Sulle due opposte sponde s’ergono altri edifìzi di seghe
con Borre di pedali accatastati sulle rive del fiume.
Questi legni pedagnuoli son qui trasportati dalle
montagne dei Comuni di Tenda, Briga e Saorgio. Ed ecco
come si fa il taglio ed il trasporto. Gli alberi stanno
su erte cime o in profondi valloni, donde non v’è strada
per condurli. Il bracciante recide la pianta, ne rimonda
il pedale, i pedali si accatastano sulle rive nel letto
del torrente che dappertutto è formato dagli scoli
alpestri, e che secco il più del tempo, a volte diviene
pieno e rigoglioso. Quando le pioggie o il gelo
l’abbiano rigonfiato, il torrente solleva que’ legni, e
li trascina seco a valle, dove trovasi poi o un lago o
un fiume più grosso, entro il quale sono raccolti. Ed è
uno spettacolo veder migliaia e migliaia di ceppi
d’alberi portati dal piano fiume, sotto la direzione
d’una truppa di borrellai, che con rampi e forche li
smuovono, li avviano, e li disuniscono, li spingono, li
distrigano dagli scogli. Ma non pertanto tale condotta
anticipata, veggono non di rado i fusti insieme dispersi
per il mare, agitato dal vento e dal mareggio che
v’inducono le furiose onde del fiume.
Queste borre sì bene accatastate, il cadimento delle
acque che danno il moto impresso alle macchine, il girar
delle ruote, il tempestar dei magli, ed il continuo
rumor delle seghe accordano il loro fragore a quello
delle acque cadenti. Il rapido moto, la veduta dei
lavori e dei lavoranti conferiscono al paese un aspetto
brioso, allegro, vivace.
Desideroso di far una rapida escursione nella valle del Roia, uscio dalla città soletto e pedestre dalla porta
del Piemonte ...... rilevai
gli occhi verso settentrione, ed inviai per quel grande
spaccato di bizzarre montagne gli sguardi sino a quelle
acute moli che superbe s’alzano nella regione dei nembi,
dalle quali scaturisce il fiume Roia (Rutuba dai
Latini). I dirupi per cui si fa strada fra le stagliate
e spaventose balze di Saorgio, e le orride e contorte
gole che si protendono sino alla Piena ed Airole,
segnano in parte oggidì i confini tra il regno d’Italia
e l’impero francese. Avvien però e non di rado che la
dirotta pioggia ed il repentino risolverai delle nevi su
per le alpi, lo gonfiano talvolta a segno che rode con
un tempestoso impeto le fertili sponde estendendosi sino
al mare, e ne provengono ai vicini villaggi gravissimi
danni. Il disegno di frenarlo con argini fu più volte
ideato, proposto, dibattuto, ma sempre invano.
Fuori la porta della città un’antica fontana in mina che
fiancheggia la strada, costrutta di pietre riquadrate
che alcuni vogliono opera romana, attira lo sguardo del
viaggiatore. Sottostante a questa antichità sulla riva
del fiume fa bella mostra il Molino dei Fratelli
Bianchieri. Ivi osservai con piacere come le acque
corrono ad aiutare gli operai nella fabbricazione degli
olii e nelle macine da grano, ma sopra tutto notai con
diletto un piccolo volume d’acque metter in moto le
macine, i vagli, gli stacci, innalzar il grano al suo
arrivo fino alla sommità dell’edifizio, poscia ricalarlo
trasformato, indi rimesso al basso sui carri, insaccato
in farina.
Di questa usanza rimane un detto popolare: «Besögna fa’ cume
i veci d’i veci, ch’i mesürava l’öřiu cu’ ina ciüma de gaglina»,
che in senso figurato raccomanda di essere attenti nelle
decisioni.
A proposito di razionamenti: era anche consuetudine quello sul
pane, che veniva affettato dal capo famiglia per tutti i
commensali, in fette propriamente sottili. A volte i ragazzi, un
po’ più avidi, facevano notare: «Pàire, végu Sciéstru»,
ponendo la fetta ricevuta tra i loro occhi e la collina che
sovrasta la Ventimiglia ottocentesca, verso tramontana.
L.M.
Tradizioni suggerite da Bruna Bianco
LA
VOCE INTEMELIA anno LVII n° 10 - ottobre 2002
Nell’Ottocento, la preziosità dell’olio d’oliva sosteneva l’economia
delle famiglie produttrici, con la vendita d’ingenti quantitativi e
sovente con la loro esportazione.
Per risparmiare, quindi, sul
consumo famigliare, l’uso dell’olio era, per così dire, razionato
attraverso l’uso dello strunchétu, del quale era attrezzata
l’oliera da tavola.
Si trattava d’un bastoncino di legno, ben levigato, che intinto
nell’oliera serviva a determinare la dose personale da usare sulle
pietanze.
Nei giorni feriali, ogni commensale poteva intingerlo una sola volta
nell’oliera, mentre nelle festività, poteva farlo due volte.
A Natale, a Pasqua e a San Secondo il bastoncino veniva sostituito
con una piuma di gallina, notoriamente più trasportante.
SIESTRO E BANDETTE
A partire da metà Ottocento, gradatamente, dalla città medievale, arroccata sul colle che conchiude la riva destra della Roia, il Centro direzionale di Ventimiglia si è trasferito sul piano, in riva sinistra, attorno alla Stazione Ferroviaria Internazionale. Alle spalle di questo, posizionata in direzione Nord-Est, si erge l'ubertosa collina di Siestro, che nella sua parte più a Sud contiene i terreni delle Bandette. A partire dagli Anni Sessanta, molte di quei pregiati terreni agricoli lasciarono il posto a una disordinata crescita di corposi condomini, mal serviti dalla viabilità, ostacolata anche dalla massiccia presenza dei binari ferroviari. Nel 2000, l'isolamento del quartiere si è parzialmente risolto, con la costruzione di un sovrappasso in località Vallone.
Da Nervia traversando la ferace
pianura di Asse, si trae al popolato sestiere di Sant’Agostino; e da qui
prima di seguire la nuova strada nazionale, che rasenta la Roia,
muovendo a destra per la ripida salita di Siestro s’incontra il devoto
santuario di N.D. della Virtù, eretto in uno speco, dove la tradizione
dice rinvenuto sopra di un roveto, il simulacro riprodotto dal bulino di
Roggerone. Questa chiesa visitata il 28 maggio 1573 dal vescovo Galbiati,
era nel 1625 beneficata dal pio lascito di un Galleani, che vi chiamava
ad ufficiare ogni sabato ed ogni festività della Vergine, i frati
agostiniani.
Siestro è la trasformazione di Sigestrum, di cui abbiamo in
Liguria due città, una chiamata Sestri di Ponente e l’altra Sestri di
Levante. Il nome Sigestrum, d’origine greca, deriva da sighe
e da stronnumi, che uniti insieme significherebbero una distesa
silenziosa.
E fu davvero sulla distesa di questo colle soleggiato, rivestito
d’alberi d’ulivi, di viti, limoni e alberi da frutta, che vi erigevano
le loro dimore estive, solitarie e chete i signori di Ventimiglia, i
letterati dei secoli trascorsi.
Nel
1331, Carlo Grimaldi avea fatto acquisto di considerevoli beni stabili,
nelle località di Siestro e di Mortola.
Fu nella torre, di proprietà ora dell’avvocato Andrea Biancheri, che
Paolo Agostino Aprosio, accademico apatista di Firenze, compose nel 1673
un trattatello morale intitolato: La strage dei vizi capitali.
Quivi pure nell’aprile del 1833 si nascose il fuggiasco Giovanni Ruffini
di Taggia, l’autore del romanzo Lorenzo Benoni, pedinato dalla
polizia sarda. Egli poté così sfuggire la morte e rifugiarsi in Francia,
dove l’attendeva Mazzini.
Nel 1487, affinché l’Ordine Agostiniano innalzasse nell’ambito della
città un chiostro ed una chiesa, i Ventimigliesi offrivano tutto il
lenimento dal Roia al Nervia e il colle di Siestro, che fu chiamato così
perché, secondo una tradizione antica, si credeva fosse consacrato alla
dea Segesta, protettrice delle messi. L’invito fu accolto e venne scelto
il luogo dov’era già innalzata una cappella a San Simeone, la quale i
canonici, durante le rogazioni, nel secondo giorno, visitavano
processionalmente, e tutto il luogo era detto Bastia.
La chiesa ed il convento di Sant’Agostino fiorirono nel XVI e XVII
secolo non solo per gli uomini illustri, ma anche per i molti lasciti di
beni immobili e di denaro. Si può dire che quasi tutto il colle di
Siestro appartenesse agli Agostiniani, dove avevano innalzato alcune
case per abitazione dei coloni e per villeggiatura dei frati.
Orbene: gli Agostiniani, padroni di questo colle e di altri terreni
estesi fino al torrente Nervia, occuparono molti operai, pagandoli ed
ospitandoli in sette torri, di cui ora ne rimangono- solo tre. Ma
scoppiata la rivoluzione francese e venuto il periodo napoleonico,
l’Ordine agostiniano fu soppresso, i frati furono espulsi, i beni
incorporati allo Stato.
da INTEMELIO del can. Nicolò Peitavino - 1932
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