rivista il: 19 settembre 2013
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Raccolta
 

 

       Ma ben so che ‘n questi linguaggi V.S. haverà letti altri componimenti: non però sarà di quello che segue, che è l’idioma di Ventimiglia. E perché in questo non mai fu stampata cos’alcuna, ne forse composto altro che tre sonetti, che ritrovomi alle mani, questi non mi fia grave di registrare, per comunicarli a V.S. Furono scritti da Roma a Lucerna ad un concittadino, che era il Dottor Domenico Antonio Cotta Sismondi, allhora Auditore di Monsignor D. Lorenzo Gavotti Vescovo di Ventimiglia, e Nontio Apostolico a’ Cantoni Catholici degli Svizzeri et hora Archidiacono e Penitentiere della medesima città, soggetto ad ogni maggior lode superiore.

                                                    Non so perché ve tegni tanto bon,
                                                    Perché sgrissero sei, pesso de Soyra;
                                                    Che mi, che son spagnolo, non ho poyra
                                                    Chiù che ro gato, e un can d’un maccaron.

     Magnifico, no ve perdoneron,
     Se ghe vegnisse ben BATÈ MORMOYRA,
     O BATÈ SOYA, ch’è coxi pelloyra,
     O PERDINZARI, ch’è coxi poutron.

                                                    Ben ve rengratio assai dre vostre noeve,
                                                    Xiben, ch’à fo una certa mercantia,
                                                    Che m’era ben chiù cara un pescio d’œve.

     Scrivei de chelle lì de Sgrisseria,
     Per contare a ri amixi cando chiœve,
     Che coxi fuzerei ra poutronia.

           
Hor non pare a V.S. che dica bene ? A me certo si, se non son vestito dell’affetto della Barbagianessa. Ma per cortesia senta quest’altro, che parmi cresca d’un grado.

                                                    Gardè se l’è da rri, corpo dra doglia,
                                                    De l’arroganza de chesti Marrai,
                                                    Che se Pranza gh’assussa ri suœi cai
                                                    Y no seran seguri manco in Poglia.

     Y ghe stan pe ro fi senza l’agoglia,
     E y bravan, e son tanto acoventai,
     Come s’i no dovessen insci mai
     D’Italia, e no mena presto ra groglia.

                                                    Vegne ro mà dra biscia a chi ghe cré ;
                                                    S’o fosse ben chello pesso de soyra
                                                    Che sta in Luxerna, e ro digo da vé.

     L’on faito solo per meteve poyra:
     Perdoneme ve prego in bona fé,
     Per FIFÒ, per TOZAINA, e per MORMOYRA.

Il seguente merita il superlativo. Se m’inganno voglio soggiacere alla di lei censura.

                                                    Resto informao co no pouco dorò
                                                    De l’accidente dro Barba BERTON;
                                                    L’è degno certo de compaxion,
                                                    Perché o campa d’affani e de suò.

     Ma ne rengratio ben de puro amò
     Chi ra nœva m’ha daito, se raixon
     L’ha mœsso, e no ra spussa de menchion,
     Che resoe chiancie n’han autro savò.

                                                    Perché chell’autre nœve che o me dà
                                                    De peti, e cu, e de servetiai,
                                                    Y l’han dro GHIGLIOGHEN, e dro BADÀ.

     Chi mi no m’haverave creto mai,
     Che terme xi ghidon devesse usà,
     Ne discorsi coxi desbardellai.

                                                    Ma s’o pensasse mai,
                                                    Che mi ghe ra voresse perdonà
                                                    O se poe chiù tosto fa frustà

     Che se chesto farà,
     Sarà conforme a ro debito sò
     Che certo mi no ghe perdonerò.

                                                    Se ro Barba COLÒ,
                                                    BRAGHIN, TOSAINA, con BATÈ MORMOYRA
                                                    Ben me pregasse, e tutti ri pelloyra.

     Perché con chello soyra
     No vœglio stame a rompe ro cervelo,
     Ma per ben pouco mandare in bordelo.

                                                    E s’o farà dro belo,
                                                    Ro mandarò anco là a ro Pretegiani,
                                                    Ch’o ghe serva d’Alocco, e Barbagiani.

     Che in chei paisi strani
     Ra semeglianza de chelo corò
     Farà ch’i ro recevan con honò.

                                                    Coxi me pagherò
                                                    De cante o me n’ha faito, ni pensao.
                                                    Basta, finiscio, adio Barba TOMAO.

         Ma che ne dice ? Per cortesia non me la dia contra in questo particolare. Questa bella coda non vale per tutti gli altri due ? In verità che se la scimmia ne havesse una cotale, senza dubbio alla volpe non la cederebbe. Haverebbero bisogno, per essere intesi, d’un poco di commento: ma ci vorrebbe l’ingegno del Doni, che poté capire gli occulti misterij de’ Burchieleschi componimenti. L’Autore vive, ed egli medesimo potrebbe farlo; e qualche altro componimento di più nello stesso linguaggio, ma è talmente stitica la di lui Musa, che non basterebbe a muoverla tutta la Mercorella che si raccoglie nelle nostre campagne, ancorché dica di lei Monsignor Bonifacio ( BONIF., Mus. lib. 4, n. 68, p. 183):

     Haec alvum laxare potest, haec solvere ventrem.


1) - Stu manuscritu u l’è cunservau inta «Bibliuteca Universitaria de Zena».
2) - Mira : A Barma Grande - Libru Tersu - Bibliugrafia.

 Carreggiamento d'alcuni poeti nei vari linguaggi d'Italia

     Inta prefaçiun d’u nostru “Libru Primu”, àvimu regurdau che u Sciù Girumin Lanteri u l’aveva scriti, versa u 1660, ina “Raccolta di sonetti ed epigrammi” che pe' disgrazia a l'é andaita persa. Pe’ gentile indicaçiun d’u Sciù Pruf. Clemente Merlo de l’Università de Pisa, amu savüu che trei de sti suneti, ch’i fava parte d’in capitalu, pöi supressu int'a stampa, d’u manuscritu de “La Grillaia”, de Angelicu Aprosiu,1 i sun staiti püblicai dau Sciù Achille Neri.2
         
Ripurtamu tale e cale a parte che a n’interessa de stu capitulu, ch’u s’intitula:

Dal  LIBRU CARTU  di  A BARMA GRANDE,  Antulugia intemelia 1936 , a cura del dott. Emilio Azaretti

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TESTAMENTO
CERTALDO

 

TESTAMENTO DEL XVII SECOLO

TERMINI  VENTIMIGLIESI  IN UN

LA VOCE INTEMELIA anno XXXVII n. 5 - maggio 1982

NOTE:
1) G. Rossi, Storia della città di Ventimiglia, Oneglia, 1886, pp. 225 e 227 in nota.
2) Cfr. E. Azaretti, L’evoluzione dei dialetti liguri, Sanremo, 1977, pp. 308, 314.
3) Cfr. G. Petracco Sicardi, “Scriptavolgare e scriptadialettale, in I. Coveri, G. Petracco Sicardi, W. Piastra, Bibliografia dialettale ligure, 1980, p. 3.
4) Pubblicato in F. Galleani, I Galleani di Ventimiglia, Alassio, 1940, pp. 161, 166.

     Nonostante le notizie riportate da Girolamo Rossi sull’opera dialettale di Giovanni Giordano Lanteri e di Paolo Agostino Orengo,1 gli unici testi ventimigliesi del XVII secolo giunti fino a noi sono tre sonetti del secondo autore, recentemente ripubblicati e studiati da Emilio Azaretti.2
        Mi sembra dunque interessante riportare un’altra testimonianza per quanto esile e discutibile, sulla parlata ventimigliese dell’epoca.
                                                                             * * *
         Il primo testo ligure di una certa ampiezza è rappresentato dal testamento di Raimondo Pletenado, del 5 marzo 1156, che, pur essendo redatto in latino, contiene un elenco di oggetti di uso domestico lasciati dal testatore alla moglie, redatto a sua volta in una lingua che, nonostante gli elementi morfologici latini, è fondamentalmente genovese.3
         Un fenomeno simile si riscontra nel testamento del ventimigliese Agostino Galleani, del 5 ottobre 1682,4 nel quale il testatore dispone che la moglie venda infrascripta mobilia, vide licet vulgari sermone loquendo (i mobili elencati, cioè parlando il volgare): Tutti li argenti di esso m. testatore esclusi quelli faranno di bisogno per uso della casa di esso m. testatore in ausilio di detta Signora Angelica sua moglie, treze careghe du seta, un scagnetto d’ebano grande, due buffetti d’ebano, tre spegli e una cstinaggio turchino guarnito d’oro.
         È evidente come la parte in “volgare” sia in realtà un misto di dialetto e di lingua letteraria, con alcune espressioni ventimigliesi, quali il calco faranno di bisogno e le voci tréze caréghe “tredici sedie” (caréga, dal greco antico kathédra, è di uso abbastanza generalizzato nell’Italia settentrionale, da dove, attraverso il veneto, è ripassata nel greco moderno karékla), buffetti “credenze” (francesismo di uso frequente in italiano, maggiormente radicato nelle parole settentrionali), spegli “specchi (dal latino spec(u)lum, col tipico passaggio ligure occidentale di “cl” a “gli”. Costinaggio infine sembra piuttosto uno svarione per l’italiano cortinaggio “tende del baldacchino”.

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di Andrea CAPANO - 1982

 

                          TESTO  VENTIMIGLIESE  DE
“I  PARLARI  ITALIANI  IN  CERTALDO”

       Digo donca, che in ti tempi du primo Re de Cipri, dopo l’achisto faito da Terra Santa da Gottifré de Buglion, è accapitào che ina scignoura de Guascogna a l'è andaita in pelegrinaggio au Sepolcro, de dove ritornando, appena ch’a fu a Cipri, da alcuni scellerati omi a fu villanamente desonorà; e per chesto tutta desconsolà lamentandose, a pensé ben d’andassene a ricórre àu Re; ma ghe fu dito da caicun ca perdereva a fatiga, perché u l’eira coscì porco e coscì poco de bon, che nôu solo u castigava e birbanterie di autri; ma u ne sopportava di sacchi faite a elo, con so gran desonò; de modo che, chi avea un brouxioù con elo, u se sfeugava con faghe caiche scherno o caiche saloparia. A dona sentendo lo lì, nôu porendo avé giustizia, pé consolasse dou so despiaixé, a se mixe in testa de rimprovera a povera condission de stu Re; e andaita cianséndo davanti a elo, a ghe disce: “O me Scignouro, mi no vegno a to presenza per vendetta, che mi aspeite dell’ingiuria chi m’àn fào; ma in compenso de chela, te prego, che ti mé mostri, come ti soffri chéle, che sento dì, che te son faite; affinchè imparando da tu, pèusce con pascienssa colàme a mei; ché u sa Dio, se u pourresse fà, te a dareva vorunté, da o momento, che ti te a sai colà cosci ben”.
       U Re che fin allora u l’eira staito indolente e pautron, come sou se desvegliesse da dormì, comensando da u torto faito a chela dona, côu punì severamente, ou vensce d’un rigôu senza fin contro calonche, u quale contro l’onò da so corona, d’allora in pêui u commettesse caiche cosa.

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Il professor Girolamo Rossi ha trovato questa interessante paginetta in Ventimigliese arcaico: