IL
DIALETTO, LINGUA IRONICA ?
Similitudini, detti proverbi e giochi di parole
Renzo Villa 1985
Il dialetto, con
le sue espressioni idiomatiche oggi quasi completamente
dimenticate, è una lingua che fa ridere o che fa soltanto
sorridere ?
La questione, sottile e a prima vista oziosa, è invece
di fondamentale importanza per capire non solo lo spirito del
dialetto, ma anche il carattere e la forma mentis dei nostri
antenati.
Secondo l’inconscia opinione corrente, assai diffusa fra i
sempre più rari parlanti, esso sarebbe sostanzialmente una
lingua umoristica, che fa ridere o che comunque serve a far
ridere.
Ma è sufficiente spingerci appena un po’ oltre questo
giudizio superficiale - giustificato anche dall’uso puramente
umoristico che del dialetto si è fatto nel campo letterario -
per scoprire che esso è essenzialmente una lingua ironica e
l’ironia è certamente qualcosa di più profondo e pungente del
semplice umorismo o dell’arguzia.
È nota la classica partizione del concetto di ironia presso
Socrate e presso i Romantici. Per il primo consisteva nella
dissimulazione e nella sottovalutazione di se stessi e della
propria condizione. Anche per il Vico l’ironia è formata dal
falso in forma d’una riflessione che prende maschera di verità.
Nell’era del romanticismo l’ironia si ispirava invece ad un
atteggiamento di superiorità dell’Io infinito nei confronti
della realtà. Fermo restando che stabilire dei confini netti fra
ironia e umorismo è assai difficile, non v’è dubbio che la
parlata dialettale - pervasa di sottovalutazione pessimistica,
di sarcasmo e paradossi - obbedisca ai canoni socratici della
dissimulazione.
Già nelle strutture del linguaggio dialettale, troviamo che
numerosi aggettivi (di cui, spesso, per la relativa povertà
lessicale del dialetto non esistono i contrari) vengono usati in
senso ironico. Semu beli; u l’è drólu; u l’è
asbigliu; u l’è degurdiu; vogliono dire esattamente
il contrario di quanto significano: “siamo in un bel guaio”; non
è affatto “rigoglioso”, “arzillo”, “sveglio”.
La sottovalutazione è presente soprattutto nelle espressioni
quantitative”, volutamente riduttive, per prudenza, senso della
sproporzione fra fatica e risultato ottenuto, autocommiserazione
pessimistica: vagu a fa’ ina manà d’erba; a cöglie dui
pügni d’aurive;
a taglià ‘sti catru rapi d’üa; a fa’ due legne;
ne cuřa in fi';
n’òn incìu ina lambustàgna “ un fondo di sacco”; ghe n’òn
messu ina pessigà “un pizzico”.
Per non parlare dei sentimenti e del matrimonio, visti sempre
in una luce svalutativa e derisoria: piglià ina gumeà,
letteralmente “battere con violenza il gomito con conseguenze
piuttosto dolorose”, equivaleva ad innamorarsi.
Una ragazza desiderosa di sposarsi a scruciura
“crocchia” come una gallina che vuol covare. A chi prendeva
delle misure ad occhio si ricordava: mira che a ögliu se
piglia sulu a muglié,
e se sbaglia delongu.
* * * *
Ma è dal sistema allocutivo cioè da quel complesso di
“battute” usate per introdurre o concludere un discorso,
commentare un fatto o una situazione, esprimere un concetto o un
giudizio - che promana la particolare carica di graffiante
ironia propria del linguaggio dialettale.
Eccone un significativo florilegio: se n’andamu int’a
barraca
“ci ritiriamo in casa”; andamu a da’ da mangià ae prüxe
“ce ne andiamo a letto”; m’anderéva a da’ ai cunigli
(dalla disperazione); a va’ cume in barcu int’in boscu;
ciöve àiga bagnà; se ti me dai da mente a mì ti fai cume
ti vöi;
pigliate ina carega e sétite in terra; mangia fin che
ti scciopi,
basta ch’u nu' te fàsse ma'; bevi, che ti t’arrepigli
! (consiglio dell’ubriaco al compagno di sbornia che sta male
per aver bevuto troppo).
Ed ancora: vegni che t’aissu ! (rivolto a chi è caduto
accidentalmente a terra); ti n’ài ciü int’a testa che int’a
staca (a un millantatore); sérra a porta e sciaurica a
ciave
“smettila”; tussi che ti garisci ! (a chi è affetto da
tosse cronica); tü, parla candu e gagline i piscia; ti
sei cume chelu sunavù che ghe v’ö dui sodi pe’ fàgheřa cumensà e
catru pe’ fàgheřa fenì; ti sei sempre a mezu cume u zögia
(a chi si intromette nei discorsi altrui o vuoi sempre apparire
in pubblico); a setemana d’i trei zögia (per dire “mai”);
s’a cařa, tü suta nu’ ti gh’arresti (per chi non frequenta
la chiesa);
parlà ti parli ciü ben d’in can, ma nu’ ti camini tantu;
ti vai ciü tü d’ina niatà de rati gianchi; tira e
grosse che e pecine i van int’i ögli (a chi ti sta prendendo
a sassate); e a chi è dimagrito: o che ti t’acati de cü o che
ti tè vendi de braghe.
* * * *
Ma l’Oscar dell’ironia spetta forse al “complimento”
riservato al compaesano che, in occasione di una festa, aveva
indossato il vestito buono (che era poi l’unico del guardaroba):
ti paresci u can d’in scignuru ! Tanto da dirgli che, per
un signore, non correva pericolo di essere scambiato.
E quando il personaggio vestito a festa era uno
sconosciuto, dalle inequivocabili origini contadine, il
bruciante commento era: ‘stu lì nu’ l’e mancu mez’ura ch’u
l’à pousau u magagliu.
Se poi il vestito della domenica lo indossava una
contadina, c’era pronto: a paresce ina crava vestia d’â festa.
Per tutti, il raro cambiarsi d’abito era métise i furnimenti
“i finimenti degli animali da basto e da tiro”.
E, dopo i vestiti, le scarpe: sun andau a catame in
pa’ de gussi dicevano i pescatori quelle rare o uniche volte
che decidevano di comprarsi un paio di scarpe - di numero
piuttosto elevato - per i loro piedi generalmente sviluppati
dall’esercizio cui erano sottoposti dovendo reggere in
equilibrio il corpo sugli instabili pianali delle barche e per
il continuo andar scalzi.
Quella di aver piedi grandi, oggetto di ironia ed
autoironia, doveva essere una caratteristica comune e diffusa
fra i pescatori se anche il Verga ne I Malavoglia fa arruolare
in marina il nipote di padron ‘Ntoni per via di quei suoi
piedacci che parevano pale di ficodindia.
* * * *
Lo studio, per finire. Se a crava a nu m’avesse
mangiau i libri ... era l’ironico e pressoché generale
rimpianto di non aver potuto frequentare la scuola perché - come
si sa - la prima occupazione dei bambini consisteva nel portare
al pascolo le capre anziché nello studio.
Ma, per il mancato studio, c’era anche un detto
consolatorio u tantu studià u ven dau pocu savé, che
ricorda il famoso sofisma degli Eristici di Megara: soltanto chi
è ignorante può apprendere.
* * * *
Secondo il Manzoni, che se ne intendeva, "la
similitudine è un gran mezzo per dir le cose in breve, col
rischio, si sa, di non dirle punto".
Certamente, nella sua modestia, si riferiva alle
immagini letterarie di cui egli fu maestro e creatore
felicissimo. Ma, se il rischio di non dire compiutamente le cose
possono correrlo le similitudini degli scrittori, non
altrettanto avviene per quelle del linguaggio popolare dove i
concetti risultano invece chiarissimi, efficaci, coloriti e,
molte volte, espressi in forma ironica. Portare degli esempi è
come raccogliere grappoli d’uva in una vigna di questa stagione:
c’è soltanto l’imbarazzo della scelta.
Vediamo dunque alcuni di questi paragoni scaturiti
dalla inesauribile fantasia popolare: a l’é ciaira cume l’inciostru
si dice di una questione ingarbugliata o di una vicenda che è
tutt’altro che lampante; nüà cume ina pria au fundu ;
cantà cume ina cana scciapà "come una canna fessa"; ‘stu
relöriu u marcia cume i mei afàiri detto di un orologio che
non segna le ore esattamente e al cui proprietario gli affari
non vanno per il meglio.
Come si vede, la regola aurea è sempre quella socratica
della sottovalutazione e della dissimilazione. Si affermano le
cose per negarle, si negano per affermarle.
Ma l’elenco può continuare: cresce cume ina pria int’in
sgarbu; fürbu cume in gatu de màrmaru; girà u
giancu essere in stato di vita come i pesci che, quando
stanno per morire, si capovolgono mostrando il ventre
solitamente biancastro.
Anda' a çercà u rutu cume i magnìn "calderari", andare
in cerca di guai; graçiusa cume ina büsa in sc’in cumò
(per le nuove generazioni bisognerà spiegare che le büse
erano gli escrementi dei bovini e degli equini) e, giacché siamo
in argomento, ricordiamo anche un detto che non può essere molto
antico, posteriore di certo all’arrivo della ferrovia, ma che
rende bene l’idea di un lavoro inutile, adatto per i buoni a
nulla: andà a campà e büse derré au trenu.
E ancora: bon cume ina sciòrba bùgia; giancu
e russu cume in couru; ‘ste tesuire i taglia cum’i cüxe
e cin cume in övu
che può calzare per un locale pubblico zeppo di gente oppure per
un ubriaco gonfio di vino che più gonfio non si può.
Ad onore della similitudine dialettale e della sua sardonica
efficacia, bisogna riconoscere che, difficilmente, si potrebbe
immaginare qualcosa di più completamente saturo dell’uovo.
Ma la curiosità di questa immagine è anche un’altra, di
carattere prettamente filologico: se noi ci spostiamo
linguisticamente verso oriente, la ritroviamo tale e quale nel
dialetto milanese el teater l’è pien còme òn oeuv ! se
invertiamo direzione e ci spingiamo a occidente, ci imbattiamo
nel catalano estar pie com un ou.
* * * *
Bello sarebbe scoprire l’origine dei detti popolari
ognuno dei quali è entrato a far parte della tradizione
linguistica in un momento ben preciso ed in seguito ad un fatto
straordinario o, quanto meno strano e curioso, tanto da rimanere
quasi proverbiale come il personaggio che ne fu protagonista.
Alla Mortola, ad esempio, chi si accorge in ritardo di
un errore commesso, si sente dire: U Bacalà u se n’é acortu â
Cruxe. Perché ? Un tale, conosciuto per
l’appunto con questo merluzzesco soprannome, di ritorno dalla
fiera di Mentone, soltanto alla sommità della Croce, si accorse
di aver comprato un asino invece di una somara come era sua
intenzione. Troppo tardi, evidentemente, per tornare indietro a
chiedere il cambio, ma sempre in tempo a passare ai posteri come
classico esempio di distrazione.
E così tutti i detti dialettali traggono origine da un fatto
realmente accaduto al quale però è difficilissimo risalire.
Pensiamo, ad esempio, a taglia, taglia, u l’é sempre curtu
nato certamente dalla inettitudine di qualche maldestro
artigiano: sarto, falegname ... D’in Sant’Antognu in
santantunin, d’in santantunin in pistun da sa’ quando, a
furia di ridimensionare un oggetto, si finisce per renderlo
inservibile;
avé cuvea de teta de sciüpia desiderare cose stranissime
e impossibili ad avere; suà suta a lenga d’inverno quando
fa molto freddo.
* * * *
Nu’ avé puira mancu de çentu ch’i scapa; custà ciü
d’ina dona patanùa; ina vouta in orbu u l’à atrùvau in’aguglia
per un caso rarissimo; cu’i bieli de ün se pö strangurà l’autru
adatto a due contendenti entrambi poco raccomandabili;
véndise u craveu int’a pansa d’a crava "fare i conti senza
l’oste"; nasciüu in Corsega e bategiau in Sardegna un
apolide, girovago di cui non si conosce la provenienza.
Un detto scherzosamente irriverente, per i tempi passati
segnati da un senso di sacro rispetto per i genitori: òn
tirau ina pria int’a facia â souma e a l’é andà a picà int’u
murru â maire.
E, per chiudere l’elenco, naturalmente incompleto, il commento,
cinico ed ironico ad un tempo, di chi ha assistito ad una
cerimonia per nulla allegra come potrebbe essere un funerale:
ch’a d’u rie, i ciagneva tüti, una freddura d’altri
tempi.
* * * *
Fra le molte definizioni che sono state date dal
proverbio, probabilmente la più azzeccata resta quella dello
storico olendese Johan Huizinga "il proverbio concreta il
pensiero" perché, in effetti, col proverbio si materializza un
concetto compendiandolo in una frase breve e facile da
ricordare.
Oggi esistono ponderosi trattati di paremiografia,
raccolte locali, regionali e nazionali di proverbi popolari. Il
compito di propone alcuni per una breve nota giornalistica come
questa è arduo perché si rischia continuamente di cadere nel
déjà vu o nel già fatto.
Nell’operare una scelta, necessariamente
ristretta, bisogna procedere seguendo un duplice criterio:
selezionare proverbi genuinamente locali e soffusi di una
particolare e buona dose di mordacità. Eccone un piccolo
florilegio.
Dare e avere: Frai piglia u sta’ au Cuventu,
frai da’ u nu’ l’è mai da tempu con la non meno incisiva
variante
Frai piglia u sta’ ae porte de Ventemiglia, frai da’ u sta’
in po’ ciü in là (i creditori li incontriamo sempre, i
debitori non si fanno vedere mai).
E, in tempi di femminismo come i nostri, non è da sottovalutare:
A Madama Tenerina, de gratà a schina a su’ mariu, gh’é vegnüu i
cali ae mae.
Ed altri che non hanno bisogno di spiegazione: U
pairò d’a Cumüna u nu’ bùglie mai ben (sempre di attualità);
int’a carà tüti i bàgi i s’arrùbata; se i figliöi i
mangia a ure i caga relöri; candu ti tè fai gratà, i nu’
te gràta mai dunde te smangia; tüta a scarpa a ven sgrüla,
ma ina bela scarpa a l’é sempre ina bela sgrula il segno
della bellezza si conserva anche col passare degli anni.
Avànti de lasciasse anda de pe’ e mae besögna assegürasse
ben d’i pei; â caussa d’in belu ařburu se ghe möire d’â
fame;
çent’ani de mařincunia i nu’ paga in’unça de debitu;
se i mati i nu’ mategia i perde e ure.
E, per tornare alla massaia di cui sopra, stufa di servire il
marito, ecco il suo slogan protestatario: turte e fügasse,
chi ne vö se ne fasse.
* * * *
Qualche gioco di parole, prima di finire. De çentu
marsi nu’ ghe n’é ün bon "fra cento mesi di marzo (e cento
frutti guasti) non se ne trova uno buono". Va ciü l’unze che
u duze tutto giocato sul fatto che unze, oltre che "undici"
significa anche "ungere" da cui lubrificare, in senso figurato,
gli ingranaggi politici e burocratici. Una pratica ancora
necessaria ai nostri giorni se si vuole ottenere qualcosa dal
potere costituito.
Finezze ironiche del dialetto, come nella frase dialogica:
Ti vai â posta ? Na’, vagu pe’ da bon dove a posta ha
il duplice e contrario significato di "espressamente" e "per
finta" nascondendone ancora un terzo: "Vai all’ufficio postale ?
No, vado sul serio".
U ma’ u nu’ l’é ben dicevano i pescatori e i marinai,
un’affermazione ovvia dietro la quale si cela però un sottile
doppio senso perché ma "male" significa anche, per omofonia,
"mare". Mare inteso in senso dinamico, come massa d’acqua in
movimento, e quindi gravida di pericoli, in contrapposizione a
marina, mare in senso statico.
Un detto, quest’ultimo, che richiama alla mente l’assonantico
lamento dei pescatori di Acitrezza, descritti dal Verga, il mare
è amaro e il marinaro muore in mare.