TONI,
CHELU CH'U FA' PITÀ
Precise informazioni, fornite dal dottor Emilio Azaretti ed
ampliate dall’esperienza diretta di almeno un’altra quindicina
d’informatori fidati, hanno fornito le caratteristiche peculiari
di un personaggio immancabile nei carnevali ventimigliesi
anteguerra, le fattezze del quale; richiamando
iconografie, anche famose, hanno mediato per quel protagonista
un costume consono, quanto genuinamente originale.
Il tipo mascherato descrittoci era detto “Chelu
ch'u fa’ pità”, indossava sovente un camicione enorme, che
mascherasse le reali sembianze del folle giullare, per ovvie
ragioni di temute rivalse, possibili, visto l’incarico di
dissacratore satirico che assumeva nei confronti della politica
cittadina, anche se solamente nei giorni di Carnevale. La
caratteristica estetica più rilevante era il fatto di essere
armato di un lungo bastone dal quale pendeva un’aringa
affumicata.
Questi faceva capitare l’aringa davanti al naso del
malcapitato preso di mira ed alterando la voce in falsetto, gli
proponeva: ”Ti pìti, ti pìti”. Ad una qualunque reazione
del soggetto scelto, iniziava, sempre in uno strettissimo
falsetto, la sequela delle satire popolari, più o meno
pubbliche, più o meno note, che lo riguardavano, non
risparmiando proprio nulla.
Se il malcapitato abbozzava, tutto finiva in
allegria tra una bevuta generosamente offerta, alla compagnia;
se viceversa si alterava, peggio per lui. In quel caso, la città
tutta sarebbe ben presto stata informata delle presunte
malefatte o degli scandali stimati al personaggio in questione.
Lasciato uno sfortunato interlocutore, suo
malgrado; il nostro andava subito alla ricerca del prossimo, il
quale, se personaggio pubblico, avrebbe fatto meglio a farsi
trovare tra la folla festante, in modo bonario e spontaneo.
Con questa presenza si sarebbe risparmiate ben
più feroci satire, con l’aggravante di non poterle sminuire,
ridendoci sopra direttamente.
Compito rilevante, gravoso e delicato aveva
dunque la maschera “Chelu ch'u fa’ pità”, colui che
costringe a beccare. Era, di solito, il giovanotto in possesso
delle migliori caratteristiche d’attore, mimo ed improvvisatore
di tutta la compagnia di buontemponi che frequentavano i caffè
culturali cittadini, allora in grand’auge.
Le notizie ed i testi delle satire erano
creati coralmente, nelle insonni nottate precedenti il
Carnevale, ma gli appunti strategici, sugli argomenti piccanti,
erano conservati nel corso dell’intero anno, quando capitavano o
quando se ne veniva informati, meglio se segretamente, tutto
nella prospettiva della libertà carnevalesca, più o meno
accettata.
IL
"CARLEVA' D'A CIASSA"
Dopo più di trent'anni d'oblio, dal 1984, anche
Ventimiglia, ha ritrovato il suo “Carlevà”, ad opera del
Sestiere Ciassa che, dapprima in sordina, eppoi sempre più
decisamente ha saputo risvegliare nello spirito dei
ventimigliesi, o almeno in quello dei più piccini, la
voglia di celebrare una tradizione, da tempo soffocata dalle
presenze famose e relativamente vicine dei grandi carnevali di
Nizza e Viareggio.
Il "Carlevà d'a Ciassa", che ha i suoi
bravi carri, il “rumpipignata” ed il suo bel falò di Re
Carnevale e la sua maschera tipica, che si chiama "Toni",
parafrasando un diffuso modo di dire locale.
Però, edizione dopo edizione, il "Carlevà d'a Ciassa",
proprio a partire da una delle caratteristiche di Toni, ha
saputo creare la peculiarità più evidente, dell'intera
manifestazione.
Prima di dar fiamma al rogo propiziatorio; attraverso i
vezzi di Toni, il Sestiere assegna ai personaggi pubblici
cittadini alcune virtuali aringhe dolci o salate.
Ovviamente le dolci vanno a chi ha operato bene e le salate ai
personaggi in difetto di simpatie, considerando come, il
Sestiere guardi con un occhio di particolare attenzione quanti
operano pro o contro la città alta, sede della Rezeria e dello
stesso Carnevale, con riusciti risultati mediatici.
La maschera del Carnevale ventimigliese
SUN
SEGÙ, U PESCAVÙ
U Carlevà d’a
Ciassa u m’à faitu vegnì in mente caicosa de ciü insce chelu
ch’u fàva pità. U l’eira amatàu cu’ in duminò negru ch’u gh’arrivava
ascaixi ai pei, cu’ ina scùfia ch’a ghe crüviva a testa e
una de chele màscare de cartun, ch’i rende inpuscibile de
induvinà a facia che gh’é derré.
Candu u s’afermava insciu cantu d’a strada,
aspeitandu che passesse a vìtima, u l’àva za’ inturnu caicün
ch’u vuxeva gòdise a scena. Infin a vìtima a l’arriva e Segù
pruntu u s’aveixina cu’ a cana aissà, fandu bala l’arengu, e
u se presenta diendughe, segundu a tradiziun: Sun Segù, u
pescavù, òn a cana inescà, vögliu fate pità !
Di’ Segù, l’é cume di’ in ventemigliusu ch’u
cunusce i segreti d’i autri ventemigliusi; di’ pescavù, l’é
cume di’ ün ch’u l’è bon a tiraři föra, ‘sti segreti.
E gente, prunte, i furma aviau in çerciu inturnu
a Segù e â sou vìtima, che, cunuscendu a tradiziun, a stava
in genere au zögu, pe’ nu’ fa’ brüta feghüra.
Feniu u primu atu d’a cumedia, gh’eira, cume au
teatru, in po’ de repousu, aspeitandu che n’arrivesse in’autru
o in’autra da fa’ pità.
E a dürava fina che Segù, mezu stentu da chela
mascara de cartun ch’a cumensava a deventà mola inturnu â
buca, u se meteva a cana in spala e u spariva, aumancu pe’
caiche ura fin ch’u nu’ l’eira arresciourau e turna pruntu a
fa’ pità.
Emilio AZARETTI
LA VOCE
INTEMELIA -
marzo 1987. Terza pagina.
L'ATTUALE COSTUME DI TONI
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è costituito da un camicione
bianco, un po’ lacero e con qualche toppa multicolore, con un
ampio colletto allacciato stretto al collo, maniche vaporose ed
allacciate strette ai polsi. Bragoni bianchi, ampi e vaporosi,
dalle stesse caratteristiche del camicione, anch’essi allacciati
stretti alle caviglie.
S’intravedono calze nere entrare in
scarpacce da villico. Guanti neri coprono le mani che reggono il
bastone con “l’arenga” ed un simbolico scettro sfollagente,
costituito da un tradizionale “baturézu”, il battente
arnese legnoso, immancabile nel corredo di ogni buona lavandaia.
Una collana, portata ad armacollo, formata da una filza di
salamini, alternati ad alcuni piccoli sonagli, collegherà la
nostra maschera al primitivo significato di masca o
larva.
Per richiamare l’ancestralità del personaggio
alla tradizione popolaresca, una maschera nera con naso a becco
arcuato di tipo priampeo, copre il volto, contornato da un
berrettaccio floscio a cono, con fiocco di colore rosso.
La "beréta russa", che oltre ad essere simbolica, è da
sempre nell’iconografia del popolano ligure; inoltre nei lazzi
carnevaleschi di un tempo, proprio in zona, si amava citare
Cambronne col classico: "Merda e beréta russa".
Una vistosa sciarpa rossa cinge il ventre prominente,
spiccatamente posticcio, sboffando sul lato della parte
annodata. Fa’ parte integrante del corredo un ampio
mantellaccio nero; sorretto da qualcuno della masnada
accompagnatrice, era usato solamente nei trasferimenti, per
riparare il nostro dal freddo, o per mimetizzarlo, quando si
metteva male, per un eccesso di reazione da parte
dell’insidiato.
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