A Levante delle pendici fluviali della collina di Siestro,
costituite dalla Bastida, dal Cuventu e dai Paschei, la piana
alluvionale delle Asse, è compresa tra l’incastonato deflusso del
Rio Resentello ed il precipitante intaglio della Riana delle Vacche,
che la divide dai territori piani di Nervia.
Le Asse sono sovrastate a Nord dall’incombente collina rocciosa
delle Mauře, costituente la costola terminale del poderoso crinale
orografico, spartiacque tra la Bassa Val Roia e la “Rivaira”
Nervia. Verso Levante, oltre la Riana delle Vacche, la piana
alluvionale di Nervia si inerpica verso la Collasgarba, continuando
ad essere sovrastata dal bastione orientale delle Mauře, separate
dal quel risalire di Collasgarba verso il culmine, dalla scoscesa
Riana delle Mauře, che confluisce nel Vallone di Collasgarba, ultimo
affluente di destra della Nervia.
La collina delle Mauře è un enorme mammellone di puddinga e rocce
carsiche, che si dipana dalla estesa falda sud di Monte Fontane,
mantenendo in costante altopiano il territorio di crinale, mentre i
fianchi laterali, sia a Ponente che a Levante, precipitano con
discontinui, ma connessi, bastioni rocciosi sui territori
sottostanti. Il frontale Sud, rivolto sulle Asse, piega deciso con
brullo pendio, fino a piombare a precipizio su quello che oggi è il
Campassu delle Ferrovie.
LA COLLINA DELLE MAUŘE
MOR, MUR e MOUR : risalto di roccia.
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La voce MOR e le sue derivate sono di indubbia origine preindoeuropea mediterranea. Parole composte con tale radice risuonano ancor oggi nelle lingue parlate dalla Spagna all’India Meridionale. Prima di esaminare più specificamente i dialetti alpini, tentiamo un breve excursus geografico allargato. Per significare collina lo spagnolo ed il portoghese usano morrò, il basco murra. Nell’Italia Centrale e Meridionale morra indica una guglia di pietra; antico francese e francese odierno han conservato “murger” e “murgier” per designare una pila di sassi, come mora in Corsica; mentre lo stesso sostantivo in Sardegna rappresenta una collinetta.
In ebreo morad è il fianco d’una elevazione rocciosa; nei dialetti kabili un mucchio è detto ammur. Le lingue dravidiche dell’India Meridionale (Canara, Toulou, Telougou...) usano moradu nel senso di collina sassosa, mura, mora per cava di pietra, moramu per pietruzza, morapa per ghiaioso.
Anche il termine indoeuropeo MUR, portato in Italia dai Latini, dagli Oschi e dagli Umbri, ed in Europa dai Celti e dai Germani, può ricondursi allo stesso significato, se si considera che anticamente “murus” indicava un manufatto di pietre o resti di antiche costruzioni e “murex” una roccia aguzza.
Qualche confusione venne fatta durante il Medioevo con l’aggettivo latino “maurus”, scritto mor dagli scribi, designante il colore marrone scuro, nome con cui venivano anche indicati i Saraceni, soggetti di leggende e di storie fantasiose.
Per esempio molti collegano alle loro scorrerie alpine l’origine dell’appellativo Maurienne (Moriana in italiano), dimenticando che la regione era già stata citata Maurienna da Gregorio di Tours, tre secoli prima delle incursioni arabe, e che non significa niente di marrone, ma una zona di montagna legata all’arcaica radice MOR, come Morbegno, Mori, Merano. lo credo che persino il Massif des Maures, alle spalle di St.Tropez, il porto attrezzato dai Saraceni, derivi dalla stessa arcaica radice, interpretata dalla gente nel significato di “mori” dopo il periodo della loro occupazione.
Ma torniamo ai dialetti alpini per avere un’ulteriore conferma della persistenza di MOR e del suo significato. Un monticciolo di pietre si dice merger, morjhi, morgier, murgié rispettivamente nella Brie, in Savoia, nel Vallese, in Delfinato.
Nel francoprovenzale muru indica genericamente un mucchio; a Briancon mourette ha il significato specifico di melassa. Nell’occitano alpino lou moure (pronunciato “lu mure”) vuol dire il muso, la faccia, ma può anche indicare una collina isolata.
In Valtellina si chiamano mùrak, murache gli ammassi di pietre risultanti dalla spietratura dei campi e delle vigne. Sulle Prealpi Venete le marogne sono i muri a secco a sostegno dei terrazzamenti. L’antico savoiardo morèna usato nel senso di scarpata, che d’altronde ripete un analogo vocabolo celtico, è divenuto il termine geologico universale per individuare gli ammassi detritici trasportati dai ghiacciai.
Le variazioni subite dalla radice MOR nei vari dialetti si riflettono anche nella toponomastica locale. Così nel Vallese ed in Savoia predominano i toponimi con la O: Morzine, Morgex, Morcles, Morette, Morion ecc.. Mentre nell’area occitana del S-0 alpino abbondano quelli con la U (scritta OU): Moure, Mourin, Mourfreid, Mourres, Mourìe. La Morra d’Alba e di Villar San Costanze, entrambe in prov. di Cuneo, italianizzazione di La Moura (leggi Mura), si riferiscono a due tipici insediamenti sorti o in cima o al piede d’una altura.
Esistono poi le attrazioni; a quella evocata dai “Mori” abbiamo già accennato. Sulla base MOR ha esercitato anche molta influenza la parola “mort”, la morte, per l’innegabile assonanza ed il fascino del suo mistero. Troviamo il toponimo tale e quale, La Morte, comune del dipartimento dell’Isère che per motivi turistici sta cambiando il nome in Alpe-du-Grand Serre; oppure con la specifica di chi è morto, come nei vari Homme Mort, Femme Mort, Frema Morta, Frère Mort, Vacca Morta, o di come è avvenuta la morte, Bonamorte, Mortevieille.
La variante MOL, MOUL, MUL, dovuta alla facile confusione tra L ed R, tipica dei dialetti alpini e delle lingue mediterranee in genere, si è prestata alle interferenze di “mulino” e di “mulo”. Al primo vanno ascritti i vari Moulin, Molines, Mollina, Mulinet, quando si riferiscono a siti elevati e rocciosi, dove quindi è da escludere la presenza di mulini. Tipico il Pie de la Moulinière (3073 m) in Delfinato, nel cui nome intravediamo un MOUR-nier (punta nera). Attenzione tuttavia ad evitare scambi di radice e di significato con i toponimi originatisi durante la colonizzazione medioevale, derivanti da molieres, moulieres, mouieres, località umide o con acqua stagnante. Contaminati dalla parola mulo troviamo le Rocher des Grands Mulets a Chamonix, sulla via normale di salita al Monte Bianco, e le varie cime dei Mulatières o dei Muletiers, della Punta Mulatera in Val di Susa, del Colle del Mulo, importante nodo orografico tra le Valli Maira e Stura.
Paul-Louis Rousset
Ipotesi sulle radici preindoeuropee dei toponimi alpini
Priuli & Verlucca - Ivrea 1991
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Questo vero e proprio baluardo naturale protegge il territorio
ventimigliese dalle gelide brezze della Nervia, come lo ha sempre
protetto da fastidiosi interventi umani da Levante, fino al momento che
i genovesi oppressori lo hanno saputo rivolgere tatticamente a loro
beneficio.
Il toponimo prende forma dalla antichissima voce che definiva un risalto
di roccia, anche se, nel tempo, ispirata anche dalle antiche muraglie
che ne percorrono il fianco occidentale, la demologia popolare aveva
concesso al toponimo significati inerenti una improbabile occupazione
saracena. I muraglioni sono stati innalzati dagli invasori genovesi, nel
XIII secolo (vedi
PORTASSE), mentre sul significato
preindoeuropeo di “Mauře” ci chiarisce le idee Paul-Louis Rousset, a
pagina 115 di un quaderno pubblicato ad Ivrea, nel 1991.
Nel 1794, i Francesi annetteranno i possedimenti dolceacquini dei
Doria alla Contea di Nizza, poi nel 1797, Ventimiglia sarà Capoluogo
del Distretto del Roia, comprendente anche i territori di Levante,
fino a Bordighera, quindi le Mauře non costituiranno più un confine;
come quando nella seconda metà del XIX secolo il territorio di
Camporosso è stato frazione ventimigliese.
Già fin dal 1801, la Repubblica Ligure, filofrancese, declassava la
nostra città includendola nella Sottoprefettura di San Remo, a causa
dell’inettitudine mostrata dai nostri amministratori, derivata dalla
nefasta casta dei “Magnifici” di spunto genovese, intanto che nella
città Matuziana si susseguivano amministratori preparati e
lungimiranti, forse perché non ancora deformati dai proventi del
Casinò, come lo saranno nel XX secolo.
Il 21 agosto 1693, si tracciavano i confini tra Ventimiglia e la
Comunità degli Otto Luoghi. Partendo da un termine sul monte Colombino,
presso il territorio di Penna, in linea quasi retta verso la cima di
Collasgarba e la foce del Nervia, il delegato Bartolomeo De Rustici,
designato dal commissario genovese Girolamo Invrea, tracciava il nuovo
confine tra Ventimiglia e la Comunità degli Otto Luoghi. Quel confine
divide ancora oggi il nostro comune da quello di Camporosso, il quale in
quella occasione ha messo in evidenza la divisione, rivoltando la
specifica della chiesuola, col porre l’abside sul lato occidentale, come
per voltare le spalle a Ventimiglia.
Prima di quella data, a Levante delle Mauře si stendevano i territori
delle Otto Ville, parte integrante del grande Collettività
ventimigliese, quella che almeno dall’anno 1100 si prospettava con le
qualità di un Libero Comune Marinaro, il quale aveva il costume di
datare i suoi atti “juxta
stylum o secundum cursum Vintimilii“; consuetudine che manterrà fino al 1660.
San
Cristoforo stato considerato protettore dei viandanti, oltre che dei
Cavalieri Templari, per questo è stato prontamente sostituito con San
Giacomo, il quale, fin dal 1200, diventava sempre più popolare tra i
numerosi pellegrini che si recavano a Compostela.Dagli
atti rogati nell’anno 1260, dal notaio Amandolesio, apprendiamo come, sulle nostre
strade, fosse diffusa la pratica del pellegrinaggio verso la Galizia.
Nel
caso di Rainero Anfosso, il 5 dicembre di quell’anno, nel
testamento, dispone che siano consegnate ben quattro lire a chi
vuole recarsi per lui a Compostela. Anche Domenico Cambiaso ci
fornisce notizia di come transitasse sulle Mauře uno degli itinerari
di pellegrinaggio verso la Spagna. Sempre nell’anno 1260, Ascherio
Marengo si ammalò in Ventimiglia mentre era diretto a Santiago,
volle che fosse dato del denaro a chi avesse proseguito il viaggio
per lui.
La
presenza della località detta Martinazzi, alle falde della collina
di Siestro, segnala un insediamento dedicato a San Martino, sul
tratto del più importante tra i percorsi dal crinale al mare ed alla
viabilità romana. Anche San Martino era considerato protettore dei
pellegrini, proprio di quelli che si recavano in Galizia, avendo
sovrapposto la sua figura alla divinità celtica Lug, che in epoca
precristiana conduceva già i pellegrini a Compostela, segnalandosi
con la figura della zampa dell’oca, sacra a Lug ed attributo di
Martino; figura che verrà sostituita dalla similare conchiglia
pecten, meno deteriorabile, più facile da ritrovare, a
Finisterre; molto utile nel prelevare l‘acqua per bere, lungo il
cammino.
Sull’apice Nord del crinale, da sempre dovrebbe essere stato presente un
manufatto sacrale, ad indicare il quadrivio costituito dal passo a
cavaliere delle vallicelle di Seborrino, da una parte e della foce del
Resentello, dall’altra; un percorso ora non molto frequentato, che ha
conosciuto in passato una diffusa popolarità.
Ancora in Evo Antico, quando la nostra città prese forma sul poggio
dello Scögliu, abbandonando l’antica Città Nervina, il punto
geografico che ospitava quel manufatto sacrale, assunse una valenza
astronomica che aggiunse sacralità al luogo. Nel Solstizio d’Estate, per
Ventimiglia Alta, il sito Nord delle Mauře identifica il luogo dove
sorge il Sole.
Oggi su quel sito troneggia la chiesina di San Giacomo, eretta nel XV°
secolo sui resti di una cappella dedicata a San Cristoforo; considerando
che San Giacomo, viene citato fin dall’anno 1498. In quel tempo, quel
manufatto sacro, aveva l’abside rivolta ad Est, col portale volto a
Ventimiglia, proprio come si addiceva ad una chiesa orientata
astronomicamente. Per i Ventimigliesi, era il luogo frequentato dalla
Comunità nelle occasioni pie, abbinate alla “gita fuoriporta”.
Sappiamo come, dopo il 21 agosto 1693, col tracciato dei nuovi confini,
i Camporossini abbiano rivoltato l’abside della chiesuola, andata a
capitare nel loro territorio. I Ventimigliesi abbandonarono la
frequentazione, limitandosi a salire, in quelle occasioni, al Santuario
di Madonna delle Virtù, il quale si trovava per strada, ad indicare un
altro importante bivio dell’antica viabilità, verso il luogo dove nasce
il sole nel Solstizio d’Estate.
Prima del XV° secolo - dice il Rossi – il colle medesimo, fino a
l’anno 1200 era chiamato di San Cristoforo - ed aggiunge -
il culto popolare per questo Santo, portava avanti una credenza pagana,
onde bastava si guardasse una gigantesca effigie di Cristoforo, dipinta
sul muro di una casa in quartiere Lago, prima di intraprendere un
viaggio, per avere un felice ritorno.-
In
quella chiesuola di crinale, la possente figura San Cristoforo avrebbe
certo sostituito quella altrettanto vigorosa di Eracle, che potrebbe
aver troneggiato all’interno di un faunum, segnalatore
dell’importante quadrivio nell’antichissima
Strada Heraclea, in quel punto
perfettamente in ottica con la sacralità della Turbia, ad Occidente e
con quella di Sepulcrum (Seborga) a Levante.