George MacDonald,
       lo scozzese fantastico

      Dopo mezzo secolo di oblio nel suo stesso mondo di lingua inglese, che pur lo aveva annoverato tra i romanzieri più popolari negli ultimi decenni dell’Ottocento, George MacDonald è tornato a richiamare l’attenzione degli studiosi e di un nuovo pubblico di lettori per quella parte della sua produzione letteraria, la narrativa fantastica, che meglio corrisponde ai gusti della nostra epoca e che, finalmente, rende giustizia alla memoria di uno scrittore cosi a lungo dimenticato.
    In vita conobbe la povertà, l’affrontò con coraggio e fiducia nella divina Provvidenza, mai però con stoicismo; amò i poveri, tra i quali volle confondersi come un pastore e un profeta, provando viva partecipazione ai grandi drammi umani del tempo.
   La “forma mentis” di George MacDonald rimase forgiata per sempre dall’ambiente dell’adolescenza e della prima giovinezza. Il fascino e il mistero della sua terra accesero in lui il fuoco inestinguibile del fantasticare; la severa religiosità della Scozia calvinista lo animò di fervore spirituale e lo rese incline ai mistici trasporti.
    Un susseguirsi di colline e il serpeggiare di due corsi d’acqua cingevano Huntly, poco più che un villaggio dell’Aberdeenshire quando diede i natali a George MacDonald, il 10 dicembre 1824. Il giallo verdastro, quello ocra fino alle più accese tonalità del rosso amaranto, le sfumature del grigio e del violetto erano i colori di quel territorio scozzese, terra intensamente romantica, fervida di immaginazione e di violente passioni.
     Anche se la vita di George MacDonald corse parallela all’industrializzazione del suo Paese, nitido si fissò in lui il ricordo dei tempi in cui agricoltura e artigianato, liberi ancora dalla schiavitù della macchina, costituivano la fonte della prospera comunità provinciale.
     Lo scrittore trascorse la fanciullezza in un ambiente che nei primi decenni dell’Ottocento conservava ancora la sua fisionomia patriarcale, così egli lo rappresentò nei romanzi del ciclo scozzese: le case a due piani col tetto di ardesia o di paglia intrecciata; la locanda, la piazza, sempre animata, sede del mercato e centro della vita paesana; le numerose botteghe artigiane con i telai per la tessitura del lino. L’immagine familiare più tradizionale era quella attorno al focolare, tipica scena celebrata da poeti e pittori e, come su una tela, scorgiamo il contadino e sua moglie, seduti ai due lati del caminetto, una vecchia sul suo seggiolone, i figli intorno e, sempre, qualche giovane donna curva in un angolo a filare.
      Non infrequente, nella cerchia domestica, la presenza di un estraneo, d’altra parte l’ospitalità era proverbiale tra i contadini scozzesi. I vagabondi si fermavano nelle fattorie a riparare pentole o a smerciare rimedi contro i reumatismi in cambio di un piatto caldo e di un misero giaciglio, nel contempo narravano a grandi e piccoli racconti di fate, antiche leggende.
      MacDonald fu certamente uno di quei bambini che ascoltavano con gli occhi sgranati tali fantastici repertori.
      La sua produzione letteraria fu ampia e variegata, nel corso di circa quarant’anni scrisse ventinove romanzi ambientati in Scozia e Inghilterra, libri per l’infanzia, racconti, saggi e traduzioni.
      L’apprezzamento e la notorietà crebbero intorno a lui nel 1872, l’anno di un fortunato giro di conferenze in America. Da allora, la situazione economica migliorò sensibilmente e lo scrittore potè allora curare la sua malferma salute, andando in cerca di un clima migliore che troverà in Italia a Bordighera, città nella quale trascorrerà il resto dei suoi inverni e primavere fino a pochi anni dalla morte e dove compose la maggior parte delle opere. La sua casa di Bordighera, chiamata “Casa Coraggio”, divenne centro d’incontro per artisti e gente comune, dove si organizzavano letture di Dante e rappresentazioni teatrali.
      Dopo la morte dell’amata consorte, ormai molto malato, fu ricondotto dai figli in Inghilterra e qui morì il 18 settembre 1905. Per sua volontà, le ceneri furono trasportate nel cimitero inglese di Bordighera.
      Per ricordarlo, scorriamo lentamente le pagine di una sua fiaba “La principessa leggera” e, come per incanto, ci troveremo trasportati nel mondo della fantasia.
    «Siamo nelle sale di un magnifico castello, il re e la regina, felici di aver avuto finalmente un’erede, danno una gran festa per celebrare il fausto evento. Sebbene non invitata, la sorella del re, Makemnoit, donna arcigna e malevola, interviene alla cerimonia e, raggiunto il fonte battesimale, getta un maleficio sulla neonata.
    Ben presto se ne costatano gli effetti. La principessina manca di peso; tra la costernazione dei genitori e della balia, va per aria come una foglia al più lieve soffio di vento. Priva di gravità in senso fisico, lo è anche in senso metaforico: cresce, infatti, vuota come una zucca e ride sempre e senza motivo. Leggera di corpo e di testa, la principessina giunge cosi al suo diciassettesimo anno d’età. Del suo stato di completa incoscienza, che ha anche il suo lato positivo, lo scrittore offre diversi esempi rivelando un senso di “humour” piuttosto raro a trovarsi nelle altre opere.
    Un giorno cade nelle acque di un lago, da quel momento la “Light Princess” impara a nuotare e si accorge con: piacere che in acqua l’assenza di peso non le provoca alcun inconveniente. Da allora, il più del suo tempo lo trascorre nel lago, a solcarne la superficie come un cigno. È felice, e questo le basta. Un giorno, le sue grida gioiose, scambiate per richiami di soccorso, fanno accorrere sulle sponde del lago un giovane principe che girava nei pressi. Con slancio generoso, il giovanotto si getta in acqua per salvarla; l’afferra, e la fa volare in cima ad un abete. L’incontro, come nella migliore tradizione fiabesca, è avvenuto e i due giovani s’innamorano. Dopo molte peripezie, l’incantesimo si rompe e la “Light Princess” ottiene finalmente il dono della gravita. La Strega affoga miseramente e, come in tutte le favole, la storia finisce in letizia e con un matrimonio
».
     Un ringraziamento va a MacDonald, il vittoriano dimenticato, che per un po’ ci ha permesso di sognare.

             di Mara Cilli

Il caminetto del salone in “Casa Coraggio”
(Foto del “Mac Donald - Troup Collection”, dono del “Anglo-Ligurian Club” alla Biblioteca Internazionale di Bordighera nel 1987)

George Mac Donald
(Foto del “Mac Donald – Troup Collection”, dono del “Anglo-Ligurian Club” alla Biblioteca Internazionale di Bordighera nel 1987)
Interno di “Casa Coraggio”
                                         La moglie e una delle figlie

(Foto del “Mac Donald - Troup Collection “, dono del “Anglo-Ligurian Club” alla Biblioteca Internazionale di Bordighera nel 1987)

Copertine di sue opere ed un'illustrazione

 

Nel Novecento

Ritratto del 1862
                                                              

Casa Coraggio oggi

Targa commemorativa del 1986

 n. 1 - 1999
 
U Berriun
 rivista il: 15 gennaio 2013