GIURNAE DA REMARCà
I ÇINCAIRI
Luigin Maccario - 2007
Tüti savému cume u mese de màrzu u séce despeitusu, cu’i soi cuntügni scangiamente de ümù, ma gh’è staitu in tempu luntan, candu ‘stu mese u passava fandu nu’ mai tropi dani inta campagna e a l’alevàgiu.
Inte üna de ‘ste anàe prupìçie, mancu tantu ràire, in pastù brigàscu, ch’u l’eira cařau intu Valun de Laite pe’ passàghe l’üvernu, u l’éira arrescìu a portà a sou sciorta in pastüra tüti i giurni, tantu che i sou agneli, nasciüi da pocu, i l’éira za’ cuscì ben pasciüi, ch’i l’averéva pusciüu tranchilamente afruntà u longu viagiu, pe’ munti e valàde, che da lì a caiche giurnu i l’avereva duvüu incaminà pe’, riturnassene ai arpézi d’u Margaréis, inta bona stagiun.
Nu’ cuntentu de lulì, ‘stu pastù, arrivau che mancava dui giurni â fin d’u mese, u s’è perméssu de sbanfà: “Vàtene màrzu cui tou capelàssi, che mì me ne vagu cu’i mei agnelàssi, beli grassi”.
Ma màrzu, inscì s’u l’éira impegnau a fa’ sciurì i pérseghi e a fa’ burrì e çeréixe, u l’à sentiu a fanfarunàda de su’ pastù e u s’è ufésu, cunsciderandu de fàgheřa pagà, inscì se da lì a dui giurni u l’averéva duvüu andàssene.
Dopu avéghe pensau in po’, u l’à ciamàu so’ frai Avrì e u gh’à dumandau: “Avrì, préstime trei di tòu di’, dui d’i méi l’ài, faremu ciànze tüti i pegurai”. Avrì, che inscì s’u paresce cuscì dùçe u l’é caiche vòta ben matùrnu, u l’à faitu prestu a portà àiga a l’idéa de so’ frai.
Eben, màrzu u s’e gh’é messu d’impégnu e u l’à mandau inscia térra çinche giurni d’àiga e de ventu che mancu d’üvérnu i s’éira mai visti. A tramuntana a l’éira cuscì zerà che e pegure i nu’ l’atrövava riparu mancu inti stàgi e i agneli tròpu zùveni, ancù nu’ tantu smariziài, i sun morti azezibài. U nostru pastù u l’è arresciu a mantegne a ràssa, sarvàndune ün, pecin, ascusu inta mànega d’u pastràn.
Da chéla vòta, serà staitu perché Marzu e Avrì i gh’àva pigliau a man, ma e gente i l’àn duvüu imparàsse a remarcà cheli çinche giurni pe’ l’avegnì, za’ che pe’ a fin de màrsu, u tempu u l’è assai suvente paréscu a chélu de ‘sta störia, tantu ch’i ‘ste giurnàe i l’àn ciamàe “i çincàiri” e i paisài i ne tegne ben contu.
LA VOCE INTEMELIA anno LXII n. 3 marzo 2007
E il pastore sfidò marzo
Renzo Villa 1996
Avevamo detto che il mese di marzo non ha mai goduto buona fama a causa delle sue bizzarrie e che su questo fatto esiste tutta una letteratura che affonda le radici nel campo delle credenze popolari. Il che ci obbliga a ritornare sull’argomento con la famosa leggenda di “Marzo e il pastore” diffusa un po’ dappertutto. Qui da noi ha preso il nome di Çincàiri, termina dialettale che significa “cinquina” ed è riferito agli ultimi due giorni di marzo ed ai primi tre di aprile. Vediamo perché.
Secondo questa leggenda, durante il mese di marzo un pastore era riuscito a portare quotidianamente il suo gregge al pascolo ingannando di volta m volta il dispettoso mese che, con i suoi improvvisi cambiamenti di umore meteorologico, avrebbe voluto ostinatamente impedirglielo. Non contento di ciò, giunto al giorno 29, il pastore, sentendosi ormai al sicuro da ogni pericolo, aveva osato sbeffeggiare marzo con queste parole «Marsu, marsassu, vàtene int’i tou capelassi che i mei agneli i sun beli grassi !» «Marzo, marzaccio, vattene nei tuoi cappellacci di nuvole che i miei agnelli sono ormai grassi !»
Al che marzo, offeso per l’affronto subito - sempre secondo la leggenda - si sarebbe rivolto ad aprile chiedendogli in prestito tre giorni in modo da avere il tempo e la possibilità di punire il pastore che gli aveva mancato di rispetto. Ed ecco la sua richiesta ad aprile: «Trei ti mi i presti e dui l’ài, faremu ciagne i pegurai», «Tre giorni me li impresti e due li ho ancora, faremo piangere i pastori», naturalmente con una bella ondata di maltempo. Per la tradizione popolare, dalla leggenda al risvolto pratico il passo fu breve. I cinque giorni, a cavallo fra la fine di marzo e i primi di aprile, i Çincàiri, per l’appunto, si trasformarono in una previsione meteorologica fissa, secondo la quale in questo periodo il tempo sarebbe stato invariabilmente brutto.
Se noi avessimo il tempo e la pazienza di cercare, troveremmo tracce di questa leggenda, magari con alcune varianti, presso le tradizioni popolari di tutte le regioni. Accontentiamoci di quella raccolta da Mistral in Provenza, dove i nostri Çincàiri si chiamano li Vaqueiriéu, cioè i Giorni della Vaccara, la quale anch’essa aveva fatto a marzo lo stesso affronto del nostro pastore e naturalmente ... mal gliene incolse.
da “Dialetto ieri & oggi”
C.d.V. - Alzani Pinerolo - 1996 illustrato da Mietta Benassi
I DUZAIRI
Renzo Villa 1996
In passato, quando i satelliti meteorologici erano oggetti del tutto sconosciuti, la sapienza popolare aveva già escogitato un ingegnoso sistema per le previsioni del tempo, e per giunta a lungo termine. E oggi c’è ancora qualcuno, specie nelle zone rurali, che ricorre a questo antico metodo.
Si trattava di fare i Duzàiri o e Duzàire (parole derivate dal numero dialettale duze “dodici”), una pratica che consisteva nell’osservare le condizioni del tempo durante i primi dodici giorni di gennaio e da ciò pronosticare l’andamento meteorologico dei mesi dell’anno. Così a giorni sereni o piovosi avrebbero corrisposto mesi di bei tempo o di pioggia, a giornate calde o fredde mesi afosi o rigidi.
L’usanza, diffusa in tutta la Liguria, si chiamava calèndie nell’imperiese e calàndria o calàndre rispettivamente nell’area genovese e savonese.
Una particolarità può essere considerata quella del dialetto di Buggio, in alta Val Nervia, dove è in uso (o almeno lo era) la parola diair(i)e.
Volgendo lo sguardo fuori casa, scopriamo che in Spagna l’usanza esisteva con il nome di las cabanuelas, come ci assicura Pedro De Alarcon nella sua novella “El aňo campesino” l’anno contadino, in “Novelas cortas”, Madrid 1955. In questo saggio, l’autore enumera le varie tappe dell’anno, viste nell’ottica dei contadini, per i quali la divisione del tempo non avveniva in base alle date del calendario, ma secondo lo svolgersi dei cicli naturali. Da altre fonti autorevoli, sempre spagnole, si viene a sapere che l’osservazione delle vicende meteorologiche, ai fini della previsione, riguardava i primi 12, 18 o 24 giorni di gennaio e di agosto. In questo modo la validità del pronostico si prolungava fino ai mesi dell’anno successivo.
Anche presso la comunità albanese in Italia, si pratica questo antico sistema di previsione del tempo. Soltanto che i 12 giorni presi in considerazione non sono i primi di gennaio, ma quelli che precedono la festa di Natale, cioè dal 14 al 25 dicembre. Come si dice: paese che vai, usanza che trovi.
da “Dialetto ieri & oggi”
C.d.V. - Alzani Pinerolo - 1996 illustrato da Mietta Benassi
I VERI DUZàIRI
Luigin Maccario - 2010
Il capodanno al primo giorno di gennaio è stato introdotto da papa Gregorio XIII soltanto nel 1582; inoltre, premesso che almeno fino al 1797, in questo nostro territorio, il capodanno secondo lo stile ambrosiano si identificava con la Natività, del 25 dicembre; in seguito, dopo appena 132 anni di accettazione del primo giorno di gennaio, nel 1929 il capodanno venne dirottato alla data del 28 d’ottobre, e vi rimase fino al cessare della Seconda Guerra Mondiale.
Sarebbe dunque soltanto dal 1946 che, inopportunamente, la tradizione intemelia ha rimesso in campo la ottocentesca e fittizia divinazione sul comportamento meteorologico dell’anno, con il rilevamento di quanto accade nei primi dodici giorni di gennaio, usanza che viene ricordata col nome de “i Duzàiri”.
Il comportamento meteo rilevato nella mattinata del primo gennaio, verrà assegnato ai primi dodici giorni di quel mese, mentre quello che accadrà nel pomeriggio, dovrebbe dare il responso sul comportamento della seconda quindicina. Il giorno due verrà abbinato a febbraio, il tre a marzo e così via, col vezzo di qualcuno che ricaverebbe le divinazioni con l’esatto contrario di quanto verificato.
Non capiterà mai e poi mai che, a fine dicembre, i divinatori di duzàiri possano vantare di aver azzeccato il rilevamento, già che le variabili di dodici giorni rilevati in pieno inverno, non potranno mai offrire risultati relativi ad una stagione così differente, come l’estate.
Invero, fin dall’antichità, i contadini delle Valli Intemelie hanno profetizzato sui “Duzàiri”, ma lo hanno sempre attuato prendendo in visione i giorni che intercorrono dal primo giorno di novembre, che capodanno agricolo lo è stato fin dalla notte dei tempi, anche per le popolazioni liguri.
La combinazione meteo, autunnale, dei primi dodici giorni di novembre si mostra assai più propensa a concedere una qualche speranza di veggenza riuscita. La presenza, in quei giorni, di quello strano periodo di ravvedimento da parte delle prime gelate dell’anno, noto ai contadini col nome di “estate di San Martino”, tra il sei e l’undici di novembre, potrebbe anche fornire l’azzeccata divinazione di una perfetta estate duzàira.
Duzairi a novembre, dunque, giammai a gennaio; se si vuol manifestare la concreta appartenenza al tradizionale mondo contadino intemelio, che affonda le radici nelle antichissime usanze dei Liguri.
LA VOCE INTEMELIA anno LXV n. 2 febbraio 2007
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