conosce bene la provenienza è la “Massarda”,
detta anche “Tabaca”;5
che
matura a grappoli allungati, non troppo corposi, con acini a forma di
uovo. Il vino è bianco, dorato, secco, con gradazione alta per i
bianchi: tredici gradi e oltre. Emana profumo di rosmarino e di timo,
lasciando un retrogusto di nocciolo di pesca. Un tempo, era conosciuta
la produzione dei “Colletti” a La Mortola, attuata dalla vigna di
“Raffaele”, che oggi è stata eliminata dalla costruzione
dell’Autostrada. Oggi la produzione di “Massarda” è limitata nelle Valli
Nervia e Verbone.
Un vitigno che è quasi scomparso, è invece quello della “Barbarossa”6
che un tempo, era coltivata sia in filari, sia su pergolati. Produceva
grappoli robusti, serrati, con acini tondi e grossi, d’un colore che
propendeva al rosa, simile alla buccia della cipolla. Il vino era
leggero, undici gradi o poco più, pronto da bere a quattro mesi, che non
possedeva profumi speciali, lasciando un gusto vinoso e forte, che non
si conservava a lungo. Oggi è presente soltanto con rare piante, nel
corso dei filari di altri vitigni.
Altro vitigno raro è la “Cruairöra”7
che, un tempo era coltivata su pergole e serviva ad aiutare le altre uve
nere, dato che non possedeva un suo gusto particolare; era soltanto
dolce, nei suoi grappoli lunghi, con acini ad uovo, d’un colore rosso
carico, quasi nero.
Il sopraggiungere della filossera ha eliminato totalmente il vitigno “Peruseta”,
a causa della propria inammissibilità all’innesto sui ceppi americani.
Si faceva salire sugli alberi d’ulivo, dove produceva grandi quantità di
grappoli non troppo serrati, con acini ad uovo, col colore della paglia,
che sulla superficie emettevano quella peluria che ne ha causato il
nome. Dava un buon vino bianco, sugli undici gradi, da bere già dopo i
tre mesi; per nulla adatta all’invecchiamento.
Altro vitigno sparito per il medesimo motivo, è stato la “Marcivuira”,
anch’essa addossata agli alberi, produceva grosse quantità di grappoli
serrati in grossi acini rotondi, che maturi assumevano un colore marrone
come quello dei datteri, facendoli credere quasi marci, da dove il nome.
Un vitigno proveniente dalla Grecia e dalla Sicilia, che si era adattato
bene sul nostro territorio è stato il “Moscato”; che si coltivava a
filari e produceva piccoli grappoli, con radi acini tondi, non grossi,
d’un color bianco carico. Il nostro Moscato arrivava ai quattordici
gradi, mentre quello passito giungeva fino ai diciannove, o venti. Ne
esisteva anche un’altra qualità, chiamato “Moscatellone”, che forse
veniva da Pantelleria. Si trattava d’una uva da tavola, dolce, con
grappoli di radi acini gialli, allungati a palla da rugby.
Tra i moscati, resta da segnalare il “Moscatello Nero”, vitigno
proveniente dall’Egeo, che però dispone d’un robusto grappolo di acini
d’un bel colore rosso carico. Serviva per dare profumo ad altri vini,
tanto che in passato si mescolava al Rossese, nella misura del cinque
per cento. Aggiungendo un dieci per cento, si otteneva un ottimo
“rosatello”, il vino rosato.
La “Malaga” è un vitigno che giunge dalla Spagna e si coltiva ancora
nelle nostre Vallate. Produce un grosso grappolo, piuttosto rado, che
concede un vino giallo, quasi arancio, abboccante, che quando si versa
tende al frizzante. Arriva a dodici, tredici gradi, sopportando
l’invecchiamento, con l’avvertenza che volge al secco, assumendo il
color mattone, se non ha subito un buon affinamento.
Il vitigno dell’uva fragola, che assume il nome di “Merela”, o “Frambuàsa”,
si insediava in ogni dove; essendo di ceppo americano, si faceva salire
sulle pergole, da dove faceva pendere grappoli radi, di media grandezza,
con acini rossi e tondi. Il vino è leggero, dolce, a undici gradi, rosso
chiaro, col gusto di fragola, che frizza un poco in bocca. Deve essere
consumato nell’anno, ottimo nella stagione calda, semmai tenuto al
fresco, perché toglie la sete.
Un certo Giausseran, che possedeva una vigna di uva fragola, alle
“Ciape” di Garavan, presso Mentone; vinificava un nettare rosso chiaro,
sui tredici gradi, che non tralasciava nessun profumo o gusto di
fragola, ma del quale non ha tramandato il segreto.
A Dolceacqua si coltivava l’uva d’inverno,8
e forse qualcuno lo fa ancora. Per conservarla e poterla gustare
d’inverno, quando era matura, tagliavano l’intero tralcio per porlo in
un vaso di vetro, contenente acqua e carbone di legna.
In qualche angolo sperso, si può ancora trovare piante di “Pisciu de
can”, un’uva da tavola, rossa, con grane lunghe un po’storte in punta,
come un piccolo cuore. Una vera rarità, oggi, è la “Lugliénca”, un tempo
presente, che maturava a luglio, in prossimità del giorno sedici,
festività del Carmine, che gli faceva assumere il titolo di “Uva della
Madonna”.
NOTE:
1)
I vitigni coltivati in Europa ed, in particolare nella regione
mediterranea, appartengono al genere «Vitis vinifera L.». Essi, a causa
della diversità del clima, dei differenti tipi di coltivazione e di
terreno, nonché per effetto delle ibridazioni, hanno dato luogo a oltre
cinquemila qualità.
2)
Sull’etimologia del nome “Rossese” si avanzano varie ipotesi: la più
corrente che esso derivi dal latino «russeus» (rosso carico), ma vi è
anche chi lo fa derivare da «rocense»: vitigno che prospera sui terreni
rocciosi.
3)
«Se è indubitato, come afferma Tacito, che Agricola sia nato in Frejus,
è chiaro peraltro, che egli nasceva di madre Ventimigliesa; che anzi al
dire dello Spotorno, Giulio Grecino padre, noto pei suoi studi sulla
cultura delle viti, avrebbe potuto far utili esperienze degli studi
prediletti sul suolo intimiliese, cotanto celebrato in tutti i tempi per
la produzione dei prelibati suoi vini».
G. Rossi STORIA DELLA CITTÀ DI VENTIMIGLIA - pag.
18 - ristampa FORNI 1973.
4)
Vermentino: per la forma «Varlentin»: cfr. i provenzali «verlantin» e «barlantin».
Mistral TRESOR DOU FELIBRIGE ll.o, 1106 R. Berenguié 1968.
5)
Tabaca: deriva forse dal color biondo-tabacco degli acini maturi.
6)
Barbarossa: secondo Mistral si chiamerebbe così perché introdotta da
Barbe-Russe, famoso corsaro e ammiraglio turco, il cui vero nome era
Khair Ad-Din, il quale conquistò Algeri e Tunisi e contribuì alla presa
di Nizza, nel 1543. Potrebbe dunque trattarsi di un vitigno d’origine
medio-orientale o nord-africana.
7)
Cruairöra, in
italiano croatina. Per l’etimologia si veda il pignasco «Kruayra» (...)
è il nome di una specie d’uva «l’uva che piace ai corvi»; ma forse è
attendibile anche l’ipotesi che il nome derivi da «cröà» (staccarsi dei
frutti dal ramo) poiché effettivamente tale uva, giunta a completa
maturazione, tende a cadere al minimo urto o anche soltanto per effetto
di un leggero vento.
G. Petracco Siccardi TOPONOMASTICA DI PIGNA pag. 118, Bordighera
1962.
P. Carli DIZIONARIO SANREMASCO-ITALIANO, Tip. Ligure 1971, pag.
256.
8)
Üva d’inverno: prodotta dal vitigno, di origine francese, «Saint-Jeannet».
Le Vallate del Territorio Intemelio, aperte a Meridione, col loro aspetto collinare, formato di argille e marne, fin dall'antichità ospitarono la coltivazione della vite, che produsse numerosi vitigni di qualità, tra i quali si sono affermati il Rossese di Dolceacqua ed il Varlentin, qualità autoctona del Vermentino.
Le antiche vigne, presenti sulla collina di Piemattone, che si eleva a Levante della Valle di Latte, hanno sempre prodotto vini autoctoni di grande qualità, in quantità neppure troppo limitata. Nel tempo, a causa dello scarso rendimento agricolo, le vigne sono state sostituite da altre coltivazioni, in modo improprio.
La D.O.C. del Rossese, nel mercato vinicolo attuale, dovrebbe invogliare gli imprenditori agricoli di Piematun di tornare a produrre buone quantità di Rossese, Varlentin e Muscatelu.
In attesa, gli forniamo le etichette.