La Bellhomo desiderando quanto prima l’erezione della Cappella, indica
al Provicario il luogo «in certa sua terra aggregata olivata
denominata la Villa, a cui in testa e ai piedi la strada; verso monti li
Magnifici Pasquale e fratelli Galleani in parte e dall’altro il Canonico
Biamonte e dall’altro lato Gio. Viale».
Sarà gelosia o celata invidia, non tardano a sorgere le prime difficoltà
e gli inspiegabili atti oppositivi. Si legge nell’atto notarile del 23
marzo «siccome resta loro difficile il poter congregar li rispettivi
propinqui per avere il conseguo e il consenso, perciò per non commetter
nullità se ne ricorrono alla previdenza del Magistrato di Terra Ferma e
al consiglio illuminato del Capitano della città di Ventimiglia, G.
Batta De Negro».
L’atto è sottoscritto nello scanno del Notaio Lanfredi.
Contemporaneamente si redige l’atto di donazione «per il mantenimento
o sia manutenzione, decoro e decenza convenevole con erigendo lire dieci
moneta di Genova corrente fuori banco annue da spendersi ed impiegarsi
in vantaggio e beneficio del precitato Oratorio». È’ il 26 di marzo,
nell’abitazione del Capitano Di Negro.
In primavera si iniziano i lavori e in men che non si pensi «è
adempiuto quel tanto che vi è prescritto dalli memorati decreti
...». Il notaio Lanfredi a nome della Famiglia rivolge nuova supplica al
Vescovo «di darle il permesso che, previa benedizione solita, poter
eleggere un sacerdote che celebri il primo sacrificio».
è lo stesso Provicario «che,
con una certa sollenità e ispirate parole, vi celebra il primo
sacrificio. Nel sussiego degli estati saranno i Bellhomo a scegliere
sempre un celebrante».
(Archivio vescovile Filza 81 n. 58-59)
LA VOCE INTEMELIA annoXLVII n. 11 - novembre 1992
L’anno
1755 la nobildonna Catarin, vedova del Notaio Giuseppe Mario Bellhomo di
Ventimiglia, desiderosa di trascorrere, secondo l’usanza della nobiltà
locale, i giorni estivi nella proprietà delle “Ville”, trovandosi per
malattia e vecchiaia impossibilitata come era solita con la sua famiglia
frequentare altre cappelle campestri, esprime il desiderio di erigere
per sé e i suoi discendenti un Oratorio Campestre.
Dietro consiglio del cancelliere della Curia, parente da parte materna,
rivolge rispettosa domanda al vescovo Giustiniani, residente in
Bordighera. È lo stesso curiale che stende la richiesta in un forbito
latino.
Il 4 marzo 1756, da Bordighera, prese dovute informazioni e dedotta la
moralità dei costumi della richiedente e famiglia scrive: «Oratrici
precibus benigne facultatem delegamus nostro Provicario ut attente
inspecto pradio in eo locum designet ...». Richiede inoltre un
pubblico «istrumento» atto da inviarsi in Curia e che l’Oratorio
sia fornito «dotationis decem saltem librarum annuarum ...» la
quale dotazione sia posta su censi o fondo fruttifero della famiglia
Belhomo.
Il 20 marzo, nel Palazzo vescovile il cancelliere verga l’«istrumentum
dotations» e, a nome della Bellhomo assente per indisposizione,
sottoscrive le condizioni richieste la di lei figlia, moglie del notaio
Gaspare Lanfredi.
L’Oratorio sarà dedicato ai Santi Angeli Custodi e a San Lorenzo
Giustiniano; dovrà avere la porta su pubblica strada; non vi si potranno
amministrare i Sacramenti senza espressa licenza del Parroco; non si
raccoglieranno elemosine ne si accetteranno doni; nelle solennità
dell’anno liturgico non si celebreranno messe.
L'ampio territorio
comunale di Ventimiglia conserva molti siti con chiesette ed oratori campestri,
in alcuni casi soltanto le rovine, in altri il vuoto guscio murario e qualche
volta soltanto la memoria di esistenti edifici sacri, che hanno lasciato il nome
al sito circostante.
Nei toponimi si ricordano: San
Martino al Resentello e Santo Stefano in Ripa; dov'era San Simeone alle Barme,
gli Agostiniani hanno eretto N.S. della Consolazione. Di San Gaetano
resta il guscio inattivo, di santa Maria de Varaje, alcuni stralci murari,
di San Saturnino soltanto ipotesi.
MEMORIE CARTOGRAFICHE
Una cartina di anonimo, del giugno 1745, «Marche de l’Armée de Menton a
la Bordighera», pubblicata a Parigi nel 1775, riporta «S.to Stefano»
chiaramente indicato fra la mulattiera per Castel d’Appio e le case di
un eventuale San Bernardo.
Una carta del Gustavo, detta «Tipo visuale del fiume Roia» pubblicata a
Genova nel 1793, presenta una strada importante che da Sant’Agostino,
percorsa la riva sinistra, guada il fiume presso Roverino per
inerpicarsi verso Costel d’Appio. Dovremmo considerare molto ampia la
probabile vastità del Lago antico e medievale, che avrebbe
caratterizzato la foce del fiume Roia, concedendo un porto ampio e
sicuro alla nostra città.
L’alveo
del Roia è veramente esteso; inoltre oggi dobbiamo tener presenti i
possenti apporti alluvionali, sicché nel medioevo la zona umida sarebbe
stata inferiore di almeno sei metri, m molto più ampia e ad un livello
all’altezza di Roverino. Certamente dobbiamo pensare che il punto di
apporto dell’immissario nel Lago fosse situato molto vicino alla zona
attuale dell’Autoporto.
IPOTESI CONCLUSIVE
Da quest’area il Lago era contenuto ad oriente dall’isola dei Gorreti,
delimitata sull’altra sponda da un importante braccio di fiume che da
Roverino finiva ad inondare i Paschei.
Un probabile facile guado avrebbe potuto permettere di guadagnare da «Royrino»,
verso la riva destra, la strada per Tenda; strada che per l’altro verso
conduceva in agevole pendenza fino a San Michele.
La presenza di un’antichissima chiesa dedicata al primo dei martiri
cristiani, presso un bivio stradale di grande importanza, darebbe un
senso alla sua frequentazione altomedievale, in una zona priva di
importanti insediamenti abitativi.
Darebbe senso ancora al suo rapido decadimento con l’apertura del ponte
in zona Borgo, mentre porrebbe il tracciato dell’antica via Romana in
prospettive finora mai percorse.
RICERCA DEL SITO
Sia nella memoria dotta che in quella popolare ventimigliese pare sia
scomparsa del tutto la ubicazione del sito contenente la chiesa
medievale di Santo Stefano e del relativo toponimo, in quella che è
stata «ripa Sancti Stephani».
Se ne cercherebbe il sito archeologico nei pressi del Mattatoio, o tutto
al più poco oltre il Mulino di Peglia, mentre i toponimi esistenti,
ancor vivi, ed il vago ricordo dei residenti lo porrebbero nei pressi
del Piazzale autostradale.
La zona a settentrione della Porta Piemonte è stata ed è certamente
Olignana, mentre «ad ripam», dopo l’attuale Peglia, è consolidato «u
Prau», percorso dal rudere arcato di una condotta aerea per l’acqua,
probabilmente convogliata verso la isola dei Gorreti fin dal medioevo.
Quindi si può escludere sia il Mattatoio che il Mulino, che comunque
sarebbero restati inglobati in quel lungo molo - prolungamento del
porto Lago - verso settentrione: manufatto di evidenti origini
medievali.
MEMORIE ORALI
Tale molo, oggi sotterrato dal ponte ferroviario e dal terrapieno che
sopporta il Tennis Club, nella parte più a nord, è ancor vivo nella
memoria di Antonio Parodi ed amici, che dicono di averlo usato,
anteguerra, per fare «e ciumbe inta lòna de Peglia».
Sul colle, verso tramontana, ad Olignana seguono Le Lisce, Parmarin e la
collina dei Maristi, poi Maneira, ma già abbiamo superato il probabile
Santo Stefano, luogo vivo e vivace nella memoria di Vittoria Muratore,
novantatreenne, che vi ha abitato per molti anni fino al dopoguerra. Nel
suo ricordo è ancora vivo il nome di «San Steva» dato alla zona dove
gestiva «a Fascia Longa», contenente un antico muro, forse proprio
quello descritto nelle «Notizie» del 1901, da Girolamo Rossi.
Detto luogo, che ha perso la antica identità toponomastica dopo la
costruzione della Caserma Gallardi, è oggi in piccola parte sommerso dal
terrapieno De Villa - Fonte e per la massima parte si apre verso le
palafitte del piazzale autostradale, alle falde del poggio che ospita la
strada per San Lorenzo.
In due cartulari si legge che nell’anno 1200 Bertram de Berre, cataro, e cavaliere per meriti serventesi, perseguitato dalla città di Albi, riparasse sulla riva occidentale e stretto dalla miseria, per non essere accolto dai signori locali, si convertisse al monachesimo e in Ventimiglia cantasse la città il porto, il fiume Roia e che i monaci, timorosi di essere inquisiti, lo destinassero presso la Grange e vivesse presso la cappella, ove in un inverno freddo lo colse la morte.
Fu nel corso dell’azione di conservazione che abbattuta l’abside,
nell’interno, si ripiegò in un incavo, in cui venne collocata un
piccola statua lignea della Vergine, e successivamente sostituita da
una icona lignea raffigurante Maria Madre di Cristo con ai lati
Sant’Antonio Abate e San Agostino di Ippona.L’iconografia post rifacimento potrebbe essere indice di un
indirizzo di devozione imposto dalla pietà monastica in onore di due
santi: Antonio Abate, padre del Monachesimo orientale e Agostino,
maestro della regola canonicale.
All’origine la cappella, per essere unita alla Grange, non aveva
alcuna sacrestia, ne cella campanaria; in uno dei rifacimenti un
semplice ed angusto costrutto, verrà innalzato al lato sinistro ad
uso del cappellano. Una cella campanaria, in periodo non definibile,
sorgerà in costrutto quadrato, di minima altezza, e nel rifacimento
del 1800 svetterà esile in un barocco indefinibile.
Allo stato attuale dei pochi resti si rende aleatorio dire di altre
caratteristiche e attorno a particolari usi della cappella nel corso
della sua storia.
Terminata la vita della Grange, è certo che sia servita agli
abitanti delle comarche vicine. Una piccola porta, sul lato sinistro
immetteva alla Grange ed era ad uso esclusivo dei monaci, i quali
dalla vicina Magione, dal magazzino e dalle stalle potevano recarsi
alla preghiera.
La cappella per lo spirito e l’ascetica cistercense aveva altri
compiti, costruita sulla pubblica strada poteva essere dormitorio ai
pellegrini, di riparo sicuro ai proscritti dalle leggi
ecclesiastiche, ai rifugiati politici.
A tale fine nella cappella sempre aperta, lungo il perimetro
interno, veniva costruito un banchetto su cui potersi riposare ed
essere giaciglio per una notte.
Nell’elencare le donazioni e le conferme di esse ai monaci di Lerino
nella marca Ventimigliese, il Cartulario Lerinese menziona la Grange di
Varaje e una cappella ad essa affiancata. La notizia si riscontra in una
carta di donazione di un certo ventimigliese, Giovanni Cavaria,
proprietario di due mulini, dei quali cede due metà ai monaci,
indicandoli posizionati presso la chiesa di Santa Maria de Varaje.
L’atto di donazione è stato all’anno 1070; non può che dedursi che in
quell’anno presso la menzionata cappella fosse attiva quella che nei
cartulari lerinensi viene menzionata “La Grange di Varaje”.
Fu eretta sulla strada Bevera - Passo dello Straforco. La strada si
dipartiva da Porta del Lago presso Ventimiglia, seguiva la proprietà dei
monaci nei pressi della Fonte Peglia per proseguire sul lato del Roia
fino al fiume Bevera. Lambito l’agglomerato abitativo di Bevera,
continuava a metà costa del monte Pozzo per proseguire sino a Varaje; da
qui con vari tornanti, s’inerpicava al Passo dello Straforco e, con
percorso in cresta, giungeva alla Colla di Airole per immettersi lungo
il Bevera alla Torre di Olivetta e da qui in Sospello.
Ai primi tornanti verso lo Straforco, un tratturo di breve percorso
menava alla cappella, che per la posizione e la sua vocazione, divenne
in tre secoli centro di interessi locali e militari e resterà testimone
di fatti politici e dirà della vita lavorativa dei monaci. Della
cappella restano alcuni reperti murari, che, oltre al tempo epocale,
richiamano la storia dell’operato lerinense. Nel costruire vennero
osservati i dettami dell’arte muraria cistercense e se non può
affermarsi essere stata esclusiva manodopera monacale, si evidenzia per
il computo metrico e sistema costruttivo, la presenza e direzione di un
mastro della pietra.
L’abside volgeva ad oriente in direzione della Rocca di Sion in
Gerusalemme, a ricordo della chiesa del Tempio sorta sulle rovine del
Tempio di Salomone. L’ingresso volgeva ad occidente per indicare agli
adepti, monaci o meno, che in direzione dell’occidente sorgeva altra
Grange, presso cui si poteva, notte e giorno, trovare riposo e cibo. Di
identico costrutto e posizione restano nei territori di dominio
lerinense i ruderi di altre cappelle: quella in amministrazione alla
grange della vergine in Sospello, di Santa Margherita al Cianetto in
Olivetta, di NS del Poggio in Saorgio, di santa Maria in Breglio, di San
Pietro in Zerbulo ad Airole.
La pietra di costruzione è locale, squadrata ed assemblata con calce
cotta sul luogo. I resti litici indicano rifacimenti avvenuti nei secoli
XII e XIII, quale una ricostruzione in toto all’interno e perimetrale
esterno.
Sono leggibili: la conservazione delle mura primitive di base, in
parte rivestite da murature comuni, che inglobano il tutto con
finalità di sostegno.