NOTE:
1)
I
marinai baresi portarono le reliquie di San Nicola da Myra, il 9
maggio 1087, precedendo di poco i veneziani ed i genovesi,
interessati al medesimo prelievo. Dalla tomba del santo gocciolava
una manna ritenuta miracolosa.
2)
Nel 1574, il vescovo Francesco Galbiati riesumava le reliquie di San
Nicolò e San Secondo, dall’altare di San Nicolò, in Cattedrale, e le
proponeva a maggior devozione separandole. L’altare di San Nicolò
venne poi dedicato all’Angelo Custode ed ora è intitolato alla
Misericordia.
3)
Onorato fin dal X secolo, il tutore della Sacra Famiglia dovette
attendere il 1621, perché papa Gregorio XV estendesse il culto per
San Giuseppe a tutta la Chiesa occidentale. Soltanto nel 1847, Pio
IX ne stabilì la festività di precetto, ma appena nel 1956, Pio XII
declassò la festa in marzo, esaltando il San Giuseppe Artigiano
celebrato il primo di maggio, nel contesto della sfera vicina ai
“lavoratori”, riducendo però la celebrazione del Padre putativo di
Gesù a memoria facoltativa.
4) Una
importante Fiera di tre giorni per l’equinozio di primavera, era già
stata istituita nel 1798, quando la città era tornata ad essere
capoluogo di un vasto entroterra, ed aveva concepito l’importanza
del proprio ruolo, o forse, era stata spinta dalle autorità francesi
a gestire di fatto le necessarie iniziative per favorire i commerci.
In diciassette anni, quella fiera si era già ridotta d’importanza,
fino a scomparire; ripresa da questa iniziativa “Sarda”.
di Luigino Maccario
Un
documenti del secolo XI, relativo all’attività di un Canonico, ci
segnala, già esistente, l’Oratorio di San Nicolò alla Marina,
fuori le mura.
Una qualche
frequentazione aggiuntiva sarebbe stata procurata, a quest’Oratorio,
dalla duecentesca presenza di un hospitalis nella stessa zona,
opera che si trovava in loco ancora a fine Ottocento. Era la “Domus
Infirmorum de Cardona” posta tra “Sanctus Nicolaus” e la “roca
sive ripa”. Essendo situata fuori le mura “extra moenia”, nei
pressi della zona adibita a scalo marittimo, dopo l’interramento del
porto canale, era sicuramente usata come lazzareto, per isolare i
contagi, rilevati tra i marinai.
Il 4 novembre 1236, moriva don Bonfilio, per trentatrè anni sacerdote in
quella chiesetta, frequentata dalla gente di mare.1
Nel 1281, moriva Rinaldo Piro, sacerdote in cattedrale e di San Nicolò
alla Marina; mentre, il 9 settembre 1336, morendo, il prevosto Bonfiglio
giurava di essere stato per ventiquattro anni officiante di quella
chiesetta.
A causa dello spopolamento, dovuto alle ridotte attività marinare, dopo
l’interramento del porto, per mano genovese; la chiesetta ha sempre
minor frequentazione. Le reliquie di San Nicolò vennero traslate nella
Chiesa Grande; sappiamo che nel 1346, il vescovo Bonifacio Villaco
consacrava, nella Cattedrale, l’altare di San Nicolò, ponendovi anche le
reliquie dei beati Secondino e Cristoforo; infatti, morendo nel 1378, il
vescovo Ruffino veniva sepolto in un altare con quel titolo, dentro la
Cattedrale.2
Nel 1574, il vescovo Francesco Galbiati, visitando l’Oratorio di San
Nicolò alla Marina, lo trovava “in misero et deprecabile stato et mi
si dice senza reddito alcuno”. L’impossibilità di vivere il mare per
più di quarant’anni, a causa dei pirati Barbareschi, aveva ridotto alla
fame il mondo marinaro.
Nel 1603, il vescovo Spinola visitando la chiesetta di San Nicolò alla
Marina, la dichiarava in cattivo stato.
Nel corso del XVII secolo, i traffici di mare ripresero, svolti da
naviglio di basso pescaggio che alava o scaricava in rada. I leudi
imbarcavano olio, legni, carboni, lane e carni ovine dirette verso i
porti di San Remo o Mentone. Nella buona stagione, portavano cedri e
limoni verso Savona o Genova. Gli stessi sbarcavano derrate alimentari e
merci da costruzione, d’importazione. Il costo del facchinaggio per il
rimessaggio a domicilio era di sessantadue soldi di Genova, per la
fatica di due uomini, addetti ad un intero carico, per l’intera
giornata. Nel giugno del 1690, sulla spiaggia di San Nicolò, il Lascàris
di Castellaro sbarcava sessanta pecore e due cavalle; ma la
frequentazione della chiesetta non migliorava.
Il vescovo Bacigalupi, nel 1734, per ordine del Visitatore Apostolico,
metterà l’interdetto sull’Oratorio di San Nicolò alla Marina “fino a
che non sia portato a dovere e si corra ai ripari”.
Già nel 1735, l’Oratorio veniva riaperto, ma con l’aggiunta del
culto a San Giuseppe, patrono della Buona Morte, concedendone la
gestione alla Confraternita della Misericordia.3
Essendo, il padre di Gesù, accreditato patrono dei moribondi e della
buona morte, per esser stato lui assistito da tal figlio, lo portò pian
piano a sostituire il Santo vescovo, patrono dei marinai, nell’Oratorio
alla Marina.
Dunque la Confraternita dei Neri, gestì quel servizio pubblico di
attracco, per lo scarico della merce, che mantenne per molti anni, così
come la chiesetta conservò per un certo periodo la doppia dedicazione.
Nell’Oratorio si celebrava: un triduo per la festività del 6 gennaio,
distribuendo ai marinai i “panéti de San Niculò”, fatti a forma
di barca, che venivano posti sulla prora, a protezione delle
imbarcazioni.
Nel 1815, entrata nel
Regno Sardo, la nostra città era inserita, quale Porto franco, nella
Divisione di Nizza, fungendo da base commerciale per tutta la Valle Roia
e la Val Nervia.4
Alla Marina, la comunità locale istituiva la grande fiera di animali e
merci varie, ponendo la data attorno all’equinozio di Primavera, dal 19
al 21 marzo.
Ma le difficoltà continuavano, nel 1888, il priore Maccario, della
Confraternita di San Nicolò alla Marina, spendeva tutto il patrimonio
della comunità per riparare il tetto dell’Oratorio, sostenuto
dall’intervento economico di alcune fedeli.
Negli anni più vicino a noi, ricorrenti abbandoni ed insperate
frequentazioni hanno caratterizzato la vita dell’Oratorio, seguendo i
cambiamenti economici che hanno caratterizzato gli abitanti del luogo.
Negli Anni Cinquanta, nel giorno di festa del Santo, dal sito tradizionale nei pressi di Porta Marina,
la fiera sempre più ridotta, trovava spazio in via Tenda, accanto
all’Ufficio del Dazio ed alla Casa Cantoniera.
L’angolo Nord-Ovest dell’ampia piazza della Marina, conserva ancora il
battuto di cemento, dove, ancora negli anni Sessanta, nella terza
settimana di marzo, si tenevano alcune importanti serate da ballo,
all’interno di un capace padiglione, appositamente costruito e
conservato negli anni.
In seguito, durante approfonditi restauri eseguiti nell’Oratorio,
divenuto di San Giuseppe alla Marina, l’archeologo Nino Lamboglia
ritrovava un’ara romana in pietra di Turbia, reimpiegata come
acquasantiera, nel 1970.
ORATORIO
di SAN NICOLò,
divenuto
DI
SAN GIUSEPPE
HOSPITALI DE CARDONA
Diversa per funzione, ma probabilmente simile per il tipo di gestione doveva essere la domus infirmorum de Cardona.1 Una struttura - lo dichiarava la sua stessa intestazione - dove si interveniva nell’assistenza terapeutica degli infermi e che si trovava alla destra del fiume Roia: nei pressi dell'attuale piazza San Giuseppe e sotto il dirupo che fungeva da protezione alla sede urbana soprastante. La sua posizione in litore maris 2 e fuori dalle mura cittadine, lascia pensare che potessero esservi accolti quei soggetti, che giunti in prossimità della città (sbarcati), fossero sospettati di contagiare il resto della popolazione. All’interno della domus de Cordona, nel periodo a cui risale la documentazione disponibile, erano attive sei persone: cinque confratres [Iacopo Simionus, Bonussegnonus Revellus, Rainaldus Vetulns, Uguetus Boexia et Girimunda) ed il rettore (Maurus Bonifacins), definito anche minister sive advocatus. L'organico così descritto, è desumibile da un atto del 1264 m cui Mauro Bomfacio e gli altri confratelli vendono un pezzo di terra zerbida (lontano dalla loro sede operativa), per acquistarne un'altra migliore, più vicina e più utile.3 Dalla lettura di quel rogito si potrebbe arguire che i sei religiosi si muovessero autonomamente dall'autorità episcopale e capitolare, ma nell’atto che gli segue la realtà risulta essere diversa. Sarà infatti il vescovo, che ratificherà la vendita della terra zerbida e riconoscerà che ciò veniva fatto per il bene della Domus stessa.4 In mancanza di altra documentazione non possiamo spingerci oltre per definire la gradualità del vincolo che legava i sei confratelli all'autorità clericale, tuttavia la loro non autonomia (perlomeno a quel livello di operatività) è provata.
NOTE:
1)
A quella data, in un atto peraltro importante - poiché concerneva
una delle famiglie ventimigliesi più potenti (riguardava la vendita
di tutti i beni e di tutti i diritti da parte di Giovanni Giudice al
fratello Oberto) - il marito di Alamanna è così indicato tra i
testimoni ... presentibus testibus ... lohanne Cavugio notaro (L.
BALLETTO, Atti rogati... dal 1258 al 1264 cit., p. 169, n. 177).
2)
Ibidem, nn. 291, 559, 571, 620 e 621.
3)
La
sua posizione emerge dalla data topica di un atto rogato il 4 maggio
1263 (in occasione di un imbarco per la Romania, da collegarsi con
la crociata contro i Tartari): Actum in Vintimilio, in litore
maris aput Cardonam (Ibidem, pp. 518-519, n. 559).
4)
Ibidem, pp. 577-578, n. 620.
Giuseppe Palmero –
da INTEMELION n. 6 anno 2000.
I SATURNALIA,
NELL’ANTICA ROMA
Nella
Roma imperiale, tra il 17 ed il 23 dicembre, erano ancora
celebrati i Saturnali, retaggio di riti ancora più antichi. La
statua di Saturno, che durante l’anno era legata con una fascia
di lana, nel suo tempio ai piedi del Campidoglio, era sciolta, a
simboleggiare il pur breve ritorno all’Età dell’Oro.
Il primo
giorno era nominato un “rex Saturnaliorum”, il quale
regnava per una settimana, fra banchetti e danze, proponendo
giochi d’azzardo, proibiti nel resto dell’anno.
Spesso si
sconfinava in orge, dove i ruoli sociali ai invertivano ed agli
schiavi era concesso burlarsi del padrone, facendosi servire a
tavola.
La libertà
concessa agli schiavi ed il caos nei ruoli erano il memoriale di
un tempo mitico, la grande Età dell’Oro, sulla quale aveva
regnato Saturno.
L’era mitica
nella quale gli uomini vivevano pacificamente, senza guerre nei
conflitti sociali. L’abbondanza dei prodotti concedeva alcuna
discriminazione tra liberi e schiavi.
USANZE ATAVICHE
Durante le
feste Saturnali, nell’antica Roma, ci si scambiavano candele di
cera. Macrobio ci ricorda, che queste rammentavano la "aurea
aetas”, quando il popolo si era elevato da una vita informe
e priva di luce, giungendo alla conoscenza delle arti liberali.
Quando
Ercole attraversò l’Italia, con i buoi di Gerione, consigliò gli
abitanti di non offrire a Saturno vittime umane, ma statuette
d’argilla antropomorfe, dette “sigillaria”, venerando la
divinità con lumi accesi.
Ercole
giocò sul significato greco di “phota”, che vuol dire "uomo", ma
anche “luci”. Da questo episodio derivava l’usanza di scambiarsi
candele e di fabbricare, vendere e regalare statuette di
argilla, durante i Saturnali.
Questi riti
di passaggio-rinnovamento erano eseguiti prima del Solstizio
invernale, quando il sole attraversa una morte apparente, per
rinascere “nuovo” e riguadagnare l’alto dei cieli.
Quante
analogie resistono ancor oggi, con le nostre festività di fine
anno. L’usanza di permettere i giochi d’azzardo continuata nelle
immancabili serate, passate giocando alla Tombola.
Lo scambio
delle candele diventato scambio di strenne, ma le candeline o le
lucette elettriche, coi fuochi d’artificio, dominano ancora i
nostri Capodanno; mentre le "sigillaria” sono ricomparse
in qualità di statuette, nel Presepe.
LA METAMORFOSI
Il nostro
San Nicola, emigrato in America, attraverso una varietà di riti
acquisiti nell’Europa nordica, ha subito una metamorfosi
nell’aspetto. Il suo mantello vescovile diventò un abitone rosso
orlato di pelliccia e la mitra un cappuccio a punta.
Anche il
nome subiva una metamorfosi, da “Sanctus Nicolàus”,
com’era conosciuto per tutto il Medioevo, si storpiò in Santa
Claus, ritornando in Europa come Babbo Natale.
Ma il
tradizionale San Nicola, assieme a Santa Lucia e alla Befana,
nel Sud della nostra penisola, ha continuato a gestire il ruolo
di dispensatore dei doni ai fanciulli; ruolo che oggi gli
usurpato da Babbo Natale.
Sul
nostro territorio, il culto del Santo Vescovo di Mira è stato
molto attivo per tutto il Medioevo, legato alla marineria, che
gravitava attorno al Porto canale ed in seguito alla Marina.
SAN
NICOLÒ,VESCOVO DI MIRA
San
Nicola, vescovo in Asia Minore nel secolo IV, era particolarmente
venerato dai marinai del genovesato, i quali in gara per
accaparrarsene le preziose reliquie, si fecero battere dai marinai
baresi, ripiegando così ad accontentarsi delle reliquie di San
Giorgio.
Il grande
vescovo di Mira era nato a Patara, nella Licia, attorno all’anno
270, unico figlio di genitori pii e ricchi. Divenne presto popolare
per la sua innata bontà e per la carità conseguente. Moriva tra il
345 ed il 352 e veniva sepolto nella chiesa di Mira, l’attuale
villaggio turco di Dembre, dove i suoi resti mortali rimasero fino
al 1087.
Furono
appunto trafugate dai marinai baresi che li condussero nella loro
città, dove era edificata una cattedrale, in soli due anni,
trasformando in basilica la spaziosa corte ch’era appartenuta al
catapanus bizantino.
Il nome
proprio Nicola deriva dal latino Nicolaus, formato dal greco “nikos”:
vittoria e “laos”: popolo, in pratica: vittoria del popolo o popolo
vittorioso, ma anche: vincitore fra il popolo.
Le leggende
fiorite sul Santo lo portarono a diventare patrono dei marinai, dei
prigionieri, degli oppressi, dei viaggiatori e di quanti soffrono.
Quand’era
ancora in vita, già si narrava che avesse salvato alcuni marinai da
un naufragio, placando una tempesta; che avesse tratto il suo paese
da una carestia ed avesse liberato tre ufficiali, condannati
ingiustamente da Costantino.
Il patronato sui
marinai sembra, però, la cristianizzazione di un antichissimo rito
che era celebrato sulle coste dell’Asia Minore.
Proprio nella data corrispondente al sei dicembre, in onore di
Poseidone, i marinai ed i naviganti levavano preghiere perché li
difendesse dalle incipienti tempeste invernali.
RITI ED USANZE MEDIEVALI
La
celebrazione che cade proprio il 6 dicembre, è così portatrice di
usanze collegate al Solstizio d’inverno. Durante questo evento
stagionale, in Asia Minore era onorato Poseidone mentre nel Lazio si
sacrificava a Saturno.
Un’altra usanza
medievale induce a qualche riflessione. Il sei dicembre i
seminaristi usavano eleggere fra loro un “episcopellus”,
contornato dai suoi giovani cappellani.
Questi,
guidati dal loro vescovello, sarebbero stati protagonisti alla festa
dei Santi Innocenti, il 28 dicembre; una cerimonia parodistica
svolta in chiesa, chiamata “episcopus puerorum” o “innocentium”,
cioè, il vescovo dei fanciulli.
Durante una
funzione religiosa, il vescovello imitava il vescovo autentico, tra
i lazzi carnascialeschi di chierici e preti, che assistevano in
abiti da mascherata.
Nel coro si
danzavano e cantavano canzonette oscene, in un’aria ammorbata dal
puzzo di pezzetti di cuoio bruciati nel turibolo.
Quegli
eccessi erano la sopravvivenza di culti ed usanze precristiane che
la Chiesa cercò di moderare, fino ad ottenerne l’espugnazione,
soltanto nel XV secolo. In Spagna, ancor oggi, il giorno dei Santi
Innocenti paragonabile al nostro primo aprile.
I vescovi successori, Gandolfo (1633), Gavoni (1656) e Promontorio (1685) non fanno menzione di visita all’Oratorio campestre. Unico richiamo è una nota ufficiale del Vescovo Mascardi (1734), il quale, per ordine del Visitatore Apostolico, metterà l’interdetto sull’edificio “fino a che non sia portato a dovere e si corra ai ripari”.
Due anni dopo l’ingiunzione, l’Oratorio venne riaperto al culto e per la prima volta alla prima titolazione, per delibera del Capitolo, si aggiunge anche quella a San Giuseppe, patrono della Buona Morte. Anche la nuova denominazione è mirata: sollevare il Capitolo da una diretta gestione nello spirituale e nel materiale.
Viene concesso in gestione alla Confraternita della Misericordia. Il Priore e il Cassiere si assumono l’onere della scelta e della nomina di un cappellano per le celebrazioni, mentre i Confratelli si tassano di tre soldi annuali per i servizi dovuti, per le suppellettili e per i ceri.
Quali furono le liturgie e para liturgie che annualmente si tenevano alla Marina in onore di San Nicola lo si deduce dal “Libro delle Spese della Confraternita della Misericordia”. Oltre al triduo e alla Messa del giorno 6 gennaio, celebrata dal governatore cappellano della Confraternita, venivano benedetti e distribuiti ai presenti, ai marinai, ai pescatori e ai camali i “Panetti di San Nicola confezionati a forma di gozzo”.* Particolare donazione era riservata ai pescatori locali. Il Priore si portava all’imbarcadero e distribuiva ad ogni patrono di barca il pane benedetto; riceveva in offerta un buon pesce, mentre i marinai, invocando il Santo, deponevano il panetto a poppa in segno di protezione divina.
La Confraternita gestiva alla Marina un servizio pubblico di attracco per lo scarico della merce; ogni padrone di barca poteva usarne dietro il versamento di una libera offerta; il ricavato, dedotte le spese per la riparazione degli argani, veniva versato in obolo per le necessità dell’Oratorio.
La vetustà dell’edificio richiedeva continuati interventi. Nel 1888 il priore Macario per il rifacimento del tetto “non atto a resistere alle frequenti piogge e ai venti del mare” spende tutti i fondi dell’Oratorio e della Confraternita. Il lavoro è portato a termine “grazie alla sollecitudine di alcune donne consorelle”.
La chiesa, che deve annoverarsi tra le più antiche della Città di Ventimiglia per la sua ristretta capienza e per la posizione logistica, stretta tra case, sembra voglia celare la sua vetustà. Nell’anno 1970 durante i lavori di risanamento per prosciugare la parete sud, il prof. Lamboglia riportava in luce una ara romana in pietra della Turbia, reimpiegata come acquasantiera.
Che voglia l’umile Oratorio celare altri ed interessanti reperti ? E quando sarà sciolto l’enigma della provenienza del quadro che campeggia raffigurante il vescovo Nicola sull’unico altare ? Mi sia lecita un’ipotesi: nel Primo Libro delle delibere del Capitolo, al tempo del Vescovo Galbiati, si annota che lo stesso Vescovo per urgenti riparazioni al tetto della Chiesa Cattedrale ed ad alcuni altari non consoni ai Decreti del Concilio Metropolitano di Milano, facesse ricorso al Parlamento. Ottenuta promessa di un contributo, ma non versato, i lavori si limitassero all’abbattimento totale dell’altare di San Nicola in cui erano state rinchiuse le reliquie e sul quale “vi era il riquadro del Santo Divo Nicola del Mare”. Ipotesi o realtà ?
La cappella di San Nicola da Bari al Borgo della Marina
Chiusa tra gli agglomerati abitativi settecenteschi, al Borgo Marina di Ventimiglia, sorge l’antichissima chiesa dedicata a San Nicola, Vescovo di Mira, una città della Licia in Turchia.
Nato verso il 270 divenne famoso per la pietà e la carità; acclamato vescovo della città di Mira si distinse per lo zelo pastorale; operò grandi miracoli e fu considerato santo ancora in vita. Morì il 6 gennaio 345. Per la crescente taumaturgia, il culto si diffuse in Oriente. Nell’anno 1087 alcuni marinai commercianti di Bari rubarono il corpo del santo vescovo per farne dono alla città di Bari che lo elesse a protettore.
Agli inizi del 1100 il culto si diffonde in quasi tutte le città marinaresche dell’Occidente e fra queste anche Ventimiglia, al tempo attivo emporio di traffici marittimi che gli erige, nel pradio prebendale del Capitolo vicino al porto canale, un Oratorio nel quale verranno deposte alcune reliquie provenienti da Bari.
E aleatorio fissare la data della piccola costruzione e tanto meno indagare le ragioni della scelta del luogo, fuori le mura, luogo soggetto spesso a visitazioni piratesche. Fu, tuttavia, una scelta mirata essendo il luogo terra prebendale del Capitolo della Chiesa Cattedrale. È documentato come nel 1182 il Papa Lucio II nella Bolla dell’8 giugno riconferma ai canonici della Chiesa di Santa Maria il possesso delle “chiese di San Nicolò e di San Martino in Ventimiglia”.
La menzione fatta da Papa Lucio II della Chiesa di San Nicola è la conferma di un culto affermato da più di un secolo al Vescovo di Mira e di un servizio liturgico per gli abitanti del borgo marinaro sotto la direzione del prepósito o dei canonici, che ne condividevano i diritti decimali, diritti riconfermati dalla stessa Bolla.
Nel “Necrologium ecclesiæ Cathedralis Ventimiliensis” a conferma di un continuato servizio, si legge: «il mese di settembre 1281 morì Rinaldo Piro, sacerdote della chiesa di San Nicolò di questa città» e ulteriore conferma che la cappella fosse di diritto dei canonici è quanto si legge ancora nel medesimo Necrologio: «1936, 4 novembre morì il prete Bonfilio, che nella sua ultima volontà, attestò d’essere stato nella chiesa di San Nicola trentatré anni a nome del prepósito e dei canonici».
Con la morte del Bonfilio inizia un lungo periodo di abbandono: la posizione della cappella fuori la cerchia murata, le continue scorrerie, l’obbligato spopolamento del nucleo della Marina, già poco popolato, e la riduzione delle attività commerciali marinare ne furono le principali cause.
Le reliquie del Santo vengono trasferite nella Chiesa Cattedrale in un’urna marmorea; racchiuse assieme a quelle del Martire San Secondo e murate in un nuovo altare intitolato a San Nicola ove vi rimarranno fino all’anno 1573 allorché per ordine del Vescovo Galbiati, in atto di ricognizione delle reliquie venerate nella Cattedrale, ordinerà l’abbattimento dell’altare per la ricerca delle reliquie e riconosciutane l’autenticità, grazie ad una pergamena inviterà i fedeli della Città ad una maggiore devozione.
Nel 1574 il Galbiati, in visita alle cappelle campestri della città, annoterà per l’Oratorio alla Marina: «in misero et deprecabile stato et mi si dice senza reddito alcuno».
Anche il Vescovo Stefano Spinola, nella visita del 1603, constatava che l’edificio era in cattivo stato di staticità e che i lavori apportati non erano sufficienti per una duratura conservazione.
NOTA:
*
Distribuiti nel giorno dell'Epifania, i "Paneti de San Niculò finirono per assumere il nome di "Pifàgne", nel rispetto della giornata dedicata alla Befana; pur mantenendo il ruolo propiziatorio, dettato dalla loro forma a barchetta, quando venivano legati sulla pernaccia delle imbarcazioni, in onore del gran Santo, vescovo di Mira.