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       STRUNCHETU E SCIESTRU

        BISOGNO MODERNO

                 PORTASSE BÉN

             E CANSUN D'A LEVA

   NOMI D'I PAISI E D'Ê FRAÇIUN

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 rivista il :  10 ottobre 2013
© 2007  Cumpagnia d'i Ventemigliusi
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IL DIALETTO,  LINGUA  IRONICA ?
       Similitudini, detti proverbi e giochi di parole
                                                                                   Renzo Villa 1985

     
Il dialetto, con le sue espressioni idiomatiche oggi quasi completamente dimenticate, è una lingua che fa ridere o che fa soltanto sorridere ?
     La questione, sottile e a prima vista oziosa, è invece di fondamentale importanza per capire non solo lo spirito del dialetto, ma anche il carattere e la forma mentis dei nostri antenati.
    Secondo l’inconscia opinione corrente, assai diffusa fra i sempre più rari parlanti, esso sarebbe sostanzialmente una lingua umoristica, che fa ridere o che comunque serve a far ridere.
    Ma è sufficiente spingerci appena un po’ oltre questo giudizio superficiale - giustificato anche dall’uso puramente umoristico che del dialetto si è fatto nel campo letterario - per scoprire che esso è essenzialmente una lingua ironica e l’ironia è certamente qualcosa di più profondo e pungente del semplice umorismo o dell’arguzia.
    È nota la classica partizione del concetto di ironia presso Socrate e presso i Romantici. Per il primo consisteva nella dissimulazione e nella sottovalutazione di se stessi e della propria condizione. Anche per il Vico l’ironia è formata dal falso in forma d’una riflessione che prende maschera di verità.
    Nell’era del romanticismo l’ironia si ispirava invece ad un atteggiamento di superiorità dell’Io infinito nei confronti della realtà. Fermo restando che stabilire dei confini netti fra ironia e umorismo è assai difficile, non v’è dubbio che la parlata dialettale - pervasa di sottovalutazione pessimistica, di sarcasmo e paradossi - obbedisca ai canoni socratici della dissimulazione.
    Già nelle strutture del linguaggio dialettale, troviamo che numerosi aggettivi (di cui, spesso, per la relativa povertà lessicale del dialetto non esistono i contrari) vengono usati in senso ironico. Semu beli; u l’è drólu; u l’è asbigliu; u l’è degurdiu; vogliono dire esattamente il contrario di quanto significano: “siamo in un bel guaio”; non è affatto “rigoglioso”, “arzillo”, “sveglio”.
    La sottovalutazione è presente soprattutto nelle espressioni quantitative”, volutamente riduttive, per prudenza, senso della sproporzione fra fatica e risultato ottenuto, autocommiserazione pessimistica: vagu a fa’ ina manà d’erba; a cöglie dui pügni d’aurive; a taglià ‘sti catru rapi d’üa; a fa’ due legne; ne cuřa in fi'; n’òn incìu ina lambustàgna “ un fondo di sacco”; ghe n’òn messu ina pessigà “un pizzico”.
    Per non parlare dei sentimenti e del matrimonio, visti sempre in una luce svalutativa e derisoria: piglià ina gumeà, letteralmente “battere con violenza il gomito con conseguenze piuttosto dolorose”, equivaleva ad innamorarsi.
    Una ragazza desiderosa di sposarsi a scruciura “crocchia” come una gallina che vuol covare. A chi prendeva delle misure ad occhio si ricordava: mira che a ögliu se piglia sulu a muglié, e se sbaglia delongu.

                                                 * * * *

    Ma è dal sistema allocutivo cioè da quel complesso di “battute” usate per introdurre o concludere un discorso, commentare un fatto o una situazione, esprimere un concetto o un giudizio - che promana la particolare carica di graffiante ironia propria del linguaggio dialettale.
    Eccone un significativo florilegio: se n’andamu int’a barraca “ci ritiriamo in casa”; andamu a da’ da mangià ae prüxe  “ce ne andiamo a letto”; m’anderéva a da’ ai cunigli (dalla disperazione); a va’ cume in barcu int’in boscu; ciöve àiga bagnà; se ti me dai da mente a mì ti fai cume ti vöi; pigliate ina carega e sétite in terra; mangia fin che ti scciopi, basta ch’u nu' te fàsse ma'; bevi, che ti t’arrepigli ! (consiglio dell’ubriaco al compagno di sbornia che sta male per aver bevuto troppo).
    Ed ancora: vegni che t’aissu ! (rivolto a chi è caduto accidentalmente a terra); ti n’ài ciü int’a testa che int’a staca (a un millantatore); sérra a porta e sciaurica a ciave “smettila”; tussi che ti garisci ! (a chi è affetto da tosse cronica); tü, parla candu e gagline i piscia; ti sei cume chelu sunavù che ghe v’ö dui sodi pe’ fàgheřa cumensà e catru pe’ fàgheřa fenì; ti sei sempre a mezu cume u zögia (a chi si intromette nei discorsi altrui o vuoi sempre apparire in pubblico); a setemana d’i trei zögia (per dire “mai”); s’a cařa, tü suta nu’ ti gh’arresti (per chi non frequenta la chiesa); parlà ti parli ciü ben d’in can, ma nu’ ti camini tantu; ti vai ciü tü d’ina niatà de rati gianchi; tira e grosse che e pecine i van int’i ögli (a chi ti sta prendendo a sassate); e a chi è dimagrito: o che ti t’acati de cü o che ti tè vendi de braghe.

                                                 * * * *

    Ma l’Oscar dell’ironia spetta forse al “complimento” riservato al compaesano che, in occasione di una festa, aveva indossato il vestito buono (che era poi l’unico del guardaroba): ti paresci u can d’in scignuru ! Tanto da dirgli che, per un signore, non correva pericolo di essere scambiato.
     E quando il personaggio vestito a festa era uno sconosciuto, dalle inequivocabili origini contadine, il bruciante commento era: ‘stu lì nu’ l’e mancu mez’ura ch’u l’à pousau u magagliu.

      Se poi il vestito della domenica lo indossava una contadina, c’era pronto: a paresce ina crava vestia d’â festa. Per tutti, il raro cambiarsi d’abito era métise i furnimenti “i finimenti degli animali da basto e da tiro”.
     E, dopo i vestiti, le scarpe: sun andau a catame in pa’ de gussi dicevano i pescatori quelle rare o uniche volte che decidevano di comprarsi un paio di scarpe - di numero piuttosto elevato - per i loro piedi generalmente sviluppati dall’esercizio cui erano sottoposti dovendo reggere in equilibrio il corpo sugli instabili pianali delle barche e per il continuo andar scalzi.
     Quella di aver piedi grandi, oggetto di ironia ed autoironia, doveva essere una caratteristica comune e diffusa fra i pescatori se anche il Verga ne I Malavoglia fa arruolare in marina il nipote di padron ‘Ntoni per via di quei suoi piedacci che parevano pale di ficodindia.

                                                * * * *

     Lo studio, per finire. Se a crava a nu m’avesse mangiau i libri ... era l’ironico e pressoché generale rimpianto di non aver potuto frequentare la scuola perché - come si sa - la prima occupazione dei bambini consisteva nel portare al pascolo le capre anziché nello studio.
     Ma, per il mancato studio, c’era anche un detto consolatorio u tantu studià u ven dau pocu savé, che ricorda il famoso sofisma degli Eristici di Megara: soltanto chi è ignorante può apprendere.

                                                * * * *

      Secondo il Manzoni, che se ne intendeva, "la similitudine è un gran mezzo per dir le cose in breve, col rischio, si sa, di non dirle punto".
     Certamente, nella sua modestia, si riferiva alle immagini letterarie di cui egli fu maestro e creatore felicissimo. Ma, se il rischio di non dire compiutamente le cose possono correrlo le similitudini degli scrittori, non altrettanto avviene per quelle del linguaggio popolare dove i concetti risultano invece chiarissimi, efficaci, coloriti e, molte volte, espressi in forma ironica. Portare degli esempi è come raccogliere grappoli d’uva in una vigna di questa stagione: c’è soltanto l’imbarazzo della scelta.
     Vediamo dunque alcuni di questi paragoni scaturiti dalla inesauribile fantasia popolare: a l’é ciaira cume l’inciostru si dice di una questione ingarbugliata o di una vicenda che è tutt’altro che lampante; nüà cume ina pria au fundu ; cantà cume ina cana scciapà "come una canna fessa"; ‘stu relöriu u marcia cume i mei afàiri detto di un orologio che non segna le ore esattamente e al cui proprietario gli affari non vanno per il meglio.
     Come si vede, la regola aurea è sempre quella socratica della sottovalutazione e della dissimilazione. Si affermano le cose per negarle, si negano per affermarle.
    Ma l’elenco può continuare: cresce cume ina pria int’in sgarbu; fürbu cume in gatu de màrmaru; girà u giancu essere in stato di vita come i pesci che, quando stanno per morire, si capovolgono mostrando il ventre solitamente biancastro.
    Anda' a çercà u rutu cume i magnìn "calderari", andare in cerca di guai; graçiusa cume ina büsa in sc’in cumò (per le nuove generazioni bisognerà spiegare che le büse erano gli escrementi dei bovini e degli equini) e, giacché siamo in argomento, ricordiamo anche un detto che non può essere molto antico, posteriore di certo all’arrivo della ferrovia, ma che rende bene l’idea di un lavoro inutile, adatto per i buoni a nulla: andà a campà e büse derré au trenu.
     E ancora: bon cume ina sciòrba bùgia; giancu e russu cume in couru; ‘ste tesuire i taglia cum’i cüxe e cin cume in övu che può calzare per un locale pubblico zeppo di gente oppure per un ubriaco gonfio di vino che più gonfio non si può.
    Ad onore della similitudine dialettale e della sua sardonica efficacia, bisogna riconoscere che, difficilmente, si potrebbe immaginare qualcosa di più completamente saturo dell’uovo.
    Ma la curiosità di questa immagine è anche un’altra, di carattere prettamente filologico: se noi ci spostiamo linguisticamente verso oriente, la ritroviamo tale e quale nel dialetto milanese el teater l’è pien còme òn oeuv ! se invertiamo direzione e ci spingiamo a occidente, ci imbattiamo nel catalano estar pie com un ou.

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     Bello sarebbe scoprire l’origine dei detti popolari ognuno dei quali è entrato a far parte della tradizione linguistica in un momento ben preciso ed in seguito ad un fatto straordinario o, quanto meno strano e curioso, tanto da rimanere quasi proverbiale come il personaggio che ne fu protagonista.
     Alla Mortola, ad esempio, chi si accorge in ritardo di un errore commesso, si sente dire: U Bacalà u se n’é acortu â Cruxe. Perché ?   Un tale, conosciuto per l’appunto con questo merluzzesco soprannome, di ritorno dalla fiera di Mentone, soltanto alla sommità della Croce, si accorse di aver comprato un asino invece di una somara come era sua intenzione. Troppo tardi, evidentemente, per tornare indietro a chiedere il cambio, ma sempre in tempo a passare ai posteri come classico esempio di distrazione.
    E così tutti i detti dialettali traggono origine da un fatto realmente accaduto al quale però è difficilissimo risalire.

    Pensiamo, ad esempio, a taglia, taglia, u l’é sempre curtu nato certamente dalla inettitudine di qualche maldestro artigiano: sarto, falegname ... D’in Sant’Antognu in santantunin, d’in santantunin in pistun da sa’ quando, a furia di ridimensionare un oggetto, si finisce per renderlo inservibile; avé cuvea de teta de sciüpia desiderare cose stranissime e impossibili ad avere; suà suta a lenga d’inverno quando fa molto freddo.

                                                    * * * *

    Nu’ avé puira mancu de çentu ch’i scapa; custà ciü d’ina dona patanùa; ina vouta in orbu u l’à atrùvau in’aguglia per un caso rarissimo; cu’i bieli de ün se pö strangurà l’autru adatto a due contendenti entrambi poco raccomandabili; véndise u craveu int’a pansa d’a crava "fare i conti senza l’oste"; nasciüu in Corsega e bategiau in Sardegna un apolide, girovago di cui non si conosce la provenienza.
    Un detto scherzosamente irriverente, per i tempi passati segnati da un senso di sacro rispetto per i genitori: òn tirau ina pria int’a facia â souma e a l’é andà a picà int’u murru â maire.
   E, per chiudere l’elenco, naturalmente incompleto, il commento, cinico ed ironico ad un tempo, di chi ha assistito ad una cerimonia per nulla allegra come potrebbe essere un funerale: ch’a d’u rie, i ciagneva tüti, una freddura d’altri tempi.

                                                 * * * *

     Fra le molte definizioni che sono state date dal proverbio, probabilmente la più azzeccata resta quella dello storico olendese Johan Huizinga "il proverbio concreta il pensiero" perché, in effetti, col proverbio si materializza un concetto compendiandolo in una frase breve e facile da ricordare.
     Oggi esistono ponderosi trattati di paremiografia, raccolte locali, regionali e nazionali di proverbi popolari. Il compito di propone alcuni per una breve nota giornalistica come questa è arduo perché si rischia continuamente di cadere nel déjà vu o nel già fatto.
      Nell’operare una scelta, necessariamente ristretta, bisogna procedere seguendo un duplice criterio: selezionare proverbi genuinamente locali e soffusi di una particolare e buona dose di mordacità. Eccone un piccolo florilegio.
      Dare e avere: Frai piglia u sta’ au Cuventu, frai da’ u nu’ l’è mai da tempu con la non meno incisiva variante Frai piglia u sta’ ae porte de Ventemiglia, frai da’ u sta’ in po’ ciü in là (i creditori li incontriamo sempre, i debitori non si fanno vedere mai).
   E, in tempi di femminismo come i nostri, non è da sottovalutare: A Madama Tenerina, de gratà a schina a su’ mariu, gh’é vegnüu i cali ae mae.
     Ed altri che non hanno bisogno di spiegazione: U pairò d’a Cumüna u nu’ bùglie mai ben (sempre di attualità); int’a carà tüti i bàgi i s’arrùbata; se i figliöi i mangia a ure i caga relöri; candu ti tè fai gratà, i nu’ te gràta mai dunde te smangia; tüta a scarpa a ven sgrüla, ma ina bela scarpa a l’é sempre ina bela sgrula il segno della bellezza si conserva anche col passare degli anni.
    Avànti de lasciasse anda de pe’ e mae besögna assegürasse ben d’i pei; â caussa d’in belu ařburu se ghe möire d’â fame; çent’ani de mařincunia i nu’ paga in’unça de debitu; se i mati i nu’ mategia i perde e ure.
    E, per tornare alla massaia di cui sopra, stufa di servire il marito, ecco il suo slogan protestatario: turte e fügasse, chi ne vö se ne fasse.

                                               * * * *

     Qualche gioco di parole, prima di finire. De çentu marsi nu’ ghe n’é ün bon "fra cento mesi di marzo (e cento frutti guasti) non se ne trova uno buono". Va ciü l’unze che u duze tutto giocato sul fatto che unze, oltre che "undici" significa anche "ungere" da cui lubrificare, in senso figurato, gli ingranaggi politici e burocratici. Una pratica ancora necessaria ai nostri giorni se si vuole ottenere qualcosa dal potere costituito.
    Finezze ironiche del dialetto, come nella frase dialogica: Ti vai â posta ? Na’, vagu pe’ da bon dove a posta ha il duplice e contrario significato di "espressamente" e "per finta" nascondendone ancora un terzo: "Vai all’ufficio postale ? No, vado sul serio".
    U ma’ u nu’ l’é ben dicevano i pescatori e i marinai, un’affermazione ovvia dietro la quale si cela però un sottile doppio senso perché ma "male" significa anche, per omofonia, "mare". Mare inteso in senso dinamico, come massa d’acqua in movimento, e quindi gravida di pericoli, in contrapposizione a marina, mare in senso statico.
    Un detto, quest’ultimo, che richiama alla mente l’assonantico lamento dei pescatori di Acitrezza, descritti dal Verga, il mare è amaro e il marinaro muore in mare.

                      E CANSUN D’A LEVA

     Nel periodo iniziale del secolo, i coscritti, ossia i giovani iscritti alla Leva Militare obbligatoria, che erano chiamati al servizio,  si recavano alla visita medica nel Capoluogo di circondario ed a quei tempi era usanza "tirà u nümeru", numero che se fortunato, permetteva a qualcuno l’esonero dal servizio militare per restare a dar una mano in casa.
    Ancora negli anni precedenti il 1968, nei nostri paesi era usanza la sfilata dei coscritti, che ora sopravvive nei piccoli centri rurali di Piemonte, Lombardia e Veneto (forse neppure più li).
    La negata visita ai "templi" serrati dalla senatrice Merlin e la coscienza antimilitarista maturata con i moti studenteschi hanno fatto cessare, presso i nostri reclutandi, questa tradizione, ma i canti e le canzonacce dei coscritti sono ancora ben presenti nelle memorie dei ventenni d’allora.
   È nostro dovere riportare in queste pagine quei documenti che per annosità o per significato non scendano nel gratuitamente scurrile, consci del fatto che questi ultimi trovano propagazione da se medesimi, nel corso di gite o rimpatriate numerose.
    «A leva d’u (decina della classe) a l’è ina rama ruta / e gai a chi la tuca - e gai a chi la tuca / a leva d’u ...... a l’è ina rama ruta / e gai a chi la tuca - chi la tuca la pagherà».
«Duman matin / se me zira u belin / me vendu l’ase, me vendu l’ase / duman matin / se me zira u belin / me vendu l’ase e vagu au casin».
«Duman matin, pe’ culassiun / pagnote e mussa, pagnote e mussa / duman matin, pe’ culassiun / pagnote e mussa e zambaiun».
     Emilio Azaretti nella prefazione del canzoniere "Cansun ventemigliuse" ci tramanda queste: «Che vagu mì / ti ghe vai tü / gh’andamu tüti / gh’andamu tüti / ghe vagu mì/ ti ghe vai tü / gh’andamu tüti a mustraghe u cü. / I ciù veci i ghe sun andaiti / nuiautri gh’anderemu / anderemu a Sanremu / a fagheřu in po’ ve’».
     «Candu òn vistu u manifestu / ch’u cimava a nostra leva / me sun ditu: trondenun ! / ma ‘sta chi a nu’ ghe vuxeva / pöi òn pensau che l’eira megliu / de nu’ fasse de ciacrin / e sun andaitu a cunsulame / cun in bon gotu de vin».
     Sarebbe necessario che i signori, non più molto giovani, adoperando il metro da noi usato, ci volessero segnalare alcune di queste chicche dei loro tempi, o riferirci sulle usanze dei giorni di "Leva".
                                                                            L.M.

                           Portàsse ben

   
  Salutando, nel commiato, dopo aver scambiato due parole, la frase rituale nei convenevoli del primo Novecento  è stata  sicuramente la formula “pòrtite ben”.
    “Ch’u se pòrte ben, Sciù ...”, “Portéve ben, bela dona”, “Ch’i se pòrte ben, Scignùri” era espressione formale assai riconosciuta.
    Il significato sostanziale tendeva all’augurio per il mantenimento in salute dell’incontrato, ma conteneva ampio riscontro sull’intrinseco atteggiamento locale, un po’ tirato anche nell’insignificante.
    Il fatto che qualcuno, per mantenersi in salute, possa fare da solo, portandosi, ossia, reggendosi in piedi senza bisogno d’aiuto, elimina la necessità che il salutante debba metterci del suo.
    Filosofia di base, contenuta anche nell’augurio “gàrdite”, “gardéve”, “che ti te gàrdi” per esternare il: riguardarsi, controllarsi, tenere il fisico sotto revisione. Anche in questo caso il coinvolgimento è del tutto formale.  ... Tant’è.

                                                                                                                              L.M.

 

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                 BISOGNO MODERNO

    Il carattere tipico dei nostri avi evitava di far trasparire le necessità, anche le più evidenti; su un territorio dove era assai difficoltoso il vivere. Nel modo di esprimersi in quei tempi non apparivano le forme verbali: besögna, bes
ögneréva, besögnerà; che hanno guadagnato un uso in periodi temporali a noi più prossimi.
    Per i nostri vecchi, le necessità si esprimevano con: ghe vö, ghe vurreréva, ghe vurrerà; o meglio ancora: ne ghe vö, coinvolgendo tutta la famiglia o, se era il caso, la società intera.
    Queste affermazioni potevano assumere sfumature, come: n’atòca, l’è mégliu, gh'è modu, ghe seréva da, ave' d’afà.
    Il termine besögnu esisteva, eccome, avendo persino due significati; il primo, più evidente era riferito ad una necessità da ricevere, ma come si è visto era poco usato; mentre il secondo, assai adoperato, si riferiva ad una necessità fisiologica da deporre.
    Il passaggio intermedio tra il besögnu e la forma verbale besögna, è avvenuto attraverso la forma gh’è de besögnu, entrata in vigore con le palesi necessità del periodo bellico e per le malagevoli fasi della ricostruzione, nel dopoguerra.
                                                                     L.M.

                 Strunchetu  e  Sciestru

     Nell’Ottocento, la preziosità dell’olio d’oliva sosteneva l’economia delle famiglie produttrici, con la vendita d’ingenti quantitativi e sovente con la loro esportazione.
    Per risparmiare, quindi, sul consumo famigliare, l’uso dell’olio era, per così dire, razionato attraverso l’uso dello strunchétu, del quale era attrezzata l’oliera da tavola.
    Si trattava d’un bastoncino di legno, ben levigato, che intinto nell’oliera serviva a determinare la dose personale da usare sulle pietanze.
    Nei giorni feriali, ogni commensale poteva intingerlo una sola volta nell’oliera, mentre nelle festività, poteva farlo due volte.
    A Natale, a Pasqua e a San Secondo il bastoncino veniva sostituito con una piuma di gallina, notoriamente più trasportante.
    Di questa usanza rimane un detto popolare: «Besögna fa’ cume i veci d’i veci, ch’i mesürava l’öřiu cu’ ina ciüma de gaglina», che in senso figurato raccomanda di essere attenti nelle decisioni.
   A proposito di razionamenti: era anche consuetudine quello sul pane, che veniva affettato dal capo famiglia per tutti i commensali, in fette propriamente sottili. A volte i ragazzi, un po’ più avidi, facevano notare: «Pàire, végu Sciestru», ponendo la fetta ricevuta tra i loro occhi e la collina che sovrasta la Ventimiglia ottocentesca, verso tramontana.
                                                                              L.M.

                                                                            Tradizioni suggerite da Bruna Bianco

 NOMI D’I PAISI E D’Ê FRAÇIUN
  E D’Ê GENTE CH'I GHE STAN
                         
 
Filippo Rostan - L.M.
.
     VENTEMIGLIA = Ventemigliusu - Ventemigliusi
.
ìntu paise:
.
        
A Ruchéta    =  ruchetin - ruchetin
     A Culéta       =  culantin - culantin
     A Marina      =  marinencu - marinenchi
     U Cuvéntu     =  cuventariö - cuventariöi
     A Bastia       =  valuné - valunéi
     U Burgu        =  burguràtu - burguràti
     Nervia          =  nervìn - nervìn
     A Fundega     =  fundegòtu - fundegòti
.
fraçiun e löghi:
     Bevera         =  beverascu - beveraschi
     E Turre        =  turrascu - turraschi
     A Murtura    =  murturatu - murturati
     E Grimaude   =  grimaudencu - grimaudenchi
                        =  grimaudelu - grimaudeli
     Ruverin        =  ruverinascu - ruverinaschi
     San Benardu =  sanbenardin - banbenardin
     San Lurensu =  sanlurensin - sanlurensin
     Çeglia          =  çegliascu - çegliaschi
     U Trucu       =  trücairö - trücairöi
     Varaze         =  varazencu - varazenchi
     I Verrandi   =  verrandun - verrandui
     A Seaussa    =  seaussencu - seaussenchi
     Santantoniu  =  santantunin - santantunin
     I Zanìn        =  zaninolu - zaninoli
     U Brüghè      =  brügheté - brüghetéi
     A Sgurra      =  sgurraté - sgurratéi
     Vilatela        =  vilateléncu - vilatelénchi
     I Carleti      =  carleté - carletéi
     Laite            =  laité - laitéi
     I Brüneti      =  brüneté - brünetéi
     I Martinassi =  martinassö - martinassöi
     Lacuxian       =  lacuxiàn - lacuxiài
     Dormi - Dormi
.
inti Sestéi
.
     Auriveu        =  auriveàn - auriveài
     Burgu           =  burguràtu - burguràti
     Campu          =  campuré - campuréi
     Ciassa          =  ciassaròlu - ciassaròli
     Cuventu        =  cuventairö - cuventairöi
     Marina         =  marinéncu - marinénchi

 

                       U bestentu

    Nell’andare corrente del nostru parlà, la parola “besténtu” ricorre ormai soltanto nell’accezione di “a fòura d’u besténtu”, quella “ch’a düra longu tempu”; la quale raccontata ad un bimbo trova la particolarità di non terminare mai,  infatti  dopo aver chiesto  “ti vöi che t’à conte ?”, a qualunque tipo di risposta, si ricomincia daccapo, imperterriti.
     Il significato di fòura d’u besténtu sarebbe dunque: cantilena lunga e ripetitiva, ovvero: favola interminabile; ma anche: lite senza fine per le cause giudiziarie, o perché no: lavori pubblici o privati che non hanno termine. Che dire delle moderne telenovelas e soap-opera televisive.
    In queste espressioni besténtu è dunque sinonimo di forte indugio, oppure di andare per le lunghe, ma in passato il termine veniva nominato come sostantivo ben definito: besténtu era quel bimbo che continuava ad essere allattato, anche dopo la nascita di un altro figlio.
     Al femminile: a besténta è la sosta che il viandante compie, lungo la strada, per riprender fiato e, nel caso, far due chiacchiere.
                                                                                      L.M.

Le tradizioni sul territorio sono ben documentate nel sito:

 

                     U MANGIÀ

      Nelle festività, il rito dei consecutivi grandi pasti e cenoni stimola la riesumazione del linguaggio adoperato a tavola, nel parlare intemelio.
       È mangià il termine che offre il significato del disporsi a tavola, ma il cibo si può anche succhiare: süssà, o berlecà: leccare, oppure si può mangiare poco di tutto: pelücà, o pitulà: mangiare piccole cose una dopo l’altra, oppure: süssà: sorbire o mangiare di soppiatto.
Sgranocchiare: sgranuglià, non si deve confondere con rusiglià: rosicchiare, mentre abufàsse: ingozzarsi e incìsse â rànda: riempirsi alla randa, inteso come asticella della misura per le olive, sono simili a fassene ina fùrra: rimpinzarsi.
        Far mangiare per forza: inguřà è simile a ingavunà: proporre cibo senza limiti, però qualcuno potrebbe autonomamente desbauciàsse: gozzovigliare o mangiare con ingordigia: dàsse recàtu, fìno a savulàsse: satollarsi.
Il cibo si può mordere: mòrde, ma anche dentà: addentare, comunque masticare: giascià, così da preparare il bolo: u bucùn da culà: inghiottire o da mandà zü: ingerire.
        Bucunétu: bocconcino, oltre che diminutivo di boccone, è anche sinonimo di prelibatezza. Si può pasteggiare: pastezà, ma anche cumpanegà: mangiare con molto pane.
Certamente sdernàsse: consumare il pasto e çenàsse: consumare il pasto della sera, derivano da sdernà: pranzo e çèna: cena.
      Per assaggiare si usa atastà, quando si tratta di cibo solido, mentre con la degustazione di liquidi e di fluidi si usa assazà; cosicché, quando si arriva ad alecàsse: provare gusto al cibo, si può giungere fino a berlecàsse: succhiare le dita per non perdere nulla dell’ottimo cibo.
        Nel corso di una bisboccia: desbàuciu, qualcuno può inguràsse: mangiare in velocità, fino ad ingozzarsi: ingavunàsse ; se poi si trattasse di vitto a scrocco: sbàfa, si finirebbe per sbanfà: mangiare a ufo; inoltre se non si pecca di grumandìxe: amore sconsiderato per il cibo, si potrà soltanto assavurìsse a bùca: provar piacere di cose gradite, mangiando ... cume in receciö: come uno scricciolo, evitando di fare una pansà: abbuffata, o peggio ancora una scorpacciata: guscià, ma certamente evitando di zazunà: digiunare.
                                                                  L.M.

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PARERI    E    COMPORTAMENTI

       Dai comportamenti, nel passato della nostra gente, abbiamo imparato a prevedere il modo di vivere che ci avrebbe caratterizzato a nostra volta.  In periodi di globalizzazione dirompente non si può certo continuare con le solite valutazioni, ma conoscerci meglio nell'atavico non disturba certo.

       Dai comportamenti d'un tempo caviamo almeno le usanze e le tradizioni, magari per riconoscerle.