TOPIA > PERGOLA
Nel Ponente ligure, come nel Basso Piemonte, la pergola è chiamata “topia”, glossa derivante dal termine greco col significato di “cordicella per legare le piante”, ma potrebbe anche derivare da “topos” nel senso di paesaggio.
La glossa, è passata al latino, per indicare il “topiarius”, il pittore che dipingeva paesaggi, non tardando ad essere usata per indicare quel giardiniere addetto alla potatura e alla cura dei grandi giardini ornamentali. Oggi, si definisce “arte topiaria” il risultato della potatura, usata per modellare la crescita delle piante, sostenuta da particolari strutture metalliche.
Modi di dire
Avéghera int’u strepu
Almeno dal Cinquecento, si ha notizia, di come il debitore insolvente venisse punito pubblicamente con una sorta di gogna, che il popolo riconosceva come “da’ d’u cü insci’a ciàpa”, definizione che, nei secoli, venne poi a dare significato alla bancarotta.
Al condannato venivano legate assieme mani e piedi, con l’aggiunta d’un tratto di corda supplementare attorno al collo, bilanciante, in modo tale che il posteriore, opportunamente denudato, venisse a trovarsi nel punto di baricentro inferiore per il poveraccio.
Convenientemente appeso ad un gancio, situato sopra la clapea piscium, il condannato veniva sollevato e fatto precipitare dall’alto più volte, a seconda della gravità del reato commesso, con strattoni di corda, detti appunto strèpi, che lo “culattavano” per bene.
In quella occasione la piastra del pesce, quella lastra di pietra situata in un angolo della piazza, dove veniva ufficialmente fissato il prezzo del pesce pescato, assumeva il nome di “ciàpa d’u strépu”, con la funzione di pubblica gogna.
In francese la punizione corporale che prevede tratti di corda è detta “estrapade” e veniva applicata ancora nel 1761, nel Principato di Monaco, essendo stata promulgata nel 1717, dal principe Antonio I, contro quanti provocavano danni agli orti dei limoni, nel mentonese.
“Pigliàssera int’u strépu” e “Avéghera int’u strépu”. sono locuzioni popolari che deriverebbero da queste situazioni, fino a quando il giro di parole, nel tempo, è degradato in “vàteřa a piglià int’u strépu”, che ha reso il significato scurrile.
L.M.
U capuciu e finte vendite
Luigin Maccario
Si può ricavare, da alcuni Statuti redatti in borghi del Ponente ligure, come nel Medioevo sia stata legalmente preclusa la richiesta di pegno, contro il prestito di denaro.
In Liguria la richiesta di pegno era paragonata ad un’offesa, pari al gesto di far cadere a qualcuno il copricapo, per attaccar briga; infatti, tale richiesta era popolarmente conosciuta come “leva u capuciu”.
A Triora, lo Statuto recitava: Nemo audeat elevare alìcui caputium vel aliud pignus ... ed a Santo Stefano: De non levando capucium vel aliud pignus alìcui persone.
Come il “capuciu” fosse il copricapo più usato in Liguria, lo afferma Girolamo Rossi nel suo “Glossario”, dove cita anche la variante “cauptio”, dalla quale deriverebbe “cauzione”, concetto molto simile al pegno.
Ecco perché, la maggior parte dei rogiti notarili medievali liguri riportano la formula: promette dì restituire il bene vendutogli, se entro un anno gli restituirà la somma pagatagli. Che cosa è questa se non una richiesta di pegno per un prestito di denaro ?
I duecenteschi rogiti, redatti a Ventimiglia dall’Amandolesio, ne sono ricolmi. Fatta la legge, trovato l’inganno; il mondo non cambia mai.
LA VOCE INTEMELIA anno LXII n. 5 - maggio 2007
Antiche curiosità
MISURE SARDE LOCALI
Luigin Maccario
Il giorno 11 settembre 1845, con un apposito decreto, Carlo Alberto, regnante da quattordici anni, intendeva far cessare, a cominciare dal 1850, la molteplicità dei pesi e delle misure che erano in uso nei vari Stati, man mano aggregati al Regno Sardo.
In data 30 giugno 1849, il Regio Governo Sardo, emetteva i ragguagli validi per le diverse province; un minuzioso libretto edito da Giovanni Ghilini, in Oneglia, conteneva le tavole di ragguaglio della Provincia di San Remo, per uso e comodo degli abitanti.
Da quel libretto, presente nella Civica Biblioteca Aprosiana, apprendiamo che dal primo gennaio 1850, nei nostri paesi si cominciò a misurare le lunghezze col “metro”, le superfici con la “ara”, i solidi con lo “stero”, i liquidi col “litro”, i pesi col “gramma” e le divisioni ed i multipli di tali pesi e misure seguirono la progressione decimale, con le denominazioni indicate dallo stesso decreto, pena gravi sanzioni.
Fino a quel momento il metro valeva circa quattro palmi, ma non per tutta la provincia, infatti solo a Ventimiglia era in uso una “cannella” di 12 palmi, col palmo di 12 once, alquanto minori di quelle delle altre città. Come la canna di otto palmi usata per misurare le stoffe, veniva misurata con un palmo di dodici once.
Quindi, nella nostra città il metro avrebbe avuto il valore finora usato di 3 palmi, 8 once e 1040 frazioni. Una canna sarebbe valsa 3 metri e 265 millimetri. Dieci metri erano dunque: 3 canne, 0 palmi, 9 once e 0400 frazioni.
Per le stoffe, invece, l’oncia sarebbe valsa due centimetri e nove decimillimetri. In seguito visioneremo le altre misure.
LA VOCE INTEMELIA anno LVI n. 2 - febbraio 2001
Papé e papéi
In ventemigliusu la carta per scrivere, come quella in genere, è detta papé, che dovrebbe derivare l’etimo dal nobile, egizio-greco-latino, papiro, mentre “carta” deriverebbe dal greco-latino chàrta: foglio sottile e flessibile adatto a vari usi.
Soltanto la cartapecora, adoperata sempre e solo da persone dotte, è detta carta membrana, col corrispondente cartàriu, che era colui che preparava e vendeva le cartapecore.
Stranamente si dice cartezà per definire il levigare con carta vetrata, quando questa viene invece detta papé smerigliu, giacché il lemma è stato contaminato dalla ruvida pelle dell’omonimo squalo, che un tempo veniva usata per lisciare oggetti.
Anche u cartùn: il cartone, con a cartéla: contromarca nei balli popolari e cartéla, intesa come bauletto di cartone per gli scolari o custodia per fogli e fascicoli, deriverebbero da carta; così u scartòciu, che è il cartoccio contenitore, mentre il cartone per disegno e pittura, foracchiato lungo i segni, è u patrònu.
Come d’obbligo, la cartiera è a papéira, così come u papeiròtu è il foglietto con annotazioni e a papiòta è il bigodino di carta. Seguono poi i composti: papé da cùřu, carta bibula per filtrare; papé da müxica, carta rigata musicale; papé sciüga, carta assorbente; papé de stràssa, carta straccia; papé pìstu, cartapesta; papé da cü, carta igienica e papé fiřugràn, carta filigranata; ma c’è anche u papé argentau.
I papéi sono le carte, le scritture, i documenti, anche quelli anagrafici, o per l’espatrio, pertanto i papéi d’ê tàxe sono le cartelle esattoriali. Per concludere: a tichéta è l’etichetta o il cartellino del prezzo e poi, la risma, o insieme di molti fogli cartacei dello stesso formato, è a rìsüma.
L.M.
LA VOCE INTEMELIA anno LVII n. 11 - novembre 2002
Ventemigliusu alpestre
Nel ventimigliese, se non avessimo dimenticato come parlavano i nostri vecchi, per nominare la catena montuosa delle Alpi, dovremmo usare una varietà di consonante elle con un suono verso la erre apicale, la quale nella convenzionalità grafica potrà essere indicata con il segno “ ŕ ”.
Dalla glossa aŕpi, che non è del tutto estranea all'antico nome della nostra città: Ařbintimilium, derivano tutti i termini dialettali riservati al territorio alpestre. Dal medioevo giunge aŕpàgìu: diritto di alpatico, sorta di tassa sui pascoli, che si praticava sullo aŕpàsciu: pascolo estivo d'alta montagna, che si trovava appunto sulla aŕpe: alpeggio, montagna, Alpe.
Il soldato di montagna è l’aŕpìn: l'alpino, tanto simile allo aŕpinìsta: l'alpinista, colui che affronta le salite montane, armato di aŕpestòccu: la piccozza da montagna, ma anche di stacapàn: il tascapane, o zaino, il sacco da montagna.
Se questi affronta rocce particolarmente ardue, deve arrampegàsse: arrampicare o arrampicarsi, con l'aiuto di un aŕpiùn: arpione, l'attrezzo che ha trasferito il proprio nome anche alla aŕpéta: ossia il comune raffio o uncino.
L.M.
LA VOCE INTEMELIA
anno LVII n. 5 - maggio 2002
Glossa di vento
LAVAGNIN
Si ricercava nei nomi dei fenomeni atmosferici, quel sabato mattina in sede; come sovente capita nell’ambito d’una associazione che cerca di mantener vivace “u nostru parlà”.
Gianfranco Lacqua, che in qualità di velista, di quel campo è profondo conoscitore, come valore aggiunto: è fornito d’un bagaglio mnemonico di citazioni in ventemigliusu, retaggio della sua frequentazione con sublimi esperti della parlata popolare.
- Alla Marina, una fredda mattinata invernale, percorsa da un costante vento di tramontana-grecale, ha definito, nel momento dei convenevoli di saluto, da parte di Segundin Muratore, una citazione da manuale:“U l’è in Lavagnin zerau cume ina biscia” -
La grecalità del vento porterebbe a individuarne l’etimologia nel nome della famosa cittadina del Levante, se non fossimo proprio all’estremo del Ponente; invece, quel soffio costante deriva il proprio titolo dall’immagine che presenta l’allisciata superficie marina, da lui vivacizzata con un’infinità di tenui rigonfiamenti ondosi, a perdita d’occhio.
È quella la visione che si raccoglie, ammirando la superficie d’una lastra di ardesia, appena distaccata dal blocco di cava, e siccome, per noi l’ardesia è sempre stata “lavagna”, al punto di costituirne un perfetto sinonimo; la deduzione a “Lavagnin” è più che coerente.
Ad essere pignoli, si potrebbe tener conto di come la grecalità ponentina di quel vento, possa trovare origine sulle alte pendici, lungo i fianchi della Valle Argentina, sedi di parecchie cave d’ardesia, note almeno quanto quelle levantine; ma tant’è, l’esperienza della nostra gente di mare ha coniato questa interessante glossa. Non dimentichiamo, poi, l’epiteto di qualità, raffigurato dall’animaletto strisciante, a sangue freddo, o ghiacciato, forse.
L.M.
LA VOCE INTEMELIA
anno LIX n. 6 - giugno 2004
Un tempo, sui luoghi di lavoro affollati e nei cantieri edili in particolare, si usava dissetare il personale facendo circolare un contenitore in terracotta ricolmo d’acqua fresca, che veniva conservata tale, perché immersa nell’acqua corrente di qualche rigagnolo. Tale contenitore assumeva il nome di “bròccu” ed era dotato di un beccuccio tondo allo scopo di favorire l’imboccatura al bevitore. Per bere “â catalana”, com’era chiamata in zona la “a garganella”, si dotava il beccuccio tondo con un pezzetto di canna palustre, appositamente modellato, che si chiama ”becuràgliu”, “beccaròlu” in Val Nervia e “becarö” in Valle Argentina. Quando in cantiere un operaio esperto voleva togliersi di torno un apprendista poco promettente, lo apostrofava con la frase: “Mira, d’andà a fa’ i becuràgli ai bròcchi”, che era un cenno veramente disarmante. Nel tempo, i cantieri non avevano più a disposizione l’acqua corrente gratuita, sicché si metteva il brocco al fresco in contenitori di acqua stagnante, la quale, attraverso la porosità della terracotta inquinava l’acqua interna, da bere. Alla bisogna, si sostituì il brocco con la “bocia”, un contenitore di vetro tondeggiante, dotato di appropriato beccuccio, che permetteva la visione del contenuto e il materiale non poroso ne escludeva l’inquinamento. Tale contenitore, assai fragile nel circolare di mano in mano, era consegnato in dotazione al più principiante degli apprendisti, affinché al richiamo degli operai provvedesse ad abbeverarli. Per praticità gli operai chiamarono quel garzone il “bocia”.
|
L'ařima
int'a testa Anche la colonna vertebrale, in considerazione al fatto che contiene il prolungamento dei gangli vitali può considerarsi àřima, cosicché anche la schiena che riceve le bastonate ne risponde allo stato spirituale. Del resto per tutta l’antichità i guerrieri intemelìi avrebbero seguito l’usanza di ambiente celtico nel perpetrare la caccia alle teste dei nemici uccisi in battaglia, dando seguito alla credenza secondo la quale uccidere un nemico equivaleva ad appropriarsi della sua anima, posta nella testa e non nel cuore. È stato il mondo latino che ha introdotto la credenza che l’anima fosse contenuta nelle vicinanze del cuore, o nel muscolo medesimo, riducendo la dotazione spirituale umana ad una semplice questione di coscienza. Evidentemente, senza ottenere la cancellazione dei primitivi convincimenti. In contrapposizione alla spiritualità umana, il più usato tra i sinonimi dell’organo sessuale, sia maschile che femminile, è “l’ařimà”, col significato di animale, o meglio di animalesco, giacché l’animale viene detto piuttosto “a béstia”. Tornando agli antichi guerrieri, l’esposizione delle teste era prova per suffragare i racconti di battaglie vittoriose, testimonianza del proprio valore e coraggio. Ma assumeva anche un aspetto propriamente rituale, poiché venivano usate le qualità di protezione sulla comunità, emesse da quella testa, essendo essa la parte più nobile del nemico ucciso, sede del pensiero e quindi del sapere. Non dimentichiamo poi il potere delle teste appese fuori dalle capanne o sulle mura degli oppida celtici, nell’Antichità, o scolpite nei capitelli di castelli e chiese, nel Medioevo. Venivano considerate in grado di spaventare e allontanare gli spiriti, gli incantesimi malvagi e gli uomini indegni.
L. M. |
TÙMARU
In Ventimiglia, la parola dialettale Tùmaru assume il significato di persona rurale, nell’accezione piuttosto vicina allo zotico, ovvero, una persona un po’ musona e poco incline alla socializzazione. Le origini del lemma, assai controverse, potrebbero partire da una parola arabo-somala, importata tra noi dai Saraceni, che suona tumã’l, e sta’ ad indicare una delle tre classi di genti che sono ritenute inferiori, sicché vengono aggregate in qualità di protette. Mentre molto più semplicemente, la glossa potrebbe derivare dalla voce tùmbaru, che, nelle medie Valli Nervia e Roia, indica la Santoreggia, quel suffrutice xerofilo dei luoghi rocciosi, assai aromatico, che viene usata per condimenti, ma anche per ricavare un ottimo disinfettante gastrico - intestinale. Non contenendo il ventimigliese tale suono ad indicare una pianticella aromatica non troppo conosciuta nelle città della costa, si stimava che fosse patrimonio del contadino dei villaggi di media valle che la pronunciava, anche la personalità di selvaticità caratteriale. L.M.
LA VOCE INTEMELIA anno LVI n. 4 - aprile 2001
|
GH’EIRA ‘STI ANI ...
Gh’eira ‘sti ani a Ventemiglia d’a gente ch’a l’arrivava in çerca d’in travagliu e a se fàva ina famiglia. Gh’eira d’e alberghi de lüssu, cin de furenti e persunagi famusi, gh’eira u Teatru e trei cinematografi, Gh’eira aiscì l’uspeà, a clinica e u cadastru. U mercau u l’auduràva de ganöfari e, a Ponte San Luigi, in chioscu de legnu u vendeva e sciùre de Ventemiglia. Int’a scciümaira gh’eira canèi e lòne prufunde e, cu’ ina cana, ina lensa e in po’ de pasciensa, ti incivi u cavagnu de pesci. Cun l’agiütu d’in paràigu ti te levavi fina a cuvea d’in tundu de anghile frite. Gh’eira u Scögliu Autu, ma in giurnu u l’è carau, cume u Cavu. Int’a Ciassa Vinti Setembre gh’eira de sciòrte de done invenxendae, cine de sporte, pacheti e figliöi, pe’ piglià d’e curriere burdelùse ch’i l’àva fina u rimorchiu pe’ carregà e corbe d’ê sciùre. Gh’eira a feira de San Giusepe, u balu de San Segundu, e e castagnole i e fàva ümere e i nu’ te rumpeva i denti. Gh’eira menu murri longhi e ciü faturisi. Gh’eira, ... gh’eira, ... gh’eira ... Avura gh’é, ... gh’é ancura caicün che u s’arregorda che gh’eira ...
AnonimiVentemigliusi
LA VOCE INTEMELIA anno LVI n. 2 - febbraio 2001 |
XIXÉRBURA
Con le nuove convenzioni per scrivere il dialetto ligure, la maniera per scrivere “xixérbura” risulta veramente sanscrito. In altre località liguri si scriverebbe “gigérbura”, perché perde la durezza della “jö” vecchia maniera, per avvicinarsi un poco alla giuggiola, con la quale divide la popolarità. Una xixérbura, altro non è che una qualità di susina, bellissima a vedersi ma acerba ed acida. Il significato corrente più usato, si ottiene quando si vuol definire una ragazza, giovanissima, bella, ma acerba ed acida di carattere. Questo tipo di ragazza viene definito certamente così: - Ti sei ina bèla xixérbura - calcando sulle due “x” che, ne i confronti della “g” di gigérbura spiccano come lame taglienti.
|
L’URA D’A BELINA
I nu’ sun mancu passai çincant’ani, da candu inte ciaciare d’i omi, au café, vegniva föra a teuria de cume calunche mascciu latin u duvesse andà inscontra, ciàche giurnu, a in’ura de debulessa d’urdine sentimentale. Tüti i omi d’età, caràndu dau leitu â matin, i purreva fa’ contu che intu tempu d’a giurnà, mancu a pensàghe, ghe sereva acapitau de duvé cède ae muìne d’afesciùn, mésse sciü da ina dona. Inta ciü parte d’i càixi, se tratava de done mancu paragunàbili a chele ch’i sun vegnüe sciü inte ‘sti çincat’ani in chestiun; cun l’emancipassiun de “l’autra metà d’u célu”. Chele i l’éira fümele ch’i tegniva i òmi in parmu de man, ch’i fusse staiti: figli, frài, marìi o amanti; tantu che, inte ‘sti ürtimi dui caixi i savéva ben cume ciegàsseři; cuscì che sereva pusciüu tratasse d’a verità, u piglià pe’ bona a presensa inta giurnà de chela “ura”, assai ben cuncepia dai màscci. Intu nostru parlà, ‘stu tochetu limitau de tempu u l’eira cunusciüu cume “l’ura d’a belina”, e u ciü d’ê vote u dava l’andiu a incunvegnénti, ün derré l’àutru, aiscì se u tempu a dispusissiun u nu’ l’èira gairi. Inte autre regiun d’a nostra penisuřa, a l’èira cunusciüa cume: l’ora del minchione, d’o cazzone, d’o mona, d’u piciu e via cuscì. Sereva forsci ancu’ puscibile che chélu mumentu maiscì sensibile u fusse magara presente intu modu de cumpurtasse d’i màscci d’u giurnu d’ancöi, ma a cunfüsciun che gh’è avura inti modi de fa’, intra i màscci e e füméle, u nu’ a lascia recunusce. Tegnimu sulu da méntu d’u faitu ch’a l’esistésse. L.M. |
Aneddoto di Battaglia Bimbo regolatore LA VOCE INTEMELIA anno LXII n. 7 - luglio 2007 Un frugoletto, impegnato nel gruppo di apertura d'uno dei carri partecipanti, abbigliato nei panni dell'elfo, durante l'esplodere del getto di fiori, prima di ogni lancio, diligentemente staccava la corolla dei garofani che gli spettava di lanciare. Una signora del pubblico, comprensibilmente forestiera, osservando il certosino procedimento, suggeriva al bimbo di lanciare il fiore con l'intero gambo, com'è nella prassi. Il piccoletto, senza neppure alzare lo sguardo, tutto intento nel suo operare, la apostrofava: «Eh, brava, così invece di rilanciarlo, te lo porti a casa !» Il giovane gnomo ha subito percepito uno degli inopportuni aspetti, assunti dal pubblico, durante la Battaglia dei Fiori. L. M. |
di Luigin Maccario - 1988
St’anu chì, pe’ i Morti, gh’amu avüe e prime serenae de freidu, e candu pe’ a strada se scuntrava caicun, strenzendughe a man, se sentiva, suvente d’ê mae giassae, pe’ i primi frescheti.
Ina vota, de ‘sti tempi, avura l’è caiche anu, candu andava ai Ciotti, in Muntenegru o a Verezzu a piglià i agnéli dai pastui de Reaudu, che i vegniva a desvernà int’i nostri paisi, inte chela uperassiun, che pöi, cheli ch’i san ben l’italian, i n’àn mustrau ch’a se dixe "transumanza"; m’è capitau de strenze ina man veraménte freida.
Inscì chela vota, strenzendu a man a Pie’, in zuvenòtu insci’a trentena, ch’u l’è staitu ün d’i ürtimi pastui reaudenchi a végne in Riveira cu’e fée, l’òn atruvà ascaixi giassà.
«I sun i freidi de ‘sti tempi - gh’òn ditu - che ti gh’ài e mae cume chele d’in mortu», e elu de rimandu u m’à respostu: «Tü ti sei ün de cheli chi l’àn e mae caude, e mì sun ün de cheli ch’i l’àn e mae ciütostu fresche. L’è che tü, int’u nostru mesté, nu’ ti anderésci ben pe’ trae u cagliu».
Au mumentu nu’ gh’òn abadau, ma pöi, candu gh’arrivava ch’u l’éira in trén de remesccià int’u làite apéna mùnzüu, òn vusciüu savéne de ciü. U m’à cuntau che candu, int’ina bassina de laite, pe’ fa’ e tume, se ghe mete drente u sachetu cu’u cagliu, e se rümesccia, se s’aduvéra in tocu de legnu, nu’ l’è tantu ben faitu, l’è megliu se se ghe infìřa u brassu, perché intantu che se remésccia se sente i grümi ciü grossi e chéli vegnüi tropu aviàu, ch’i se pön cuscì strixià in cagliéte ciü pecìne e menu tempurie, int’u mentre che u restu d’a caglià a prucede.
Se u pastù che u l’infìřa u brassu cun u cagliu u l’avesse e mae tropu caude, inte chelu mumentu u laite, che u duveréva stàssene a temperatüra d’ambiente, u grümireva tropu aviau e i furmagi i nu’ l’arrestereva ben.
«Pe’ mì - u l’à cuntügnau Pie’ - nu’ gh’è periculu, e int’u mei mesté sun ciü adatu che tü».
Il nome dialettale del Ranuncolo, stigmatizza il fatto che lo pianta, a contatto con la pelle, provoca lo formazione di vesciche piuttosto dolorose, ma ha anche altri riferimenti in tal senso, andando a ritroso nel tempo.
Nel passato, erano frequenti certe abitazioni in cui avvenivano fatti straordinari, specie nelle ore notturne. La gente allarmata commentava: U se ghe sénte (ci si sente) e si teneva lontano da quel luogo.
Per tentare di esorcizzare quella casa abitata da spiriti maligni, i più coraggiosi, durante la notte, ponevano in un braciere parecchie radici e fusti secchi di ranuncolo e li facevano ardere: l'intenso fumo puzzolente che si sprigionava, secondo la superstizione popolare, aveva lo scopo di scacciare non solo il diavolo, ma anche gli spiriti maligni che funestavano tale luogo
Il nome dialettale dell’Elleboro nero, mette il marchio sull’uso di tale pianta in campo veterinario, data la sua tossicità; divenuto famoso, perché è servito a guarire i cavalli dei dragoni, nell’esercito napoleonico.
Questi animali, durante una spedizione, si ammalarono: allora venne inserita sotto la pelle, con l’uso di una lesina, una radice dell’erba in questione.
Dopo un po’ di tempo, dal punto dell’inoculazione, uscì il pus ed i cavalli guarirono. Ancor oggi, sono molti gli allevatori a praticare questo metodo, anche con le capre e le pecore, bucandone la coda.
LA VOCE INTEMELIA anno LXII n. 2 - febbraio 2007
Ancora vent’anni or sono, tra le espressioni popolari, per definire le caratteristiche generali di una ragazza non troppo piacente, si determinavano con: «a l’è in cancèlu».
Già allora l’allocuzione richiamava, alla mente dei più, il paragone con un qualche cancelletto sgangherato, che si sarebbe definitivamente scassato, al primo contatto; ma non era proprio così.
Girolamo Rossi, nel suo glossario, definisce la voce “cancello” con: bestie da cancello, portando questo esempio, dagli Statuti di Triora: esclusius vitulis ac bestiis de basto seu cancello.
Vi si evince che le bestie da cancello dovessero essere degli animali non troppo in forma, anche brutti da vedere, per cui si proteggevano come i vitelli e le bestie da soma; magari tenendoli reclusi in qualche stalla occultata, semmai da un robusto cancello.
Con questo significato, il paragone espresso dal detto popolare assume un significato immediato, assai corrente nella vita dei nostri nonni.
CONSIDERAZIONI
&
RADICI
Etimi di parole, o stima di usanze, ancora vive nel passato della nostra gente, per fare il punto sulle nostre origini, le nostre radici. Non sarà analizzata soltanto la passata Civiltà Contadina, ma soprattutto i reperti scaturiti da glosse del linguaggio locale. Gli interventi pubblicati sono già apparsi su LA VOCE INTEMELIA, negli anni scorsi. |