Progetto e realizzazione di Luigino Maccario
attraverso diapositive geo-storico tematiche
© 2005 Cumpagnia d'i Ventemigliusi
Ripercorrere l’evoluzione storica di un territorio è cosa assai ardua, ancor più se si vuol praticare la ricerca nel periodo preistorico, per il quale anche l’archeologia non può fornire documenti certi, a meno che non gli capiti di reperirli casualmente o li vada a ricercare seguendo le labili indicazioni fornite dalla tradizione, dalle consuetudini o dalle leggende.
In questo lavoro si è cercato di unire i dati storici universalmente riconosciuti alle evidenti consuetudini popolari, alla trasmissione di memorie ed alle leggende comunemente convenute, per proporre una possibile visione del territorio, attorno alla sua evoluzione nel corso dei secoli.
Un ruolo importante, per l’insieme del lavoro, lo ha sostenuto la Toponomastica, specialmente quella non più evidente, ma conservata appunto tra le consuetudini e le memorie popolari.
Con l’aiuto delle moderne tecniche digitali si è potuto intervenire, per sommi capi, sulle fotografie aeree eseguite dalla De Agostini per “Aeroguide”, nel 1980; e più di recente di Google Earth, così da ricostruire il territorio come si presume possa essersi presentato, alla luce di quel tipo d’informazioni.
Per rendere leggibili le piante topografiche si è adottato l'espediente di tenere costantemente in evidenza il reticolo viario dell’attuale piano urbano ventimigliese, sul quale tracciare, più marcatamente, le presunte variabili, del passato, sul territorio.
Un segnale ben individuabile, nella localizzazione dei siti, è rappresentato dalla linea rossa della ferrovia, che accompagna longitudinalmente tutta la pianta, segnalando il parco binari della Stazione con il raddoppio della linea, come il fascio binari del dismesso Deposito locomotive si protende verso il mare, a Nervia.
Da questa raccolta di dati, sono stati estrapolati gli argomenti per un pubblico incontro, tenuto nel Salone della Civica Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia, a cura del Comitato Centro Storico, sabato 7 maggio 2005; oltre ad un Meeting Conferenza LIONS Club, in data 5 ottobre 2006; cena al Ristorante “Capannina”. |
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La presenza di una estesa quantità di terre emerse, antistanti le frequentate grotte dei Balzi Rossi, è un’indicazione assai riconosciuta dagli studiosi del settore.
Nel corso dell’Era Pleistocene, il territorio che avrebbe poi ospitato la comunità ventimigliese, si sarebbe esteso, su quello che oggi è il fondale marino che fronteggia i nostri paesi, per almeno undici miglia.1
I fondali avrebbero conservato l’attuale profilo, per un primo tratto di circa sei miglia, abbastanza scosceso, ma fruibile, che avrebbe proseguito con altrettante miglia di deciso falsopiano, affacciato su una ampia zona sostanzialmente pianeggiante, che oggi è sprofondata in un abisso tra i più profondi del Mediterraneo.
Nella cartina, il territorio preso in esame nei secoli successivi, è contenuto nel rettangolo di mm. 8 x 5, sito tra il corso della Nervia e quello della Bevera, tagliato in due dall’alveo della Roia, che proseguirebbero poi in un unico letto principale.
La Bevera non sarebbe stata affluente della Roia in zona Porre, com’è oggi, ma sulla base dell’orografia sommersa dell’epoca e quella delle situazioni sottomarina attuale, le sue acque sarebbero state raccolte a meridione, dopo circa quattro miglia.
1) Considerando il miglio, approssimativamente, un kilometro ed ottocento metri; la superficie esaminata sarebbe di oltre venti kilometri quadrati. |
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Nel corso della così detta Età dei Metalli, dopo aver abbandonato le caverne dei Balzi Rossi, quali abitazioni naturali ed averle rese santuari della loro vita sociale e religiosa, gli uomini che abitarono il Ponente ligure costruirono le capanne dei loro villaggi sui culmini delle dorsali montane accessibili, dopo avervi eretto un vallo di protezione tutt’attorno ed a volte anche una robusta palizzata.
Avevano attentamente scelto tali posizioni dominanti, da dove poter controllare, con largo anticipo qualunque vivente si fosse avvicinato. Le prospettive migliori le offriva un culmine montano che avesse avuto caratteristiche di dirupo, o di scarpata inaccessibile, almeno da due lati dell’insediamento.
Noi abbiamo assegnato a queste entità territoriali stanziali il nome di “Castellari” e sappiamo quanto fossero diffusi sulle alture che sovrastano le basse e medie valli dei corsi d’acqua più importanti, diradandosi mano a mano che le alture si facevano più impegnative.
Le tribù più importanti e numerose soggiornavano in più castellari, facendo in modo che fossero otticamente visibili tra loro; potendo così segnalare a vista qualunque notizia importante e non rinviabile.
Questa scelta principale impegnava, per conseguenza, il sistema di collegamento dei percorsi tra castellari, che si dipanava soprattutto lungo le sommità dei crinali. Dov’era possibile, dunque si tracciava il sentiero sulla linea displuviale, abbandonandola il meno possibile, allorché si era costretti dalla morfologia del terreno.1
Nell’economia di allevamento ed agricoltura, i primitivi Intemelii praticavano anche i corsi d’acqua di fondovalle e certamente la riva del mare, dove qualcuno di loro navigava, persino; ma gli insediamenti abitativi più vicini alla costa erano situati sui poggi delle sommità più elevate o più strategiche, collegate da opportuni camminamenti in costa.
Dal punto di vista orografico, la Zona Intemelia concedeva ottimi siti per castellari lungo la dorsale che dalla Collasgarba si volge verso Passo Muratone; infatti oltre all’insediamento al culmine della Colla medesima, il quale nei secoli a noi più vicini avrebbe dati principio al sito della capitale degli Intemelii, servita da un importante porto canale, erano presenti castellari in Ciaixe, Cima d’Aurin, Monte Abeglio, Terca, Furcuin e Testa d’Arpe.
La dorsale sulla riva opposta del Nervia, trovava insediamenti sulla Cima Croairöra, Belavista, Rebüfau, Monte Cagiu, Monte Acüu, Monte Veta, Monte Meřa e Monte Ceppo. Verso il mare: Peiga, Sapergo e Montenero.
La dorsale sulla destra del Roia ha ospitato siti sulle alture di Maglioca, Pözu, Martempu e Piena. Sopra Capo Mortola: Belenda e Carpan; verso Occidente: quelli che oggi sono Castelar, Sant’Agnes e Gorbio e sulle pendici di Mont’Agel: Munte d’ê Müre e l’attuale Türbia.
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Fin dall’antichità, l’uomo che si spostava per lunghi viaggi, aveva necessità di trovare indicazioni sul percorso da seguire, specialmente quando doveva affrontare un bivio mai visto prima. La solidarietà da parte delle popolazioni stanziali d’un luogo e quella dei viaggiatori che si erano trovati a disagio ad un bivio, hanno attivato, nel tempo, una sorta di segnaletica d’avvertimento, sull’importanza di rintracciare informazioni in quel punto.2
Quelle primitive segnaletiche diventarono ben presto semplici are o sacelli dedicati ad una divinità campestre, in seguito, a seconda dell’importanza del sito assumevano la dedica ad una divinità più universalmente riconosciuta. Giunone è stata la divinità latina espressamente protettrice dei crocevia, forte del suo particolare attributo di “Giunone dei crocicchi”.
Tra i Liguri intemelii doveva essere assai ricorrente segnalare un importante crocevia adattando a sacello una grotta o una cavità espressamente scavata. Sul primitivo santuario, l’importanza del sito ha fatto erigere un tempio e poi una chiesa, la quale ci ha potuto tramandare la logistica dei siti con assoluta precisione.3
Il crocevia più importante e sacrale doveva essere situato sullo Scögliu, dove, in cavità artificiale, i viaggiatori si sarebbero avvalsi dei presagi di una divinità femminile locale, forse Belisama, la quale, nel tempo, è stata latinizzata in Giunone regina ed infine cristianizzata con l’Assunta.
Nelle barme che si affacciavano di fronte ai Paschei, aperte nelle pendici più meridionali di Siestro, si poteva contare sulle indicazioni di un fauno locale latinizzato forse nel divino Eracle, cui dovrebbero esser state dedicate le pendici rocciose retrostanti, conosciute oggi come Mauře, cristianizzate in San Cristoforo e poi San Giacomo. Quel crocevia dava l’indizio delle mulattiere che volgevano verso Siestro e le Mauře, appunto.4
Sul nostro territorio, altre grotte, o “barme”, hanno contenuto o contengono riferimenti sacrali, in siti che erano sede di importanti crocevia, che nel tempo sono state segnalate da importanti monumenti cristiani: il Santuario di N.S. delle Virtù, la scomparsa chiesa di San Stefano in Ripa, San Michele sulla Colletta, San Pancrazio di Calvo, Sant’Antonio in Val Latte, San Martino al Resentello e forse anche San Lazzaro sulla Rocca, poi convento dell’Annunziata, era sorto su una primitiva grotta.
La scelta del sito non era mai casuale, infatti, l’ubicazione derivava dalla sensibilità che quegli uomini conservavano ancora verso le coordinate del magnetismo terrestre, qualità che l’uomo d’oggi ha, in generale, completamente perduto.
I sensi dell’uomo primitivo avvertivano costantemente le canalizzazioni magnetiche che il globo terraqueo produce in termini ben precisi, anche se un poco fluttuanti; seguendo quei flussi l’uomo viaggiatore determinava la validità del suo percorso. Al sorgere di un eventuale dubbio, il sacello sacro a quella determinata divinità, eretto su un punto d’intersezione di due flussi magnetici ortogonali, dava l’indicazione sul percorso da seguire in seguito, a seconda degli attributi collegati alla divinità medesima, comunemente noti, o solamente intuiti, al tempo, dalla pratica dei viaggiatori.
1) La scelta di percorrere i crinali, durante i continui spostamenti, era stata messa in atto dalle primitive tribù che praticavano la sussistenza da cacciatori e raccoglitori, giacché avevano accertato quanto fosse importante Il procedere potendo controllare, con largo anticipo, il territorio che stava loro attorno, per tutto il volgere dell’orizzonte visivo. Questo semplice accorgimento concedeva la certezza di non venir sorpresi da agguati inopportuni; inoltre, affrontando continuamente paesaggi sconosciuti, il fatto di dominare l’ambiente dall’alto concedeva di non smarrire l’itinerario prefissato, ritrovando con immediatezza soluzione alternative ad eventuali asperità invalicabili. La stanzialità degli agricoltori non aveva potuto cancellare le primitive abitudini conseguite, che si mostravano decisamente valide: tanto che ancora alla fine del XIX secolo le popolazioni dell’immediato entroterra preferivano percorrere la fitta rete di percorsi di crinale, anche se erano da poco realizzate le comode strade di fondovalle. 2) Tra la gente di montagna, questa usanza trova applicazione ancor oggi. Lungo un percorso ascensionale, dove è difficile avere sott’occhio la situazione sui camminamenti più appropriati, è consuetudine di aggiungere un sasso alla montagnola di pietre che ci ha indicato un bivio importante. Più la montagnola risulta corposa e più la strada dovrà essere frequentata e sicura. 3) In molti casi, la presenza sul sito di un eremita, il quale poteva anche assumere funzioni di oracolo, concedeva al santuario una presenza sacerdotale spontanea, che oltre a concedere le indicazioni richieste, produceva presagi a buon prezzo. 4) Il 9 luglio dell’anno 1194, i consoli ventimigliesi Fulco Nolasco, Corrado Mirabello, Fulco Bellaverio e Guido Siro concedevano ai canonici di edificare e gestire, presso le Barme di Siestro, una chiesa dedicata a San Simeone. Sarà soltanto nel 1345 che Babilano Curlo, auspicando, nel testamento la fondazione di un convento di canonici Agostiniani, in Ventimiglia, patrocinava la costruzione della chiesa dedicata a San Simeone. Su quel luogo, il 7 marzo del 1487, dietro istanza di fra Giovan Battista Poggio, vicario generale degli Agostiniani, il vescovo intemelio Alessandro Fregoso poneva la prima pietra del convento dedicato a N.S. della Consolazione, nel luogo detto “Bastita”, ora detto quartiere di Sant’Agostino, o Cuventu. |
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Il tracciato della via Heraclea è segnato in alto a destra del riquadro per esigenza grafica; in effetti, memorie della sua presenza in Val Nervia lo indicherebbero nei pressi di Dolceacqua. |
Nell’antichità, le popolazioni intemelie scelsero la foce del Torrente Nervia quale punto d’attracco per le loro instabili imbarcazioni, giacché quel torrente, presentando un alveo secco per almeno sei mesi l’anno, offriva la presenza stabile delle acque di falda, ad un discreto livello, nel lago permanente che si forma da sempre in prossimità della foce.1
Allo stesso tempo, le acque di piena, pur presentando un notevole fronte d’impatto, sono sempre state assai gestibili; poiché l’intero rilievo displuviale della vallata è ben visibile dalla foce. Si può dunque valutare l’entità delle precipitazioni, in un invaso neppure oltremodo vasto.2
Oltre a questo, per attrezzare i servizi ad un porto-canale, la collina che da Ponente si specchia in quel lago paludoso; era adattissima al recupero di abitazioni naturali, essendo sforacchiata da numerose grotte, ma soprattutto per la presenza, a mezza costa sul suo lato di Levante, dell’ampia barma che ha definito il toponimo della collina medesima: la Collasgarba.3
La collina presenta fianchi scoscesi, quindi assai difendibili, dal punto di vista di quelle popolazioni, che riscontravano nemici e pericoli da ogni parte; inoltre l’esposizione del crinale ascensionale, principale, rivolto a mezzogiorno, la rendeva un luogo ideale per lo stazionamento invernale.
Dalle grotte alle capanne, edificate proprio sul medio crinale aprico, l’emporio degli Intemelii, servito da un porto canale in espansione ed assai ben gestito, prese forma sulla Collargarba.
L’estuario della Roia, invece, si presentava di larghezza assai ridotta per come lo possiamo vedere oggi. Lungo tutti i mesi dell’anno, l’intero alveo è stato sempre percorso da una vivace corrente; tanto che, il lago di calma riscontrabile nei pressi della foce, facilmente, non esisteva neppure.
Le acque di piena della Roia prospettando un considerevole fronte d’impatto, non sono mai state per nulla gestibili; poiché la linea di cresta della displuviale, lungo tutta la vallata, non è per nulla visibile dalla foce e non si può dunque valutare, dall’alveo terminale, l’entità delle precipitazioni, in quell’invaso, indubbiamente molto vasto.4
Oltre a ciò, la collina che fronteggiava la foce non si dimostrava molto adatta allo stanziamento abitativo difendibile, in considerazione della scarsa presenza di grotte; a causa della composizione del terreno d’allora, quando costituiva la maggior parte dell’ampio affioramento, nell’epoca appunto; una miscela di argille e puddinga, agevolmente sgretolabile ed, a tratti, scivolosa.
La collina d’allora avrebbe presentato fianchi ampiamente digradanti, che contenevano nel loro più profondo interiore quella massa rocciosa che ha poi costituito “u Scögliu” dove è stata edificata la città medievale. Era quella una situazione per nulla difendibile, da nessuno dei lati, compreso quello dolcemente declinante verso il mare e quello altrettanto digradato verso la Roia.
Il sito era certamente esposto tra il Levante ed il Mezzogiorno, ma la tramontana che cala dalle Alpi Marittime non era molto compatibile con lo stazionamento invernale non attrezzato.
Si può presumere che prima dell’Età dei Metalli; sul lato di Ponente, i fianchi di quella collina discendente dal Colle dove ora troneggiano le rovine di Forte San Paolo, scivolassero, per nulla scoscesi, fino a coprire ampiamente Murru Russu e le Calandre; dopo l’affiorante Punta della Rocca avrebbero contenuto nel loro più profondo interno gli Scoglietti, la Pria Naviglia e la Margunaira, mentre il culmine dello Scoglio Alto avrebbe potuto essere appena emergente, a metà circa del declivio.
Sul lato di Levante, il declivio avrebbe contenuto al suo interno le Lisce, l’Auregnana, Peglia, la Colletta, la Rocchetta, il Borgo fino a metà degli attuali ponti, indi avrebbe digradato sugli interi attuali Giardini pubblici, per andare a smorzare il suo pendio nei pressi della Riana delle Vacche, mentre il Resentello sarebbe stato l’ultimo affluente di sinistra della Roia.5
L’ampia e digradante collina, che chiameremo Sud-Est di Magliocca, avrebbe costretto il corso finale della Roia a ridosso del contrapposto declinante colle, il quale dal vertice delle attuali Mauře, sarebbe calato, sulla riva sinistra, a coprire il centro Studi di via Roma, con l’attuale via Turati, via Gramsci ed oltre metà di via Dante, lambendo tutta la lunghezza dell’attuale vico Asse e coprendo oltre metà di via Tacito, tutta via alla Spiaggia, via Lamboglia e metà di lungomare Varaldo. L’acqua della Roia avrebbe raggiunto il mare davanti alle Asse, sulla Carma d’i Pasciensa.6
Nel corso dell’Età dei Metalli, dal 2900 all’800 prima dell’Era Volgare, sul nostro territorio giungeva, in avanguardia, la pratica dell’allevamento ovino, seguita da quello bovino, anche se in quantità marginali; quindi quelle ampie e vezzeggianti colline digradanti sul mare si mostravano terminali perfetti per la transumanza invernale. Residuo di quell’uso era rimasto nel toponimo i Paschei, ancora vivo nel primo Novecento attorno alla foce della Roia.7
Vicino all’anno 1000 a.C., si sarebbe insediata anche la pratica dell’agricoltura, che avrebbe trovato sulle panciute falde del Colle d’Appio ed attorno al Colle, dove troverà posto il Forte San Paolo, il terreno ideale. Ma agricoltura e pastorizia, specialmente caprina, non vanno d’accordo; allora sarebbe stato necessario costruire un muretto per separare il sito dei Paschei, sulla direttrice: Ponte Nuovo; piazza Cattedrale e Scoglio Alto.
Infatti, quando avvenne l’erosione che sbancò le argille e le puddinghe dalle pendici del Cavu, attorno alla Margunaira e lo Scoglio Alto, sul culmine di quest’ultimo restò un piccolissimo tratto di quel muretto che per molti secoli protesse ancora, lassù in alto, una pianta di olivastro ed un cespo d’alloro, creando un miniambiente vegetale che era popolarmente conosciuto come “u Giardin d’ê Strie”.
Pastorizia ed Agricoltura ci potrebbero segnalare quindi, come al concludersi dell’Età del Ferro, o persino in una prima epoca storica, si sia dunque potuto verificare la forte erosione delle argille e delle puddinghe che ha cancellato le estreme, ampie falde Sud-Est di Magliocca. A provocare una così intensa azione corrosiva potrebbe essere stata un’aumentata potenza distruttiva nell’onda di piena della Roia.
1)Ritrovamenti casuali di antiche mura affioranti nel greto del Nervia e sulla spiaggia antistante, avvenuti nella seconda metà dell’Ottocento, avevano decretato l’evidente antica presenza del Porto canale nervino. Nel 1946, scavando nel Lago della Roia; il ritrovamento di un’àncora, poi scomparsa, avrebbe datato quello scalo marittimo all’Era Antica, facendo ipotizzare la tesi che il Porto canale di Nervia non fosse mai esistito, mentre quello della Roia fosse stato l’unico Porto intemelio ad essere stato funzionante. |
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La tipologia delle piene Otto-Novecentesche della Roia ha sempre presentato un forte apporto di acque, atteso alle Bocche del Trucco con forte apprensione, che è poi sopraggiunto in città con un’ondata di piena piuttosto defluente, anche se assai corposa. Invece, le piene più terribili si sono verificate, quando è stato l’apporto del Torrente Bevera a raggiungere la già copiosa onda della Roia, all’altezza delle Porre. Da quel punto, i giochi d’acqua trasversali e la tipologia dell’onda di piena della Bevera, pressata dalla percorrenza nell’Avaudurin, forma un livello d’acqua tale che le difese sugli argini della città vengono messe a dura prova. Quando poi, l’onda di piena dovesse sopraggiungere nel corso d’una mareggiata di “rebossu”, i rischi per la città si presentano veramente funesti. |
La succitata analisi potrebbe far dedurre la tipologia dell’evento che può aver prodotto l’erosione delle falde Sud-Est di Magliocca, resistite integre per molti secoli nell’antichità e quasi improvvisamente sfaldate soltanto, si fa per dire, al termine dell’Età del Ferro, o all’inizio dell’epoca storica.
Evidentemente, fino a quando la sopraggiunta pratica dell’agricoltura non ha costretto l’uomo intemelio a costruire il muretto che ha lasciato la testimonianza sul Giardin d’ê Strie, la corrente di piena del Torrente Bevera sfociava direttamente in mare davanti all’attuale comprensorio di Latte, come storicamente è stato.
Le pendici Nord della Cima di Gavi, il monte oggi completamente eroso dai prelevamenti della Cava Bergamasca, erano connesse con le pendici Sud di Monte Pozzo, nel punto dove l’Ottocentesca Cava Acquarone ha lasciato una profonda escavazione, fino ad una quota di almeno 170 metri, tanto da permettere il contenimento delle acque della Bevera in un grande lago che si allargava sui siti che oggi contengono Calvo, San Pancrazio e Torri. Avrebbe lambito il Serro, per tracimare dai 165 metri del Passo di Sant’Antonio, tra le pendici Ovest della Cima di Gavi e quelle Est della Cima di Terca; saltando ai 115 metri, nella bassa valle del Ruassu, che proviene dal Granmondo, ed inserirsi così in quella che è la Valle del Latte.1
La Piana sedimentaria di Latte non potrebbe avere la vastità che presenta, con i soli apporti del Ruassu; infatti, alle analisi geologiche le ghiaie alluvionali della Piana risultano provenienti dal territorio di Sospello, con i caratteri litici del Turinì e del Brouis. La continua erosione, oppure un semplice sconvolgimento terreno avrebbe scavata la connessione tra Pozzo e Gavi, fino ad una quota inferiore ai 160 metri, permettendo al letto della Bevera di indirizzarsi verso Levante e raggiungere le acque della Roia, nel sito prospiciente le Porre.2
La prima ondata di piena che ha visto unite le correnti della Roia e della Bevera avrebbe potuto produrre l’intaccamento delle argille e delle puddinghe nelle falde Sud-Est di Magliocca, erodendo il tratto avanzato della collina. Da quel momento la forma topografica dello Scögliu si è resa sempre più simile all’attuale, mostrando il prorompente promontorio del Cavu.
La nuova situazione avrebbe concesso a quegli abitanti di disporre d’un promontorio difendibile presso la foce della Roia e quindi abitabile, ma sconsigliati dalle aggressive piene della Scciümàira ed ormai assuefatti alla calma relativa del porto canale della Nervia, scelsero di continuare ad abitare la Collasgarba e di creare in quel sito il grande emporio degli Intemelii.
Al verificarsi della conquista romana, col sopraggiungere dei coloni laziali sul territorio intemelio, quell’emporio si rese assai abitato, di conseguenza il porto canale ormai ampliato deviando, quando c’era, la corrente della Rivaira verso Oriente, abbisognava di continui lavori di dragaggio ed un definitivo inquadramento.
Nella massima espansione dell’area portuale i moli settentrionali si sarebbero trovati all’incirca lungo l’attuale percorso della via romana, nel tratto dove ha sede il fabbricato delle scuole elementari di Camporosso Mare; oggi ad una profondità di qualche metro. In quel punto, infatti, durante la costruzione delle fondamenta dei caseggiati presenti si videro tratti di muro ben edificato con grossi anelli e colonne in pietra (bitte) emergenti; segni essenziali per individuare un porto.3
Ma la costante necessità di dragaggio, specie all’imboccatura del porto canale, ha lasciato un segno indicatore di quel punto strategico, anche quando, abbandonato l’uso del porto, le piene della Nervia e l’apporto delle mareggiate hanno sepolto le attrezzature.
Nelle vicinanze del sito, dove oggi è ricavato il Giardino Pubblico, sul luogo oggi conosciuto come piazza d’Armi; fino al 1930, è stato presente uno stagno abbastanza esteso, che raccoglieva le acque piovane dalle pendici Ovest di Colle Aprosio e le smaltiva, normalmente per infiltrazione, oppure, per tracimazione verso il mare, durante i temporali più energici, fino alla costruzione del terrapieno ferroviario, nel 1868. Lo stagno, segnalato dal tipo di Sanità del Vinzoni, nel 1759, è egregiamente descritto da Nicola Orengo, in un suo libretto, ancora nel 1929.4
Il tratto di lido che si stende tra Ventimiglia e Bordighera è l’unico piano che esiste nella Provincia. Ha un chilometro circa di larghezza su cinque di lunghezza ed è annaffiato da quattro corsi di acqua il Roia; il Nervia e i due torrentelli della Torre e del Borghetto; alle cui millenarie alluvioni deve l’esistenza e la vigorosa vegetazione che lo distingue.
Un microscopico laghetto di Sant’Anselmo - unico esso pure nella Provincia - par cascato a bella posta in tutta quella furia di verde per gettarvi in mezzo uno strappo di quell’azzurro si bello che gli sorride”.
Nel 1930, giunse a Ventimiglia l’89° Reggimento di Fanteria ed ebbe in concessione il territorio dello stagno per ampliare il piazzale dei Pepi, esistente nei pressi, per crearvi la propria piazza d’Armi, in contropartita al risanamento della zona, così lo stagno di Sant’Anselmo scompariva.5
1) Il solo apporto idrico del Ruassu avrebbe erosa la parte alta della vallata di Latte ad una quota meno profonda di quella scavata dalle acque abbondanti e precipitose della Bevera. 2) In seguito al cambio di letto della Bevera, la Draira dello Strafurcu, dal Pozzo verso la Maglioca, ha cominciato ad attraversare in guado l’emissario del lago a quote lievemente inferiori, progressivamente all’allargarsi piuttosto dinamico del varco torrentizio verso la Roia, fino a quote assai basse che riportavano in ogni caso verso la sicura “posta” di Seglia, su terreni per i quali, nell’antichità, il raccordo collinare tra Pozzo e Gavi avrebbe rappresentato l’estensione ideale della draira transitata dalle greggi in transumanza, dopo la percorrenza sul crinale del Pozzo, in quota, verso il raggiungimento delle pendici ovest della Magliocca, l’attuale San Lorenzo, il crinale del Colle d’Appio, del Monte, del Colle e la discesa sullo Scoglio. L’attraversamento del guado in quota ha avuto una durata assai lunga nei secoli; potrebbe essere stato in uso ancora nell’Alto Medioevo. La necessità di transitare con le greggi per quei terreni alberati e paschivi, gli ha fatto conservare il toponimo de “i Franchi”, anche se, alcune improbabili leggende, per quel toponimo, ci tramandano la visita di antichi sudditi carolingi; di paladini intenti a dar nomi a luoghi e paesi e persino di esuli Albigesi, in fuga dalla Provenza. Il primo cammino avrebbe rispettato le necessità del tempo; quest’ultimo diventava imprescindibile. Il punto d’arrivo della strada di transumanza, con l’entrata nei rigogliosi Paschei, era sacralizzato dalla presenza di una “crota” dedicata ad una dea agreste. Il termine “draira”, localmente, indica il tratturo. La discesa su Varase, San Rocco e Bevera, al guado verso le pendici di Seglia, e sempre in fondovalle tutta la Maneira fino a San Steva, da dove il cammino riprendeva a risalire verso lo Scoglio, sulle falde dell’Aurignagna è stato un percorso intrapreso soltanto nel XI secolo con la relativa sicurezza tutelata dal Libero Comune, eppoi dai genovesi. 3) La necessità di portare avanti i lavori edilizi non ha permesso un approfondito rilievo archeologico, lasciando assumere la notizia come casuale, ripromettendosi di riprendere gli approfondimenti in epoche più consone. 4) Nicola Orengo - GUIDA DELL’ESTREMA LIGURIA OCCIDENTALE - Tipografia M. Ricci - Imperia 1929 5) Pare però che fin dal 1925, il luogo conosciuto come “Piazza dei Pepi”, dove si tenevano i grandiosi festeggiamenti popolari per San Rocco, nella giornata seguente il Ferragosto, venisse già chiamato Piazza d’Armi, forse in previsione. La necessità di quella Piazza d’Armi veniva a sostituire l’uso del piazzale antistante al Municipio di Ventimiglia: Piazza della Libertà; che in quegli anni era cantiere di numerosi interventi urbanistici, non ultimo la costruzione della Casa del Littorio, il palazzo in stile moderno, corredato di torre, che sarà il nostro Municipio dal 1946. |
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L’anno 107 a.C. è stato decisivo nella sistemazione viaria, lungo la costa. Essendo state sottomesse tutte le tribù liguri costiere fino al Varo, erano rese percorribili le strade di collegamento intervallivo.
Con l’arrivo sul territorio intemelio dei Consoli romani, conquistatori, giunsero anche due strade consolari, la Via Æmilia Scauri e la Via Domitia. La più importante venne costruita, nel 109, dal console Marco Emilio Scauro, partiva da Piacenza, passando per Voltri, fino a Marsiglia, ricalcando per sommi capi l’itinerario della strada Heraclea,1 ma sostanzialmente spostandolo presso la costa, non più impenetrabile, protetta com’era dalla “Pax Romana”, o meglio dalla sua potente flotta.
Il tracciato della via Æmilia Scauri, entrava nel territorio intemelio sulle pendici di Capo Nero, seguiva la costa fino a Capo Ampelio, per poi allontanarsene di un miglio, fino al tempietto dedicato ad Apollo, che oggi è rappresentato dalla chiesetta di San Rocco, a Piani di Vallecrosia.
Attraversata la Nervia con un guado, a settentrione del Porto Canale, lambiva le prime case di Albion Intemelion, alle falde della Collasgarba, per proseguire ai piedi delle Mauře, attraversando il Resentello con un guado e costeggiando la collina di Siestro fino ad un altro importante guado, per attraversare la Roia tra le attuali Gianchette e la Ripa sottostante l’Auregnana, chiamata in seguito Ripa Santo Stefano.2
Giunta sulla riva destra della Roia, si inerpicava sullo Scoglio, dov’era un tempietto dedicato a Giunore Regina, per poi voltare verso il Colle e scavalcarlo in località Peidaigo, sopra i Due Camini. Degradando sulle falde delle attuali Ville, giungeva oltre il Murru Russu, dove affrontava la piana del Rio Latte, presso la foce e costeggiando la riva superava Punta Mortola.
Sempre costeggiando andava oltre l’attuale Mentone, per superare Lumone alla base il Capo Martino ed inerpicarsi verso la Turbia, da dove scendeva sulla pendici Sud-Ovest di Mont’Agello verso Cemenelum.
Con la costruzione della Via Æmilia Scauri si ebbe dunque una vera e propria strada di cornice, lungo la costa della Riviera di Ponente, che, dalla Gallia, conduceva oltre l’Appennino, verso quella Pianura padana lombarda che sarà punto d’attrazione delle future attività politiche liguri.
Com’era uso in quei tempi, anche tra le antiche popolazioni intemelie, gli spostamenti avvenivano per itinerari di crinale; giacché, allora, i percorsi di fondovalle erano sconsigliati. Il letto dei corsi d’acqua era costantemente insidiato da frane e inondazioni incontrollabili; inoltre, percorrendo i crinali si dominava il territorio e si aveva la percezione immediata di un brutto incontro, con notevoli prospettive difensive. Per lo stesso motivo ed in accurata coerenza, gli insediamenti abitativi del tempo erano posti in luoghi dominanti, sovente inaccessibili da tre lati, come dimostrano le tipologie dei “castellari” ritrovati sul nostro territorio.
Dall’Emporio Nervino si inerpicavano sulla Collasgarba e sulla collina delle attuali Mauře due importati percorsi di crinale, oggi conservati alle dipendenze della famosa “Alta Via dei Monti Liguri”, che è anch’essa il percorso di crinale che unisce Ventimiglia a Ceparana di La Spezia.3
Le due mulattiere iniziali, che li hanno contrassegnati nei secoli, si ricongiungevano in un punto dove l’esperienza ha voluto un riferimento sacrale. La chiesuola di San Giacomo ha conservato l’eredità di qualche faunus o tempietto primitivo, che da sempre avrebbe segnalato l’importante crocevia, magari con un nome di una certa importanza.4
Le masserizie sbarcate nell’Emporio marittimo iniziavano così il viaggio verso il primo, relativamente vicino, castellaro di Ciaixe, per proseguire poi su Cima d’Aurin, Tramontina, Bassa d’Abeglio, Cuřumbin, Testa d’Alpe e, quasi costantemente in crinale, raggiungere il Saccarello e poi il Pertegà, da dove era possibile raggiungere il Colle di Cornio, oggi di Tenda, per calarsi lungo i crinali del Piemonte, raggiungibili anche percorrendo i malagevoli crinali del Marguareis.5
Punti nodali di questo percorso, erano situati nei pressi del Monte Cuřumbin: in quel punto vi giungeva il crinale Grimaldi-Granmondo-Olivetta; a Passo Muratone, lo intersecava la Via Regia, dalla Valle Argentina a Saorgio; ed anche la Bassa di Sanson, presso la Collardente, che lo faceva incrociare con la variante Ovest della via Marenca quella da Triora a Briga.
In epoca preromana, era dunque quello il percorso più importante per le derrate sbarcate a Nervia, o da imbarcarvi: quando nelle comunicazioni tra crinali, dei tratti collinari vicini alla costa, era preferibile stare ben lontani dal mare. Per questo motivo, il primo percorso di congiunzioni tra differenti crinali, inerente al tragitto descritto, si dipartiva da Passo Muratone.
Su quell’importante passo prealpino ha transitato nei secoli la rilevante Via Regia che dai crinali della Valle Argentina, attraverso le pendici di Monte Vetta superava la Nervia, si inerpicava verso Muratone e attraverso i crinali attorno alla Bendola, scendeva a Saorgio, importante nodo per l’attraversamento della Roia, verso l’Authion e la Gordolasca.
Del percorso di crinale sull’altra sponda della Roia, prima che si verificasse la mutazione dell’ultimo tratto della Bevera, dallo sfociare nel Golfo di Latte a diventare l’ultimo affluente di destra della Roia, possiamo valutare il suo inerpicarsi sullo Scögliu, il Colle, il Monte fino al Colle Appio.
Dall’Appio, voltando ad Ovest, si raggiungeva il Granmondo ed i crinali verso Nizza; dall’altra parte si scendeva ad attraversare la Roia, per immettersi sul crinale di Magauda, verso il castellaro di Ciaixe e la strada per il Piemonte che abbiamo già trascorso, essendo quella che proveniva da Collasgarba.
Proseguendo sul crinale verso Nord, si raggiungeva dunque Monte Pozzo, da percorrere in crinale fino al Caglian, per poi voltare sulle pendici Ovest del Monte Maltempo, verso il crinale di Collabassa, da dove si raggiungeva il Pilone (Olivetta), sul crinale del Monte Caviglia, verso il castellaro di Piena e le dorsali del Colle del Brussu; oppure, guadata la Roia alle falde Nord della Testa di Giauma, si inerpicava sul Colletto per il valico del Fanghetto.6
Dall’Età del Ferro in poi, con l’esigenza di attraversare la Bevera dalla Maglioca al Pozzo, il cammino della draira verso il Colle di Tenda, ha subito un progressivo abbassamento di quota, nel tenere dietro all’erosione del letto torrentizio sull’emissario del Lago del Serro, sempre più ridotto e costantemente più basso di livello.
Attraversare l’emissario verso la Roia non deve esser stato un problema, durante i periodi di calma di corrente, da ottobre a marzo; giacché, da aprile a settembre, nel periodo di svolgimento per entrambe le transumanze, la pochezza delle acque avrebbe lasciato il lago in crisi di livello, con l’emissario in secca.
La lenta erosione, che ha portato la superficie del Lago dai 165 metri s.l.m. iniziali ai circa 40 metri della situazione ottocentesca, ha suggerito un susseguirsi di varianti di percorso, a quote sempre più basse, nei terreni detti “i Franchi”, con alternative anche drastiche.7
Sul versante Gavi-Maglioca: forse attorno al 700 a.C., dagli iniziali 351 m.l.m., il percorso è lentamente calato di quota fino ai 279 delle pendici di Gavi, rapportandosi ai 230 sul Pozzo. Avrebbe potuto correre l’anno 500 a.C., quando dalla quota 200 del Pozzo si preferì calare alla quota 144 della Maglioca, per voltare verso il poggio di Seglia, da dove si risaliva sull’Appio.8
Al disotto dei duecento metri di altitudine, sulle pendici Est di Pian del Pozzo, non era più conveniente risalire sul crinale del monte, anche perché le pendenze di culmine, lungo la Colla e il Pian, sono talmente scoscese che non permettono sorprese dall’alto.9
Si preferì allora percorrere le medie pendici di Cola e Cian, fino alla quota, a circa 320 metri s.l.m., di Passo dello Strafurcu, sulle scarpate Sud-Est di Monte Pozzo, nel contrafforte roccioso che cala sulle Bocche di Trucco; da dove si riguadagnano le alture sul Caglian e sul Maltempo.
Il giungere dei Consoli romani, da conquistatori, avrebbe visto in attività il Passo dello Strafurcu, sulla strada verso il Piemonte, associato alla strada Domitia, già tracciata, che dal Colle di Tenda raggiungeva la terra dei Taurini.
Della via Domitia, restano alcuni tratti sulle pendici del Colle di Tenda, presso Limonetto. Questa riprendeva l’antica viabilità di crinale della Val Roia ed attraverso il Colle di Cornio la collegava con Pedona (Borgo San Dalmazzo) Venne tracciata nel 122 a.C., dal console Gneo Domitio Enobarbo, quando ebbe battuti gli Allobrogi.
Per tutto l’Evo Antico ed i primi secoli dell’Alto Medioevo, su quel tratto, il cammino dello Strafurcu ha tenuto come riferimento la posta di Seglia e vicino al mare il bivio dei Dui Camin, sul Colle; mentre, con l’avvento della sicurezza procurata dai Conti e dal Libero Comune, il tratto iniziale della strada per lo Strafurcu, uscendo dalle case sullo Scögliu, poteva scendere fino alla Ripa di San Steva, percorrere la Maneira, guadare la Bevera a quota quaranta, poi a mezza costa raggiungere Varase da dove saliva al Passo.10
Con l’avvicinarsi del Basso Medioevo, visto lo spostamento dell’emporio nella Roia e l’edificazione di Ventimiglia sullo Scoglio, la strada dello Strafurcu ha acquisito la priorità dei percorsi verso il Piemonte, anche perché il cammino di mezzacosta che da Airole portava a Breglio e Saorgio, controllato dalla Rocca di Piena, semplificava il viaggio nel tratto medio-basso della Valle.
1) La prima citazione sull’esistenza di un percorso viario, abbastanza costiero al Mar Ligure, che attraversasse il territorio ventimigliese, è dello storico e viaggiatore greco Posidonio, vivente fino all’anno 50 a.C., nell’isola di Rodi. Questi segnalò la presenza, fin dal secondo secolo prima di Cristo, di una strada tra Piacenza e Marsiglia, che varcava l’Alpis Summa, l’odierna Turbia. La via Heraclea o Herculea conduceva dall’Italia fino ai Celtoliguri, alla Celtica ed agli Iberi. Se qualche Greco o indigeno vi passava, era sorvegliato dalle popolazioni vicine, in modo che non subisse alcun torto: infatti, questi popoli, pagavano un’ammenda per le persone a cui era recato danno. Come riporta Apollonio Rodio, anche Giasone con gli Argonauti vagava, dalle foci del Rodano, verso levante e solo con l’aiuto di Era, sarebbe riuscito a passare incolume nel bel mezzo dei mille popoli Celti e Liguri, fino all’Etruria. - … come vengono cantate fedelmente le grandissime insegne della nave Argo, oltre questo mare, presso la terra Ausonia e le isole Liguri, che sono chiamate Stecadi ? - … e le isole Liguri: presso l’ltalia vi sono tre isole, abitate da Liguri, dette anche Stoichades, o Stecadi, per la loro disposizione in fila. - Le Isole d’Hyeres. 2) Le usurate rovine della chiesuola di Santo Stefano, che ha dato il nome alla Ripa fluviale, sono da ricercarsi all’interno del voluminoso terrapieno che sostiene il deposito dei materiali edili della ditta De Villa, confinante con la Vaseria Fonte, ad un centinaio di metri in linea verso Nord-Est dall’ex Caserma Gallardi. La signora Vittoria Muratore, che abitava nella villetta sotto il ciglio della curva di via Gallardi, quando si prepara a sottopassare l’Autostrada dei Fiori, me le ha indicate nel 1957, durante una passeggiata conseguente ad una visita di cortesia che gli avevamo praticato in compagnia di sua sorella Maddalena, la mia “tata” della fanciullezza. 3) Per gli escursionisti che volessero praticare l’Alta Via dei Monti Liguri, i segnavia del percorso principale sono: banda bianca, marcata AV, tra due bande rosse; mentre i segnavia dei sentieri collaterali sono: marca bianca e rossa. 4) Ancora nel 1498, la chiesetta a cavaliere della colla Mauře era aperta al culto di San Cristoforo, che dava il nome alla medesima, intera collina. Con l’avvento del cristianesimo, San Cristoforo aveva assunto i caratteri formali di Heracle, come lui gigantesco e come lui ritratto mentre porta sulle spalle un fanciulletto divino. È infatti nota la statua greca, scolpita da Fidia, dove Hercole trasporta Heros in spalla. 5) L’alternativa verso la valle della Roia era rappresentata dalla mulattiera che dal Furquin, per il crinale Ovest di Monte Tron, porta a Libri, da dove in quota si raggiunge facilmente Breglio, importante crocevia fin dall’antichità. 6) Dal guado, dopo l’erta del Colletto, il crinale del Fasceu portava verso gli Abegli e la strada dalla Collasgarba. 7) Nella seconda metà dell’Ottocento, l’escavazione praticata della Cava Acquarone, sulle falde Sud-Ovest del Pozzo, a cominciare da quota 40, ha lasciato l’attuale situazione ambientale, che evita pericolose esondazioni della Bevera su Calvo e magari su Torri. 8) Per i terreni del Pozzo, interessati a queste varianti di transito delle greggi, si trattava, come è attualmente, di orridi incolti, mentre sul versante della Maglioca i terreni erano certo alberati e forse coltivati, tanto che le comunità d’allora decisero di renderli “franchi” alle greggi: toponimo che conservano attualmente. 9) Il toponimo di Monte Pozzo, potrebbe non aver nulla a che vedere con l’etimo significante: scavo verticale a sezione per lo più circolare, praticato nel terreno per consentire l’utilizzazione di strati acquiferi sottostanti; giacché, su tutta la sua estesa superficie non contiene alcuna significativa trivellazione idraulica. La sua formalizzazione toponimica, facilmente, fa parte di quell’esteso numero di titoli, assegnati dai cartografi sabaudi dopo l’unificazione del 1861. Sentendo nominare il monte col titolo dialettale di “pözu” nell’intento di descriverlo come: poggio - elevazione del terreno, per lo più di forme tondeggianti; che il nostro monte assolve benissimo; il funzionario savoiardo lo ha reso ufficiale, appunto, in “Pozzo”. 10) La quota dell’emissario era talmente bassa che diventava preferibile il percorso di fondovalle, anche se il cammino di Seglia era praticato ancora nell’Ottocento inoltrato. Dato riportato da testimonianze dirette. |
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Ancor oggi, una fitta rete di mulattiere e sentieri collega l’Alta Via dei Monti Liguri alle campagne di fondovalle e viceversa, anche se le numerose strade interpoderali, ricavate con quegli arditi sbancamenti possibili con l’uso dei moderni escavatori, relegano le antiche mulattiere al completo disuso ed alla conseguente sparizione.
Tra le più importanti, di queste antiche bretelle, è da considerare la mulattiera di Siestro, che dalla località Serre, dov’era la Conceria Lorenzi, porta al Santuario della Madonna delle Virtù, tanto caro ai ventimigliesi fin dal Sette-Ottocento.
Dal XIII secolo, quella mulattiera aveva sostituito il percorso introduttivo verso il crinale Collasgarba-Cuřumbin, giacché il percorso di Collasgarba era stato isolato dalle mura genovesi, costruite nel 1221.
Anche la mulattiera delle Mauře, era stata interessata da quell’isolamento, essendo, infatti, controllata dalle Portasse, che volgevano anche un occhio indiscreto alla mulattiera dei Martinazzi, che nell’Alto Medioevo serviva anche la grangia e l’antica chiesuola di San Martino, della quale oggi restano le contenute rovine.
Da allora, era tornato ad essere privilegiato il passante che dalla Medievale chiesa di San Giacomo, attraverso l’abitato di Martinazzi ed il Passo della Pia, sul culmine di Siestro, portava al Santuario della Madonna delle Virtù, nodo viario del percorso di crinale verso Ventimiglia. La Chiesa di San Giacomo, che precedentemente era dedicata a San Cristoforo, è sempre stata facilmente raggiungibile dal fondovalle della Nervia lungo il vallone di Seborrino, sul crinale da Bigauda a Monte Fontane.
Le pendici Sud-Est di Magliocca sono ancor oggi percorse da mulattiere o da strade carrabili, quelle che hanno sostituito gli antichi tragitti pedonali di collegamento verso la strada dello Strafurcu, appendice dell’antica via Domizia.
Significativa nel tempo è stata la serie di mulattiere che oggi sono state sostituite dalla carrozzabile via Sant’Anna. Traevano origine dal sito di Ripa Santo Stefano ed inerpicandosi per l’Auregnana raggiungevano il percorso di mezza costa che dal Forte San Paolo oggi è collegato con Seglia; quel percorso che nel tempo ha sostituito il camminamento di crinale che, abbiamo visto essere il debutto della strada per lo Strafurcu.
I punti di immissione con la strada di mezza costa sono stati a Nord delle Lisce e nei pressi di San Bernardo. Il punto di immissione sull’antico percorso di crinale potrebbe esser stato proprio il sito di Castel d’Appio.
Presso Albintimilium era situato un posto di dogana, dove si pagava la “quadragesima Galliarum”, per le merci ed i soggetti di passaggio.
Con la creazione della provincia delle Alpi Marittime, nel 14 a.C., fu tracciato il definitivo confine occidentale e settentrionale del Municipio di Albintimilium, il quale coincise con il tracciato naturale del bacino del Roia, quale sbocco al mare del Piemonte sud-occidentale, nei termini della entità geografica “Italia”, alla quale economicamente appartenne.
Caio Cornelio Tacito descrive nelle sue Historie, un episodio della lotta tra Otone e Vitellio, conseguente la morte di Nerone. La flotta d’Otone, navigando sbandata, metteva a saccheggio, la campagna di Ventimiglia, governata da seguaci di Vitellio; uccidendo la madre di Gneo Giulio Agricola.
Questa viveva nell’attuale piana di Latte ed era la saggia matrona intemelia Giulia Procilla, moglie di Giulio Grecino, noto per gli studi sulla vite, esperimentati sulle falde di Piemmatone.
Intorno al 90 a.C., sarebbe stata eretta una chiesa cristiana nell’Albintimilium Nervina, usando le strutture d’un tempio dedicato a Diana.
Il Discorso de rebus Italiae cita: “Alpium Intimilium magna civitas quae comprehendebat duo suburbio, et suburbium occidentale erat presens Albintimilium, in quo habitabant illi soli, qui rebus valebant militaribus. In Albintimilio erat magnum templum Dianae dirutum”. Girolamo Rossi aggiunge come questo tempio ancora si vedesse prima del 1836, quando venne distrutto nel tracciare la strada Aurelia, presso il cavalcavia, che lo tagliava in mezzo, ed era di tre belle navate, composto tutto di pietra scalpellata.
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Della cinta muraria romana, attorno alla città Nervina, conosciamo: Porta della Marina, ritrovata dal Rossi nel 1884, cui faceva capo, a sud, il cardine massimo, verso il mare. Porta Praetoria, o Porta di Provenza, sullo spigolo a monte, subito a ridosso del Teatro. Da scavi recenti la dottoressa Daniela Gandolfi, nei pressi dell’antiquarium, ha messo alla luce una porta, forse precedente alla storica via di Provenza. Ritrovava un muraglione della cinta muraria di tramontana, dove la parte superiore era stata rialzata con l’uso di grossi sassi rotondi di torrente, in una stratigrafia databile al V secolo. Questo ritrovamento ha definito la continuità nell’abitabilità della Città Nervina almeno fino a tutto il VII secolo.
L’Itinerarium maritimum, databile al IV secolo, individuava Albintimilium come semplice “plagia”, cioè una città priva di porto, dotata di una semplice spiaggia attrezzata o forse d’un approdo. La popolazione urbana era composta da chierici, da scarsi amministratori civili, da artigiani, da qualche commerciante, da contadini venuti a cercarvi riparo, cui si mescolavano soldati disoccupati e schiavi in fuga. All’interno della città i produttori avevano una collocazione del tutto secondaria; mentre scarseggiava paurosamente il personale veramente efficiente nella amministrazione politica ed economica.
I pochi mercanti che sopravvivevano e si dedicavano al traffico locale ed al commercio del denaro, avendo rinunciato agli affari a lunga distanza, erano sempre più estranei al corpo sociale, mentre venivano sempre più emarginati dai settori produttivi dell’economia.
Con questo, la città, privata della vitalità e perso l’equilibrio sociologico, non esercitava più alcuna influenza sulla campagna vicina, né era più legata ad essa. La crescente insicurezza, culminata con l’invasione gotica, indusse al declino della “Città Nervina”, favorendo lo spostamento del nucleo residenziale sul colle a ponente della foce del Fiume Roia, usata già da tempo come porto canale. Anche verso il promontorio retrostante Capo Ampelio si rivolse l’esodo, dalla Città Nervina, nel luogo di Sapergo.
Nell’anno 381, l’imperatore Teodosio intimava di chiudere i templi, di distruggere gli strumenti dell’idolatria, di abolire i privilegi dei sacerdoti e di confiscare i beni del culto a beneficio della chiesa cristiana o dell’esercito.
Sul poggio dominante la foce della Roia, pare fossero presenti due templi pagani. Un tempio dedicato a Giunone, nel luogo stesso dove sorgerà la cattedrale cristiana ed un tempio dedicato ad Apollo, sulla terrazza dove sorgerà la romanica chiesa di San Michele. Nella Città Nervina, la chiesa dedicate a Santa Maria era costruita sulla base di un antico tempio romano distrutto, forse, per editto di Teodosio.
Nella Gallia, Martino di Tours muoveva alla testa dei suoi fedeli monaci a distruggere gli idoli, i templi e gli alberi sacri della sua vasta diocesi, sostenuto da una miracolosa potenza o dalle armi materiali. L’editto di Teodosio tendeva ad abolire le feste solenni che si tenevano all’ombra degli alberi sacri, nelle campagne. Erano elencati e condannati i lumi, l’incenso, le ghirlande e le libagioni di vino, comprendendo in questa rigorosa condanna i diritti dei clan domestici e dei penati.
Nell’anno 584, un autentico diluvio sommergeva l’Italia. Tutta la penisola veniva travolta da abbondanti e continue piogge. Alluvionate certamente Verona e Roma; ma rimane memoria di come tutti i fiumi italiani avessero creato problemi alle città di pianura e di costa.
Probabilmente anche la città Nervina, già pressoché disabitata dovette essere vittima delle inondazioni provocate da Nervia e Roia. Poteva essere questo un motivo in più, per trasferire la sede cittadina sull’altura dello “Scögliu”, che rappresentava una rocca quasi inespugnabile, protetta com’era da una costa scoscesa e friabile, a Ponente, e dal corso della medesima Roia, da Levante.
Nel secolo V o nel VI dell’Era Volgare, il progressivo accumularsi del ripascimento marino, verso Collasgarba, ha steso un abbondante letto di sabbia e ghiaia sulla Albintimilium imperiale romana, in regione Nervia, cancellandola alla vista sommaria e persino dalla memoria.1
In quel periodo, la città tardo romana e neo bizantina, stava già subendo un progressivo abbandono, a favore dei siti attorno al Castrum bizantino insediato sulle ultime propaggini dello Scoglio, nei pressi del Cavu. Dal VI secolo, dunque, il costante miglioramento delle tecniche di escavazione e di idraulica hanno consentito di far funzionare quel nuovo porto canale alla foce della Roia, deviandone e costringendone la vigorosa corrente verso Levante. Si poteva certo dragare alla base dello Scoglio, fino a permettere a robuste navi di raggiungere l’ampio Lago, sottostante l’attuale chiesa di San Michele, così ben protetto.2
Allo stesso tempo il canale dragato, d’accesso al porto, funzionava da invalicabile fossato, a protezione delle mura di Levante della costruenda città, dove viveva una società ricca e straordinariamente in ripresa, che aveva saputo raggiungere un equilibrio e si era data una struttura notevolmente diversa da quella del periodo romano classico. La società e la cultura erano dominate da un’aristocrazia senatoria arricchita dall’accaparramento dei terreni. La nuova classe dirigente usciva, quasi sempre, da famiglie con forti radici locali.
Nel tardo impero, tutti i tentativi popolari di procurarsi protezione e riparazione dei torti dovevano passare attraverso un grand’uomo, un “‘patronus” che faceva sentire la propria influenza verso l’autorità centrale. Questi legami non erano affatto oppressivi. Solo una costante protezione personale e la fedeltà al grand’uomo poteva superare le immense distanze dell’impero. Una vita più locale, stava a significare che alcuni elementi della civiltà romana si erano diffusi molto lontano.
Intesi a dominare la costa del Mediterraneo occidentale, al nascere del VI secolo, i Goti di Teodorico avrebbero occupato anche Ventimiglia, presentandosi come delegati dell’Imperatore d’Oriente. Anch’essi conservarono la moneta, gli uffici di pedaggio, e tutta l’organizzazione fiscale della Provincia Maritima Italorum, in ciò aiutati dalla Chiesa, che in quel periodo stabiliva le “diocesi” quali lo furono le circoscrizioni amministrative romane, oltre alle “civitates”, ognuna delle quali ha un capoluogo ed un ampio territorio rurale attorno.
1) Le memorie si risvegliarono nel tardo Ottocento, quando gli scavi nei cantieri della ferrovia riportarono le antiche vestigia sotto gli occhi degli archeologi; mentre per gli agricoltori della zona, i casuali ritrovamenti di reperti antichi, scavando il terreno, anche per esigenze edili erano ricorrenti da tempo e procuravano interessanti introiti. 2) La situazione della città medievale intemelia, sullo Scoglio, rispecchiava la logistica dell’altra stazione marittima che si era affermata fin dall’antichità nel seno naturale di Portus Herculis Moneaci. Un emporio fortificato posto sulla cresta d’una Rocca ben difesa, che si specchiava su un attracco naturale, nel caso di Monaco, ed un porto canale ben mimetizzato, nel caso di Ventimiglia; che aveva dalla sua un ampio retroterra ed una buona percorribilità verso il Basso Piemonte. Si può notare come in entrambi i casi, la rocca a ridosso del porto si chiami “u Scögliu”. |
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Nell’anno 643 dell’Era Volgare, il longobardo Rotari metteva a ferro e fuoco Luni, Savona, Noli ed Albenga; si dice che Ventimiglia non venisse toccata, ma soltanto dieci anni dopo, le notizie paiono diverse. È stata quasi certa la distruzione di Lumone, oggi Mentone, che vide i propri abitanti riparare sui monti e fondare il paese di Sant’Agnes.
Sovente, l’invasione longobarda lasciava inalterato lo status sociale ed economico dei territori interessati alla conquista. Erano le “fares”, composte da poche famiglie di nobili longobardi, a prendere in mano il governo delle città conquistate, lasciando i compiti amministrativi ai precedenti funzionari.
Quasi certa è stata la continuità specialistica sulla gestione in materia marittima, dove i Bizantini erano maestri ed i Longobardi digiuni. Nel caso di Ventimiglia, la presenza del Porto-canale ancora funzionante alla foce del torrente Nervia, base d’appoggio della flotta bizantina, nei suoi commerci verso la Provenza; continuerà ad essere gestito dagli specialisti dell’Impero d’Oriente.
Nell’anno 653 il longobardo Rodoaldo, successo al padre Rotari, concedeva agli Intemelii di ricostruire la loro città alla foce della Nervia, mentre una fortezza longobardo-bizantina stava per essere costruita sul culmine del Cavu, a ridosso della foce roiasca, il Castrum Bintimilium, governato da un “Magister militum” e presidiato da truppe confinarie, in parte distaccate dall’esercito imperiale bizantino, formate da veterani e da soldati reclutati sul posto.
Al servizio di questa fortezza, un altro Porto-canale stava prendendo forma, nel grande Lago ai piedi dello Scoglio, poco addentro alla foce della Roia. Più protetto della vetusta attrezzatura nervina, dalla presenza del fortilizio costruito sullo sperone del promontorio, in quel periodo, serviva unicamente al traffico inerente i tronchi d’albero ed il legname proveniente dai boschi attorno a Tenda; ma quando, con la minacciosa presenza dei navigli saraceni sul nostro mare, verrà abbandonata la struttura portuale nervina e potenziato il nuovo porto roiasco, il complesso militare, marittimo dello Scögliu diventava assai importante.
Monete di Giustiniano, rinvenute nel corso degli scavi, per le fondazioni del Monastero delle Lateranensi, e dell’oratorio di San Giovanni o santa Chiara, confermerebbero la presenza di un nucleo abitato e di un foro, nella città medievale, fino dal secolo VI. Questi fatti sarebbero accaduti nel corso della seconda metà del VII secolo.
Già alla fine del secolo VIII, il porto canale del Lago rappresentava una stazione marittima di una certa importanza, sia per il traffico dei legnami della Media ed Alta Val Roia, sia per l’importazione dei generi necessari alla crescente comunità intemelia, ma soprattutto alle merci che prendevano la via del Basso Piemonte Occidentale, o ne provenivano.
I moli principali accoglievano le navi dove oggi troviamo eretti i palazzi del Borgo e la casa Sismondini, le casette lungo Corso Francia ed il garage della Riviera Trasporti; dove operano: una segheria, un autolavaggio, alcuni fabbri ed un meccanico. Dai moli si accedeva con opportuna strada in salita, attraverso la Porta del Ciousu, dentro le mura che ospitavano fondaci e magazzini ben protetti.
Anche la frequentazione dell’abitato di Sapèrgo o Sepélago, alle spalle di Capo Ampelio, quale borgo fortificato, presso il monastero benedettino, è attribuibile a questo periodo. L’attuale Seborga, allora nominata Sepulcaru, poteva assumere il ruolo di “ultima dimora” dei notabili locali.
Nella prima metà del secolo VIII, i Saraceni, operanti sovente con uno scarso numero di armati, ottenevano l’alleanza dei “pravi homines”, servi e schiavi che invocavano da tempo un trattamento più umano ai dirigenti locali. Questi, aggregati ai Saraceni, dettero inizio ad una intensa e spietata azione demolitrice contro i monasteri, i beni ecclesiastici e le proprietà curtensi.
Tutti i monasteri della zona costiera, se non furono distrutti vennero abbandonati ed i monaci portarono al sicuro i loro tesori, cercando rifugio nelle città fortificate. Genova, Asti, Torino, Marsiglia, Arles e Tolone accolsero monaci, vescovi e aristocratici fuggiaschi. I piccoli centri costieri restarono per lungo tempo in abbandono, con le campagne incolte e deserte.
Molte diocesi restarono per anni, senza vescovo, tra queste: Aix, Digne, Nizza, Senez, Antibo, Vence e Sisteron. Non seguirono questa sorte le sedi di Ventimiglia ed Albenga, anche se quest’ultima città era circondata da vaste campagne abbandonate, ridotte a fetide paludi.
Oltre che possedere il controllo del mare, da dove giungevano di sorpresa sulle coste, i Saraceni avevano posto delle guarnigioni sui percorsi di crinale più frequentati, dove controllavano i commerci e da dove partivano per rapide scorribande lungo le vallate. Avevano sotto controllo il Colle di Tenda, il passo dello Strafurcu e quello di Muratone.
Nell’anno 774, nel Regno d’Italia, creato da Carlo Magno, la Liguria Marittima fu inclusa nella Marca della Tuscia. In seno ad essa l’antico Municipium ventimigliese ebbe dignità di Comitato, essendo eretto a Contea, con giurisdizione su tutto il Bacino della Roia.
La necessità di trovare il legname adatto all’allestimento di una flotta, che da Porto Pisano potesse contrastare le navi arabe, per ora padrone del Mediterraneo, metteva in prima fila i boschi del nostro entroterra, ricchi di bellissimi larici ad alto fusto, insostituibili per realizzare i lunghi pennoni.
Culturalmente il basso medioevo veniva vissuto a Ventimiglia come in ogni altra parte d’Europa, nella più degradante insufficienza. La presenza del monastero, accertato sul capo Ampelio, avrà certamente mantenuto un lumicino di attività legata allo studio ed alle arti minori.
La presenza del vescovato, legato al latino della liturgia e della elite intellettuale, non aveva alcun rapporto con la cultura popolare. Si parlava certamente un dialetto, evoluto da un latino compromesso dalle infiltrazioni gote e longobarde, oltre a quelle franche e sassoni, dovute al vivace fenomeno dei pellegrini, che pur non intervenendo nel merito della cultura, come in quello del reddito, hanno rappresentato, per quel periodo l’unico scambio tra comunità. Fin dagli inizi del secolo successivo, spinta da decreti imperiali, la cultura riceveva un trattamento migliorativo, rispetto alla totale assenza delle scuole per i secoli, a partire dal VI.
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Nel periodo alto-medievale il porto canale che sfruttava l’ampia foce del fiume Roia era un luogo di approdo commerciale assai affollato. Il Rossi afferma che ancora nel 1887 una iscrizione su una fontana, in quartiere Lago, portava la scritta “ad comoditate navigantium” con la data del 1110.
Sempre nel l887, veniva scoperto, dopo una piena del Roia, un molo vicino alle case del Borgo Marina, sul quale erano applicati ad uso di bitte per trattenere i battelli, tre tronchi di colonne marmoree.
Il bastione di una Porta Marina, assai diversa da quella che vediamo conservata, era senz’altro una delle opere di difesa del porto.
Il braccio principale del fiume scorreva più a levante a ridosso delle rocce di Roverino, il cui nome deriva probabilmente da Rodolinum, nella valenza di piccolo braccio della Rodoia; proseguiva la sua corsa verso il mare attraversando l’attuale quartiere Convento e sfociava decisamente vicino al Nervia, l’insenatura tra il Cavo e Siestro doveva essere più pronunciata ed all’interno de lago che si formava, un secondo braccio del fiume, di minor portata vi forniva l’apporto sufficiente di acque, all’altezza della Ripa Santo Stefano, oggi Gallardi.
Quel bacino acqueo dette il nome ad un antico quartiere detto Lago. Grazie all’ampiezza della foce e all’acque profonde e continuamente dragate, nel lago si formava una specie di porto canale ben protetto sia per navi commerciali che da guerra, che era considerato una statio bene fida carinis, persino dagli annalisti e dagli uomini di governo genovesi, del XII secolo.
È comunque documentata una notevole attività marinara commerciale della città che già nel 1140 si scontrava con la potenze genovese.1
La presenza dei Saraceni al Frassineto, determinava una situazione conflittuale e di estrema insicurezza sul nostro territorio, come su tutto il Piemonte occidentale, con frequenti disastrose incursioni ai danni di città, abazie e scontri coi potentati locali. Sebbene, molti di questi, sulla base di spregiudicate valutazioni, fossero inclini a stringere alleanze e molto spesso ad affidare ai Saraceni il controllo di taluni importanti valichi.
Nel Mediterraneo, dove era scomparsa la classe dei grandi mercanti, sussistevano dei “‘negociator”‘ occasionali, che approfittavano di guerre e carestie per i loro piccoli affari. C’era soprattutto chi seguiva gli eserciti per trarne profitto e chi si avventurava lungo le frontiere per vendere armi al nemico o fare baratti coi barbari e gli stessi Saraceni.
In contrapposizione, nascevano i mercati, detti “forum hebdomadarium”, fondati ovunque per tutto l’Impero. Se ne trovava regolarmente uno ogni civitas, nei borghi, in prossimità delle abbazie. I contadini dei dintorni, vi vendevano “per denari”, al dettaglio ed erano anche importanti come luoghi d’incontro.
L’imperatore Carlo ne aveva proibito lo svolgimento di domenica. Non bisogna confonderli con le fiere annuali, che si tenevano, nei monasteri, il giorno della festa del santo. Vi affluiva la “familia”, che veniva da molto lontano, ed avevano luogo transazioni di compravendita tra i suoi membri. Quasi ovunque, la festa religiosa coincideva con la fiera, alcune delle quali divennero molto frequentate.
Dalla metà del X secolo, il territorio che sulla costa era delimitato tra Nizza ed Oneglia, tutte le Alpi Marittime, le Cozie e parte delle Graie, facevano parte della marca Arduinica, col territorio di Ivrea e verso Sud, fino al Monferrato escluso.
L’assegnazione della Contea di Ventimiglia a questa marca è confermata dalla presenza, sul territorio di Dolceacqua, dei monaci benedettini provenienti dalla casa di Novalesa, che in quel periodo, avevano ricevuto un fondo ed una chiesa in feudo.
Da Dolceacqua, si dipartiva una “Strada del Sale”, che dagli approdi di Mentone e Ventimiglia, attraverso i crinali che costeggiano la Roia, il Colle di Tenda ed i crinali prealpini del cuneese, portavano a Novalesa, a Susa, proseguendo per Ginevra.
Dopo la liberazione dai Saraceni, lungo tutta questa “Via salis” erano presenti insediamenti benedettini, legati a Lerina ed a Novalesa. Il sale trasportato proveniva dalle saline di Lerina, di Hyers e di Peccais, nella Provenza.
L’Italia settentrionale e quella centrale si trovarono saldate all’edificio imperiale da forti legami. Per la prima volta, furono deliberatamente attratte verso il centro dell’Europa; al quale guardavano anche prima, senza individuarne i nessi di collegamento e di coesione; furono costrette a volgersi verso il nord ed il nord-est, mentre la parte occidentale era attratta verso il nord-ovest.
Nel frazionamento del territorio, seguito alla disgregazione dell’Impero, si formarono principati o marchesati, abbastanza vasti, che diventeranno autentici Stati. Alla nostra storia influivano da vicino i Marchesati di Toscana e d’Ivrea. Questi si spartirono i territori secondo una sfera d’influenza omogenea, predisponendo tutto l’arco litorale della Liguria, quale zona di ulteriore confine. Ne approfitterà Genova per inserirsi nei giochi di dominio.
Nella Marca Littora, la Contea di Ventimiglia comprendeva l’intero bacino idrografico del Fiume Roia, con le fortezze dei dintorni di Sospello, La Piena, Saorgio-Malamorte, Breglio, Tenda, Briga, Baiardo. Queste erano presidiate dalle milizie della nobiltà locale, come lo era la costa, nelle fortezze di Eze, Monaco, Roccabruna, Mentone, Ventimiglia e Montenero.
Nell’anno 979, Teodolfo, vescovo di Genova, conduceva alcune famiglie d’agricoltori ad occupare i “loco et fundos Matucianos”, oggi San Remo, ed a dimorare in “loco et fundo Tabia”, oggi Taggia.
L’espansionismo genovese produceva le prime abili mosse. Sia la nobiltà genovese che quella ventimigliese prosperavano con i commerci, ma specialmente con azioni navali “corsare”. La differenza che porterà alla sopraffazione genovese, stava nella possibilità di usufruire di un porto naturalmente più efficace. Un golfo naturale, ottimamente strutturato dai genovesi, contro un porto canale, delicato nelle strutture e malamente sfruttato dai ventimigliesi.
Nell’anno 990, potrebbe aver avuto inizio la costruzione della Cattedrale romanica, sul terreno occupato precedentemente da una chiesa preromanica, edificata sulle fondamenta di una precedente bizantina o normanna, che aveva preso il posto di un tempio pagano, dedicato a Giunone.
Attorno all’anno Mille, il Capitolo ventimigliese svolgeva le Rogazioni, che si credono istituite da san Mamerto, a Vienne, verso il 470.
Queste erano processioni di popolo, che avevano mete in località campestri, dove si recitavano particolari litanie, per propiziare il raccolto. Le guidava il canonico primicerio, di estrazione popolare, indossando il piviale. Secondo il Rito Ambrosiano erano svolte in maggio. Il lunedì dopo la domenica che seguiva l’Ascensione, si imponevano le ceneri e ci si recava in processione a Santo Stefano, una chiesa situata in Ripa, sotto l’Auregnana, che cadrà in rovina nel XVI secolo. Il martedì la processione si recava a San Lazzaro, la chiesa sulla Rocca, dove nel 1505 verrà eretto il convento dell’Annunziata. Il mercoledì la meta era l’altare nella barma che si apriva, con altre cavità, al disopra dei Paschei. Nei pressi di quella grotta, dal 1194, sorgerà la chiesa di San Simeone alle Barme, nella località che dal 1222 varrà detta Bastida, o volgarmente Bastia. Dalla seconda metà del XV secolo, quest’ultima destinazione sarà sostituita con la chiesa di San Rocco, dopo Nervia, oggi in territorio di Vallecrosia.
1) Da antichi atti notarili risulta che: nel 1190, il ventimigliese Guglielmo Corrado, aveva un “bucio” col quale commerciava in Sardegna; Oberto Traversato di Ventimiglia, diede in affitto la propria nave ad Ugo Pappazella e a Guglielmo i quali pagarono Lire 14, con la promessa di fare attenzione alle navi pisane, sebbene Ventimiglia, nel 1170, avesse stipulato un patto di alleanza con i pisani stessi. Nel 1191, Pietro Genoardo, Pietro Lavorante e Guglielmo Lambrusca di Ventimiglia, commerciavano acciaio e falci, portandole a Marsiglia. Nello stesso anno: Guglielmo di Ventimiglia commerciava con Alberto di Fontana, a Ceuta. Nel 1203, Ugo Gesso di Ventimiglia commerciava con un suo bucio; mentre, nel 1206, Bovo, drappiere di Ventimiglia, trafficava in fustagni. |
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Nel XII secolo il porto canale doveva essersi notevolmente ampliato, considerando che i moli a settentrione avrebbero accolto naviglio dove oggi esiste il Magazzino officina comunale, il Camping Roma, la linea ferroviaria per la Francia, il Tennis Club, la Bocciofila, il Campo Sportivo, lo Stadio Morel ed un buon tratto dei Pratoni Galleani.
Sono molte le testimonianze di persone vissute negli Anni Trenta che affermano la presenza di un antico molo portuale corredato di bitte ed anelli, confermando come questi fossero presenti su entrambi i lati trasversali del molo.
Questo era a monte del ponte ferroviario, sulla sponda di ponente, ove oggi trovano spazio i campi di allenamento del Tennis Club Ventimiglia.1
Il Lago si sarebbe esteso dunque al centro dell’attuale alveo della Roia, dove avrebbe troneggiato perciò il terrapieno che deviando la corrente principale del fiume verso Levante, e costringendola in un opportuno canale, avrebbe fornito la forza motrice a numerose segherie che producevano legnami ad uso cantieristico navale.
Le segherie, concentrate in un luogo chiamato “Serre”, dove oggi è via Tenda ed è stata ubicata per molto tempo la Conceria Lorenzi, lavoravano ancora, a fine Ottocento,2 i legnami provenienti via fiume dai boschi di Tenda, che sarebbero stati radunati in un ulteriore lago, da situarsi davanti all’attuale cimitero comunale, fino al confine con la zona che supporta oggi i terrapieno degli svincoli Sud del casello autostradale.
Per tutto il Medioevo, la forza idraulica, sviluppata dal braccio di corrente della Roia, avrebbe dato movimento alle segherie ed ai mulini di proprietà dei Conti di Ventimiglia. Mentre i fabbricati che contenevano le segherie sarebbero stati ubicati sulla sponda sinistra del canale di corrente, addossate alle falde della collina di Siestro, non lontano dalle Gianchette; i fabbricati dei mulini invece, a causa della importanza della derrate alimentari trattate; erano situati sulla riva destra del canale di corrente, sopra l’isola permanente, chiamata “i Guréti”, al fine di essere protetti, con ponti levatoi o con “cianche” da eventuali malintenzionati.
I materiali e le derrate prodotti in Ventimiglia venivano certamente esportati, ma avrebbero potuto fornire la materia prima al locale cantiere navale ed all’arsenale, i quali avrebbero permesso ai Ventimigliesi di armare una cetea, nave dai cento remi, nel maggio dell’anno 1219, mentre i Genovesi li stavano minacciando per terra e per mare.
Reminiscenza territoriale del canale di corrente, è rimasta nel toponimo ottocentesco Gianchette; il quale deriverebbe dal cinquecentesco Chianchette, rinvenuto nel locale Archivio di Stato. L’origine etimologica potrebbe derivare da “cianca” nel significato di “sorta di riparo con grosse travi e terra usato nell’antica fortificazione od in idraulica”, lo stesso che “palancola”.3
Potrebbe trattarsi persino delle opere per la deviazione praticata dai genovesi durante l’assedio del 1221; i quali potenziarono il canale, portandolo a fornire acqua al lago d’approdo della Fondega e proseguendo fino alle Asse, per allagarle, proteggendo con il fossato la Bastida e le Cabane del Campo genovese. Ma potrebbe anche riferirsi al canale duecentesco, innalzato per imbrigliare il ramo in correntia del fiume, deviato all’altezza di Roverino onde ottenere il Lago portuale alle falde della città medievale.
L’etimo dunque prenderebbe il significato di “tavola che serve da ponte volante tra un natante e la terra”, ponendo il sito in qualità di scalo fluviale; oppure le tavole volanti servivano a praticare gli orti ricavati sulle falde della Riva sinistra, tra Siestro e le Rocche di Roverino.4
Era in uso che le famiglie in grado di costruire ed armare una galea a loro spese acquisivano il diritto di alzare una torre nel paese; privilegio che faceva passare gli arricchiti borghesi nel campo degli odiati. signori. Le torri erano le abitazioni degli “homins maiores” o “domini” ed erano elevate nel castrum, giammai nel borgo, dove rumoreggiavano e prevalevano gli uomini della Compagna.
La crisi, che colpiva tutta la piccola nobiltà europea, dovuta alla diminuzione del potere economico di nobili e cavalieri, aveva segnato la famiglia contile ventimigliese, la quale dapprima non era stata più in grado di concedere prestiti, poi consegnò una parte delle terre, a titolo di garanzia, ai monasteri, alle chiese ed ai borghesi, infine vendendo, pezzo a pezzo, le terre ricevute in eredità, anche al Comune genovese.
Per tutto il Medioevo i ventimigliesi armarono legni corsari per depredare navi commerciali di passaggio che diventavano facile preda essendo allora la navigazione quasi esclusivamente svolta sotto costa. Intanto il Libero Comune Marinaro ventimigliese si era talmente irrobustito da aver potuto prendere in pugno la difesa territoriale della Contea, con le sue sole forze; mentre la penetrazione genovese in Provenza non stava ottenendo successi, a causa del consolidamento difensivo incontrato.
Nel 1192 il conte Ottone di Ventimiglia firmava infatti una convenzione con Genova, nella quale prometteva di non armare più navi corsare.5
Ma questo non bastava all’emergente Genova, che voleva attrarre a se le attività dei ventimigliesi. Nel 1219, Genova si presentava “con tre galere e tre altri vascelli”, davanti al porto di Ventimiglia e catturava un vascello carico di frumento.
Nello stesso periodo una “cetea” ventimigliese, grossa nave con cento remi, si impadroniva, nelle vicinanze di Trapani, di due navi genovesi; e con una galea nel porto di Tunisi si impadroniva della nave genovese “Benvenuta” e se la portava verso casa, vicino alle isole di Hyeres, attaccavano un’altra nave genovese la San Leonardo.
L’anno dopo è una saettia ventimigliese che forzando l’assedio del porto canale si rifugia in Provenza, molto probabilmente per chiedere aiuto, riusciva a rientrare incolume nel porto di partenza. I genovesi constatarono quanto sarebbe stato difficile sperare di far capitolare la città assediandola, se era così facile rifornirla via mare.
1) Una di queste testimonianze la ho raccolta personalmente dall’amico campione balestriere, Antonio Parodi, classe 1932, il quale mi ha assicurato come da ragazzo si tuffasse nel profondo lago, a monte del ponte ferroviario, prendendo l’abbrivio dal molo portuale con bitte. Il fatto che le bitte fossero presenti su entrambi i lati del molo, sia su quello di mezzogiorno, sia su quello di tramontana; conduce a pensare che il bacino portuale si estendesse ancora verso il Nord. 2) Luigi Ricca, da Civezza, nel 1863 - VIAGGIO DA GENOVA A NIZZA scritto da un ligure - Firenze1871. 3) La dottoressa Marisa De Vincenti-Amalberti ha trovato il toponimo “Chianchette” in un documento cinquecentesco conservato all’Archivio di Stato, termine che deve riferirsi alla località Gianchette, quella che oggi ospita anche il nostro cimitero e che ricorda le rovine ed i lutti per l’orrendo bombardamento dell’anno 1943. È vero che il luogo, prima che venisse messo in opera il terrapieno sostenente il tracciato ottocentesco della Strada per il Piemonte, interagiva in totale sintonia col greto del fiume Roia, fino a far credere che il nome potesse definire una palificazione a sostegno degli orti, ricavati sui terreni alluvionali di braida. 4) Il significato etimologico potrebbe anche riferirsi ad un insieme armonioso delle due accezioni riunite, onde dare il senso d’uno scalo d’estuario, fortificato, al servizio della polveriera ventimigliese, vincolo che la zona ha sopportato fino all’anno 1887. 5) Nel 1201, una galea ventimigliese viene inseguita da tre navi genovesi fino in Spagna senza essere catturata. Armare una galea non era cosa da poco. La galea era infatti la nave da guerra per eccellenze ed era governata da più di centocinquanta uomini. |
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Per domare i ventimigliesi Genova aveva mobilitato persino l’imperatore Federico II, il quale aveva delegato alla bisogna Ottone del Carretto, ma non bastò.
Nel 1221, i soldati genovesi comandati da Sorleone Pepe, per organizzare un asfissiante assedio alla testarda Ventimiglia, hanno costruito la nuova città della Bastida, sulle rive del Resentello nei pressi della chiesa di San Simeone alle Barme, presente dal 1194, dove poi sorgerà il convento agostiniano.
Cintarono la Bastida con opportune mura e la munirono di seimila fanti, concedendo di potervi costruire una casa ai sempre più numerosi fuoriusciti da una Ventimiglia affamata.
Per contenere gli approvvigionamenti verso Ventimiglia, costruirono due muraglie a relativa distanza dalla città assediata. A controllo della strada di Ponente, costruirono Porta Canarda, congiungendola con opportune tratti di mura, sul terrazzo naturale a strapiombo verso il mare, al potenziato Castel d’Appio, ponendo così un occhio anche sul passo di Sant’Antonio, mentre a Levante eressero una lunga muraglia dalla Bastida al culmine del colle delle Mauře, dove impiantarono un piccolo fortilizio.
Nel tratto intermedio di quelle mura, ad un’altitudine di cinquanta metri, proprio sul bastione roccioso a precipizio sulle Asse; i Genovesi aprirono la Porta delle Mauře; mentre antistante l’attuale chiesa di San Secondo (tra gli scambi dei binari ottavo e decimo) era ancora presente, fino all’ultimo anteguerra, la Porta delle Asse, entrambe conosciute come Portasse, le quali dovevano dominare la nuova strada d’accesso alla Bastida, che era stata spostata di sana pianta sulla collina.1
Quella muraglia, era proditoriamente rivolta al controllo dei Ventimigliesi, infatti la strada per l’ispezione dell’intera fortificazione era stata costruita a Levante delle mura: Ancor oggi se ne conservano alcuni tratti.
Il tratto di mura, innalzato verso Levante, oltre a contenere la Porta delle Mauře, era a protezione del sottostante accampamento genovese, eretto ai piedi della parete dirupata, il sito del quale conservò, almeno fino agli inizi dell’Ottocento, il toponimo “Cabane”, derivatogli dalle costruzioni provvisorie per acquartierare i soldati.
Fu Lottaringo da Martinengo, che nel 1221, progettò di far scavare un canale lungo circa due chilometri, che convogliasse le acque della Roia a levante, così da rendere in secca il porto canale, che per essere reso ulteriormente inagibile, venne trovato con l’imboccatura sbarrata da un cofano pieno di ghiaia e sassi.
La zona delle Asse doveva essere stata convenientemente allagata, deviando i tratti terminali della Roia e della Nervia ad impaludarsi nell’intera superficie litoranea. L’acqua della Roia avrebbe fornito anche alimento ad un lago scavato in località Paschei, assai discosto dalla città assediata, la quale rimase priva del fossato naturale rappresentato dall’acqua della Roia, a vantaggio della Bastida che con quel nuovo canale possedeva anche un comodo attracco per le merci importate, custodite nei magazzini ricavati in ampi fondaci, presso la foce del Resentello. Quella zona ha conservato a tutt’oggi il toponimo Fondega. Il canale che alimentava l’attracco e andava poi ad allagare le Asse, costituiva il fossato protettivo della Bastida e dell’accampamento genovese eretto in “Cabane”.
La strada di accesso alla Bastida da Levante si inerpicava dunque sulla collina delle Mauře a partire dal luogo dove nell’Alto medioevo era posta la Portiola o Portiloria, una sorta di fortilizio che controllava l’accesso al territorio ventimigliese. Correva con un sentiero a mezza costa per raggiungere la Porta delle Mauře, onde poi calare con una mulattiera piuttosto appesa, all’interno delle mura genovesi, fino al corso del Resentello e la Porta delle Asse.2
1) Le Porte sulle Mura Genovesi delle Mauře, progressivamente abbandonate dopo la conquista di Ventimiglia, sono rimaste inattive da quando venne ripristinata per intero la strada litoranea, nel XV secolo. Da allora i ventimigliesi la battezzarono “e Portasse”, parafrasando lo stato di abbandono con l’epiteto dovuto all’odiato fortilizio. Anche le mura attorno alla Bastida vennero progressivamente demolite, ma non le case che alcuni ventimigliesi si erano ivi costruite; tali abitazioni formarono il nucleo iniziale del Sestiere di Sant’Agostino, detto anche Cuventu, conosciuto dall’Ottocento come u Valun. 2) Sulle Fortificazioni delle Mauře, Andrea Capano ha pubblicato su La Voce Intemelia, nell’agosto del 1977. |
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Interrato nel 1221, il porto canale ventimigliese, deve essere tornato a funzionare, ben presto, sia militarmente che attraverso la ripresa dei traffici se, già nel 1235, Ventimiglia mandava una galea per combattere a fianco dei genovesi nella conquista di Ceuta, mentre in tema commerciale si hanno precise notizie in merito.1
Il 21 settembre 1339, vi fu un così grande diluvio che devastò la città compreso il porto, …. trascinò via il ponte e tutti i mulini non lasciando nulla nei pressi.
A Nervia, non era più funzionante il fortilizio di Portiloria, dove, per tutto il Medioevo, prima i Conti e poi il Comune vi tenevano una guardia armata per la sicurezza del ponte in legno e come posto di dazio.
Il 16 dicembre 1354, la gareota “San Nicolò”, ancorata in flumine Vintimilii, appartenente anche al patronus: Giovannino Giudice di Pietro, notabile ventimigliese, era pronta a navigare contra Venetos, Cathalanos et contra quoscumque inimicos et rebelles comunis Ianue ...
Il 16 agosto 1357, alcune galee genovesi, al comando del Doge Simone Boccanegra, catturavano una galea di Monaco ancorata nel porto di Ventimiglia.
Il Lago funzionava pienamente, il 16 luglio 1357, quando il capitano Villa entrava nel porto di Ventimiglia, al falso scopo di catturare una galea di Monaco e permettendo al doge Boccanegra di risottomettere la città.
I Ventimigliesi avevano contato sulla possibilità di un riscatto nella politica dell’imperatore Federico II di Svevia. Morto costui, nel 1250, le residue speranze si sopirono definitivamente. Il Pontefice in carica, il genovese Innocenzo IV, in lotta con lui per il potere laico, si prospettò come il vincitore assoluto, sia per la questione temporale, ma molto di più per l’appoggio dato al potere emergente della sua patria genovese.
Buona politica di Genova era stata quella di costruire quanto aveva distrutto con la guerra. Ancora nei primi anni del 1300, fervevano i lavori per l’aggiunta di un tratto murario attorno al Murrudibò, come quelli di adattamento delle semidistrutte canoniche, riedificate intorno ad una specie di chiostro.
Padre Bonaventura da Bagnorea, divenuto generale dell’Ordine francescano, nel suo passaggio per il viaggio di ritorno da Parigi, dove aveva insegnato filosofia, pare abbia indicato la costruzione del convento, fuori le mura di settentrione. Sempre al Bonaventura si deve il rifacimento della porta maggiore della cattedrale, che aveva sofferto nel terremoto del 1212 e nell’assedio del 1221. Venne edificato allora l’attuale peristilio esterno, coi proventi delle elemosine richieste dal padre durante le prediche in Cattedrale.
Avrebbe lavorato ai conci del portico della Cattedrale il magister antelamus Bertramus, della guarnizione di Castel del Colle, mentre un certo Blancus de Molzano ha lavorato a Ventimiglia e a San Remo. Anche buoni pittori operavano nelle guarnigioni in quel periodo: sul primo pilastro di destra della chiesa di San Michele sono visibili una cornice fitomorfa ed i capelli di quel che poteva essere un San Cristoforo affrescato in quel tempo. La Loggia del Parlamento potrebbe essere stata costruita in quel periodo. In un documento dell’epoca veniva nominata una Porta Nova, sul versante occidentale del promontorio.
I Frati Minori Francescani si insediavano all’interno delle mura, in quella che era stata magione dell’Ordine Templare, nei pressi della porta di Francia. Dovrebbero esser sorti, intorno a questo periodo, il quartiere del Campo, e quello del Lago.
Il 12 luglio 1262, ad Aix, con un trattato, Genova si era accordava con la Provenza per la spartizione della Contea di Ventimiglia, secondo una nuova linea di confine.
La Provenza si era annessa il territorio che dalla Turbia andava ai distretti di Sospello, Molinello, in Val Bevera; Fontano, Breglio, Saorgio, Castiglione e Briga in Val Roia; Rocchetta e Pigna in Val Nervia. Genova conservava le terre di Monaco e Ventimiglia, con le sue Ville fino a la Penna, oltre a Perinaldo, Dolceacqua e Castel Doi, l’attuale Castelvittorio. Tenda e La Briga restarono in possesso dei Conti di Ventimiglia; Poipino, Mentone resteranno ai Vento, loro Signori. Ughetto Spinola riceveva Monaco, tolta ai Grimaldi, infudando Esa, Turbia e Roccabruna.2
L’alta valle della Roia veniva inglobata nella contea indipendente, retta dai conti ventimigliesi ormai malvisi in patria ed esiliati da Genova per inadempienze. La divisione politica innescava lo Scisma diocesano, con un vescovo scismatico in Sospello.
Ventimiglia, privata del suo retroterra in Val Roia, si trasformava in piazzaforte di frontiera, con un ruolo economico sempre più asfittico. I confini stabiliti ad Aix, consolidatisi negli anni, segnarono una demarcazione anche linguistica e culturale, sostanzialmente conservata fino ad oggi.
Nel 1409, il Re di Francia cedette Ventimiglia e Monaco al Conte di Provenza, rinunciando di riconquistare il governatorato genovese perduto. Fra la Provenza e Genova si accese allora una gara a chi per primo se ne sarebbe impadronito.
In uno scontro presso la Corsica i genovesi distrussero la prima squadra provenzale, mentre Ottobono Giustiniania inseguiva la seconda, che riuscì a raggiungere Monaco. Ventimiglia rimase così scoperta e il Giustiniani se ne impadronì e la mise a sacco.
Nel 1425, il Comune con la delibera:”pro faciendo plantare urmos ante ecclesiam et pro ipso aquando”, decideva di guarnire la “platea crotarum” di alcuni olmi verzeggianti, per ridare alla piazza l’antico “splendore con i tolti alberi voluti dai nostri antenati”. La “platea crotarum” si stendeva davanti al palazzo vescovile e la stessa Cattedrale. Si tratta dell’attuale piazza Cattedrale, oggi soffocata dal tremendo palazzone, dell’ex seminario, che sostituì la piazza medievale, sotto gli olmi della quale, i notai stendevano i loro rogiti.
Nel 1453, per timore di un’invasione dal Piemonte, i genovesi rendevano intransitabile la strada diretta da Ventimiglia a Breglio, costruita nel 1448, lungo la val Roia.
Nel 1476, finiva il movimento autonomista ventimigliese. Con la sua fine cominciava la lenta decadenza di Ventimiglia, resa ancora più grave da un fenomeno geologico contro il quale non avrà poi più i mezzi finanziari di lottare: l’interramento del porto-canale.
Il 26 ottobre 1499, Luigi XII, Re di Francia diventando signore di Milano e governatore di Genova, prendeva possesso di Ventimiglia e di Penna.
Il 25 febbraio 1514, Genova cedeva per cinquant’anni Ventimiglia ai Protettori delle Compere del Banco di San Giorgio.
1) Nel 1239, Pereto di Ventimiglia riceveva da Nicolò Beccoroso Lire 52 per negoziare, uniti nel commercio. Nel 1245, Baratterio di Ventimiglia nominava un procuratore per riscuotere un credito; qualche giorno dopo riceveva da Gando di Rogerio e da Bonaventura di Rollaria Lire 9, per commerciare navigando sulla saettia Fulcone. Poco dopo riceve altre Lire 9 in “panatico” da Ogerio di Sozilia, con la promessa di restituirne 18 dopo il primo guadagno, o di restituire il capitale se non guadagnerà nulla. Negli stessi anni Baratterio ricevette un mutuo di Lire 20 da Guglielmo di Bobbio, al quale promette Lire 40 dopo il primo guadagno, o il capitale restituito, navigando sulla saettia “Draconus”. Atti notarili similari ci svelano come, qualche anno più tardi, Corrado Intraversato di Ventimiglia consegnava a Pietro Marino Lire 5 “gratis et amore” per commercio, ricevendo la promessa di restituzione in Nizza o in altro luogo sicuro. Guglielmo Mano di Ventimiglia consegnava Lire 19 in “panatica” a Giovanni di Brossana alle solite condizioni. Nel 1253, Guglielmo Curlo di Ventimiglia commerciava a Tunisi. Nel 1259, Pietro di Anselmo Melagino di Ventimiglia, assieme al nobile Ottone de Giudice, parteciparono all’assedio di Damiata, durante la crociata, condotta da San Luigi, re di Francia. Riusciamo persino a scoprire come il porto fosse funzionante; per il fatto che, nel febbraio del 1260, vi sbarcava il principe spagnolo Manuelhe, figlio di Ferdinando III°, il Santo. Nel 1284, Ventimiglia partecipava alla battaglia della Meloria, con sei nocchieri, 120 balestrieri e l80 vogatori, guadagnandosi la stima dei genovesi. 2) I Grimaldi acquistarono i feudi di Villeneuve, Cagnes, Antibo, Grassa e Boglio, diventando i signori più potenti delle Alpi Marittime. |
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Nel 1508, scoppiavano disordini tra Ventimiglia e le sue Ville, particolarmente a proposito del prezzo del pesce fornito dei Bordighotti, comunità a prevalenza di pescatori.
Nel settembre del 1519, un’improvvisa alluvione del Fiume Roia, che distrusse parte del ponte, aveva condotto una tale quantità di legname sulle spiagge da poterne caricare due grosse navi.
Fin dal 1520, l’inesorabile crescita della depressione economica non trattenne la Comunità dall’affrontare la ricostruzione del ponte sulla Roia, in considerazione della pericolosità del viaggiare in nave, per la costante presenza di felucche barbaresche in agguato. Il pericolo dei turchi durerà fino al 1570, con la distruzione della flotta turca a Lepanto.
Nel 1526, il Conestabile di Borbone inviato a Genova da Carlo V, se la prendeva con Monaco sottomettendolo e con Ventimiglia distruggendone importanti settori.
Il 12 dicembre 1528, essendosi manipolata in Genova una nuova nobiltà, si vollero distribuiti in ventotto alberghi i nomi di coloro che fossero meritevoli di aspirare al governo. Tale ordinamento oligarchico si mantenne in vigore circa tre secoli. Scimmiottando quanto si andava facendo in Genova, si stabiliva, “che vi fosse somma et rigorosa separatione della nobiltà dal populo: che niuno potesse essere priore di consiglio, se non fosse ascritto all’ordine dei magnifici; che fosse vietato si popolani di abitare nella via principale detta di piazza dove abitano i soli magnifici; che il locale detto loggia fosse unicamente destinato per trattare dei negozi e per essere convegno di passatempo ai magnifici: che i magnifici ammessi al governo avessero un trono in chiesa con più gradini, e nell’entrare del vescovo essi non fossero obbligati di salutarlo che piegando leggermente il capo”.
Nel 1529, i Genovesi compirono una generale revisione delle strutture fortificate, per far fronte alle armate francesi. Le nuove mura si rivelarono utili a scoraggiare gli assalti turco-barbareschi, ma la città aveva sofferto, coinvolta nella guerra franco-spagnola. Le campagne attorno erano devastate e spoglie. Negli Annali genovesi si rileva che “la popolazione sua fu già molto maggiore di quel che è al presente ... i cittadini sono mercadanti e lavoratori”.
Nel 1545, l’insediamento abitativo veniva diviso in sestieri. Il nucleo urbano del Castello non risultava essere molto popolato, ma piuttosto sede di strutture a carattere religioso e civile. Veniva edificata l’intera Colla, dove verranno innalzati i viridari pensili, ancora oggi esistenti. Il Borgo ampliava la sua giurisdizione su gran parte del quartiere di Castello, mentre a nord di questo la nuova ripartizione urbana della Platea cresceva vertiginosamente. A Levante di questa si estendeva il Campo, comprendente la primitiva Rocchetta fortificata, mentre verso nord si sviluppava l’Oliveto, attorno alla chiesa di San Michele, fino al Murrudibò. Cinque sestieri erano dunque all’interno delle mura, ed uno, la Bastida, extra moenia. Il borgo Marina era un minuscolo agglomerato di casette attorno alla chiesetta di San Nicolò.
Eccettuati i provvedimenti per l’ordine pubblico nelle campagne e della costruzione di qualche torre per l’avvistamento contro i pirati Barbareschi, il governo genovese non dimostrava alcuna significativa attenzione per la città che in passato aveva costituito motivo di secolari contese. Lo stato di Ventimiglia in quel periodo era deprimente. Il fiume, deviato dall’incuria, non passava più sotto le mura, producendo terreni insalubri, mentre il ponte di legno che traversava la Roia era guasto. Case in rovina impedivano il transito per le strade. Il terremoto, oltre a numerose case aveva provocato gravi danni alla chiesa di san Michele, che perse totalmente la navata nord, oltre a quella sud inagibile. La popolazione era ridotta a soli seicento fuochi, tanti quanti i seicento de La Briga e di Pigna, il Comune più popoloso della Val Nervia, e Taggia per la Valle Argentina, e non molti più di Tenda che ne contava cinquecento e Sospello coi suoi settecento, mentre Triora ne contava millecento; Ceriana quattrocentosettanta, Apricale e Castelfranco trecento, Dolceacqua duecento, mentre La Penna, Isolabona, Bordighera e Monaco ne contavano appena cento; Breglio e Perinaldo duecentocinquanta, come Saorgio. La ripresa non fu immediata, ma l’avvento della Controriforma e l’inserimento della nobiltà locale nell’orbita genovese, portarono al risveglio dell’attività edilizia ed architettonica. Drammatici i problemi derivanti dal brigantaggio diffuso nelle campagne, dalla minaccia piratesca sempre incombente e dalle crescenti pressioni sabaude sul territorio.
Nel 1574, visitando l’Oratorio di San Nicolò alla Marina, il vescovo Galbiati lo trovava “in misero et deprecabile stato et mi si dice senza reddito alcuno”. L’impossibilità di vivere il mare per più di quarant’anni, a causa dei pirati Barbareschi, aveva ridotto alla fame il mondo marinaro.
Intorno al 1580, le Comunità aggregate a Ventimiglia, dovevano concorrere in misura di “una giornata per fuoco” per “volgere il fiume presso alla muraglia”. Un braccio del fiume quindi rasentava le mura della città ed era tenuto dragato evidentemente per usarlo come porto.
Nel 1601, un’eccezionale piena, ripetuta nel 1616, con inondazione del Cuventu e della Marina, interrarono nuovamente il porto, che non si riprese più nel precedente Lago. Il Comune ventimigliese, non disponendo più delle giornate di corvée lavorate dagli uomini degli Otto Luoghi per dragare i fondali, pensò di darsi un ponte in pietra, in sostituzione di quello altomedievale in legno, in questo invogliata dalla Repubblica genovese, che pensava con questo di attrarre definitivamente la città riottosa.
Le navi di sempre minor tonnellaggio presero a frequentare il “Lago” minore ricavato appena a settentrione della Porta Marina. Lo frequentarono almeno fino al 6 novembre 1794, quando vi approdava, in fuga da Nizza, il conte Lascaris Ventimiglia di Castellaro e Peille, ospitato in Ventimiglia dai fratelli Massa. La presenza dei barchi e dei leudi ancorati presso Porta Marina è mostrata anche da una famosa stampa del Settecento.
Ancora nell’anno 1874, presso il quartiere di Lago, divenuto Burgu, era presente una fontana; la quale era servita per secoli a fornire acqua potabile ai marinai che operavano nell’attivo porto canale. La fontana presentava la data del XII secolo, sovrastante la dicitura:”ad comoditatem navigantium”. Questa presenza dimostrerebbe la continuità di una navigazione più contenuta, almeno fino al XVIII secolo.
Dopo quel tempo i traffici marittimi, ancora molto vivaci, forniti da naviglio sempre più ridotto, trovavano ricovero in rada alla Marina, quando i bastimenti venivano fatti attraccare a pontili mobili, mentre venivano tratti a terra, nei momenti di inattività.
Nel 1630, la facciata della chiesa di san Michele veniva ricostruita più arretrata di una campata, permettendo l’allargamento di piazza Colletta. La città andava adeguandosi al nuovo costume culturale, con la trasformazione delle chiese secondo i dettami della controriforma e dell’abitato medievale ai moduli barocchi. La strada della nobiltà modellata sulla Via Nuova genovese, aperta a giardini, pensili ed esclusivi; la proprietà di ville nei dintorni. La loggia dei nobili, di fronte alla Cattedrale e questa inzeppata di cappelle giuspatronali. La fuga estiva, di chi poteva permetterselo, dalla malaria prodotta dall’impaludamento della Roia. La sostituzione dei ruderi dell’antico castello dei Conti con il Monastero delle Canonichesse Lateranensi, del 1668, segnerà il definitivo affermarsi del potere curiale sulla rocca di una città decaduta.
Sul piano militare, G. Vincenzo Imperiale, ispettore delle Riviere, consigliava la Repubblica, in caso di guerra, a concentrare le forze intorno a Genova, abbandonando le città rivierasche, non difendibili. Era presente una guarnigione di soldati tedeschi ed italiani.
Si doveva registrare, inoltre, il progressivo aumentare della presenza degli ordini religiosi e delle confraternite, la processione delle casacce, l’aridità culturale di qualche modesta accademia, ma anche la presenza di padre Angelico Aprosio, uno dei maggiori eruditi bibliofili dell’Italia del tempo.
Non mancavano studiosi e letterati di qualche valore, come l’altro agostiniano, padre Cotta, e si coltivavano le scienze storiche ed una nascente archeologia.
Il 20 aprile del 1686, nell’Oratorio di san Bartolomeo, a Bordighera, si creava un Parlamento di ventiquattro elementi che gestiranno la Magnifica Comunità degli Otto Luoghi, per oltre un secolo. Per la indegnità dei Magnifici filogenovesi che l’amministravano, Ventimiglia aveva perduto definitivamente le sue Ville.
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Il 6 gennaio 1709, un inusitato gelo diede la stretta alla raccolta delle olive, facendo morire una grande quantità di alberi secolari nelle nostre campagne. Le coltivazioni di limoni vennero perse quasi totalmente, con gravi danni agli alberi. Qualche marinaio perse le gambe per congelamento.
La grande e diffusa gelata aveva danneggiato le colture provenzali ancor più di quelle liguri, facendo aumentare la domanda europea ed inducendo a piantare olivi anche ad alte quote con una densità maggiore per ettaro. Intanto, a partire dall’onegliese si andava sviluppando l’attività legata alla produzione dell’olio.
Pur non disponendo di un porto, tra il 1600 e metà del 1700, Ventimiglia contava un passabile parco di naviglio di piccola stazza che serviva allo smercio dei prodotti agricoli in eccedenza e ad importare il fabbisogno dei materiali per le crescenti costruzioni. Un leudo, chiamato “Il Portiere”, espletava il servizio postale bisettimanale tra Ventimiglia, San Remo ed Oneglia; tre volte la settimana faceva rotta verso Mentone, Monaco e Villafranca. L’imbarcazione poteva anche essere noleggiata per il trasporto di consistenti quantitativi di merce. Giunta a terra la merce era scomposta o travasata in quantitativi minori, adatti ad essere trasportati a dorso di mulo o a spalle da facchini.
Nel 1736, veniva riaperto al culto l’Oratorio di San Nicolò alla Marina, con l’aggiunta del culto a San Giuseppe, patrono della Buona Morte, concedendone la gestione alla Confraternita della Misericordia, i Neri, la quale gestiva, con un pontile, un servizio pubblico di attracco per lo scarico della merce.
Sul mare, fino al XIX secolo, era raro il possesso di un’imbarcazione ad uso esclusivo e personale. Le imbarcazioni, numerose e delle più svariate fogge erano perlopiù al servizio della comunità, o del gruppo dirigente.
Per spostare mercanzie pesanti, il nostro mondo rurale si è servito da sempre del mulo e qualche volta del bue, col quale provvedeva anche all’aratura. Il cavallo, usato dagli eserciti e dalla ristretta nobiltà antica e medievale, era applicato preferibilmente sulla fascia litoranea, nei lunghi spostamenti.
Uno di siti presenti lungo tutto il Medioevo, che stava cambiando destinazione d’uso era la località Serre, confinante a Sud con le Gianchete, luogo per il quale ancora nell’Ottocento, un francescano di Civezza in viaggio lungo la Liguria aveva modo di scrivere:
“Sulle due opposte sponde (del Roia) s’ergono altri edifizi di seghe con Borre di pedali accatastati sulle rive del fiume. Questi legni pedagnuoli son qui trasportati dalle montagne dei Comuni di Tenda, Briga e Saorgio.
Ed ecco come si fa il taglio ed il trasporto. Gli alberi stanno su erte cime o in profondi valloni, donde non vi è strada per condurli. Il bracciante recide la pianta, ne rimonda il pedale, i pedali si accatastano sulle rive nel letto del torrente che dappertutto è formato dagli scoli alpestri, e che secco il più del tempo, a volte diviene pieno e rigoglioso.
Quando le piogge o il gelo l’abbiano rigonfiato, il torrente solleva que’ legni, e li trascina seco a valle, dove trovasi poi o un lago o un fiume più grosso, entro il quale sono raccolti. Ed è uno spettacolo veder migliaia e migliaia di ceppi d’alberi portati dal piano fiume, sotto la direzione d’una truppa di borrellai, che con rampi e forche li smuovono, li avviano, e li disuniscono, li spingono, li distrigano dagli scogli.
Ma non pertanto tale condotta anticipata, veggono non di rado i fusti insieme dispersi per il mare, agitato dal vento e dal mareggio che v’inducono le furiose onde del fiume. Queste borre sì bene accatastate, il cadimento delle acque che danno il moto impresso alle macchine, il girar delle ruote, il tempestar dei magli, ed il continuo rumor delle seghe accordano il loro fragore a quello delle acque cadenti. Il rapido moto, la veduta dei lavori e dei lavoranti conferiscono al paese un aspetto brioso, allegro, vivace”.
Sulle colline tra Roia e Val Nervia si distendeva l’armata imperiale protetta da una formidabile linea trincerata, in altura, coltellata da forti inespugnabili, guardati da ventottomila soldati sabaudi, da Saorgio a Collasgarba e da Colle Aprosio a Pigna e oltre.
Il 7 maggio 1744, il rettore di Bevera, in calce al registro di battesimo, annotava il transito delle truppe Gallo-ispane attraverso la Val Roia, Bevera, Varaze e La Penna, in numero di uomini 3670, altro transito di 800 uomini con bestie da soma, provenienti da Sospello, Olivetta, per il passo dello Strafurcu, diretti a Dolceacqua.
Il 16 giugno, tra la merce razziata si segnalavano: calzature, liquori, vini bianchi e neri. Con loro portano prigionieri 50 soldati francesi coi loro ufficiali. Nei casali della Bastida e della Vallata, venivano razziati 150 tra muli e cavalli, capre e pecore; alcune delle quali vengono cucinate nel corso della sosta a Collabassa.
Il 22 maggio 1797, il Direttorio parigino erigeva in Genova la Repubblica Ligure, sorella di quella francese. Ventimiglia veniva eretta a capoluogo del Distretto della Roia, una delle ventotto giurisdizioni in cui era stata divisa la Repubblica Ligure e veniva diretta dal cittadino Gaspare Saoli.
Al distretto vennero assoggettati i comuni di Penna, Bevera, Airole, Soldano, San Biagio, Bordighera, Vallebona, Vallecrosia, Borghetto e Sasso, che vantavano una popolazione di 10.401 abitanti. Ospedaletti, Coldirodi e Baiardo facevano parte del Distretto delle Palme, con capoluogo San Remo.
Nel 1 novembre del 1790, i funzionari napoleonici avevano imposto particolari diritti di pedaggio ed avevano istituito appositi registri, dove venivano minuziosamente annotate tutte le navi che caricavano o scaricavano nei vari porti italiani occupati dai francesi, neppure Ventimiglia è sfuggita al loro controlli e dal registro del 1806, risulta come, nella “rada” di Ventimiglia, siano approdati ben 426 battelli, che trasportarono: cereali, pelli, legno, zolfo e caricarono: olio, limoni, vino e pelli lavorate.
Il 5 aprile 1794, giungeva in città il generale francese Arena, che annunciava l’entrata di un corpo d’armata al comando del generale in capo Dumerbion, coadiuvato dal nizzardo Andrea Massena e da Napoleone Bonaparte, diretto ad occupare le savoiarde Oneglia e Loano. I Francesi occuparono Dolceacqua, annettendo alle Alpi Marittime i territori con Rocchetta, Isolabona, Apricale e Perinaldo, parte integrante del Marchesato Doria. Dolcecacqua era capoluogo di Cantone.
Il Direttorio del Governo ligure decretava la requisizione degli ori, degli argenti e tutte le gioie di chiese, conventi ed opere pie, per rafforzare la Tesoreria Nazionale. Vennero requisiti anche i preziosi manoscritti e gli incunaboli della Biblioteca Aprosiana, che ancor oggi sono conservati a Genova.
Nella prima metà del mese di luglio, un nuovo ordinamento riduceva a venti i ventotto distretti liguri e Ventimiglia col suo Distretto entrava a far parte della Giurisdizione delle Palme, con capoluogo San Remo.
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Con l’assegnazione del titolo di Stazione ferroviaria Internazionale, dotata degli uffici di frontiera e delle Dogane, il sobborgo di Sant’Agostino, “u Cuventu” ha partecipato ad un’inarrestabile sviluppo delle attività commerciali con conseguente crescita edilizia, che lo ha portato a diventare il Centro cittadino, fin dai primi anni del Novecento, relegando la Città Alta a sobborgo.
Questo iniziò dal 14 giugno del 1860, con la cessione di Nizza alla Francia, dove si decise il futuro ruolo di Ventimiglia, che attivò la Dogana Internazionale nel febbraio del 1871.
La strada ferrata che percorrerà tutta la Liguria costiera, è stata approvata dalla Regia Camera Sarda, in Torino, nel maggio dell’ano 1857.
Essendo il dipartimento di Nizza ancora italiano, il 25 novembre dell’anno 1859, il Segretario del Ministro Giuseppe Biancheri, ventimigliese, sottoscriveva il contratto per la costruzione della strada ferrata dal Varo alla Palmignola, cioè dal confine francese d’allora ai confini con la Toscana.
Nel 1870, veniva costruito un ponte provvisorio sul Roia, in modo di collegare la rete ferroviaria, ormai francese, alla neonata linea costiera ligure.
Il 29 novembre del 1871, alle ere 17,30, il fischio della vaporiera di servizio, mandata in prova, echeggiava nella Stazione Internazionale di Ventimiglia, acconciata alla stregua di un cantiere, dove veniva costruita una semplice, ampia baracca in legno, che verrà terminata nel marzo del 1872.
Il 14 febbraio 1872, partiva da Ventimiglia il primo convoglio ufficiale per Genova; mentre bisognerà aspettare il marzo del 1880 per dare inizio ai lavori della Stazione in muratura, che verrà inaugurata il 13 luglio del 1882, corredata della sua splendida e moderna illuminazione a gas. Nel novembre del 1883, veniva eretta un’ampia tettoia metallica a copertura dei cinque marciapiedi servizio degli otto fasci di binari della completata Stazione internazionale.
Nel settembre del 1902, veniva costruita una stazioncina di servizio nel mezzo della piana di Latte; mentre il 1° maggio del 1903 veniva inaugurata la stazione di Vallecrosia.
Nell’agosto del 1909, giungevano a termine i lavori di completamento del nuovo ponte sulla Roia, che dopo l’inserimento del doppio binario della linea francese, avvenuto nel settembre dello stesso anno, sostituirà quello provvisorio che verrà demolito nell’agosto del 1910. Il 1° maggio di quell’anno era stato inaugurato lo stesso nuovo ponte, che conteneva già tre binari, due per la Francia e quelli della costruenda linea per Cuneo.
Il 6 agosto del 1853, veniva presentato un disegno dell’arch. Maus per la realizzazione dì una ferrovia da Ventimiglia a Cuneo. Mentre il progetto proseguiva lentamente il suo iter, il 30 ottobre del 1859, giunse il veto del Ministero della Guerra, che vedeva una certa pericolosità d’invasione straniera nella presenza di una strada ferrata nelle vicinanze della frontiera.
Per pareggiare gli equilibri nel campo delle probabili invasioni, il 31 marzo del 1901, veniva proposta una variante internazionale da Cuneo a Nizza, un vecchio desiderio della Casa Savoia, di quando possedeva, ancora la Capitale della Costa Azzurra. Il 27 dicembre 1902, il Senato poneva il veto al raccordo per Nizza, per ragioni strategiche.
Nel luglio del 1884, a Nervia, uno scavo casuale metteva in luce le antiche mura che difendevano la città verso il mare, coi ruderi di Porta Marina. Ai Balzi Rossi, una lite tra lo studioso Bofils ed il collezionista Jullien postò alla distruzione uno scheletro di Cro-Magnon, reperto di scavo.
Il 13 marzo 1904, Porto Maurizio metteva in piazza l’ultima delle manifestazioni contro la linea ferroviaria in Vai Roia, infatti il 15 settembre del 1905, terminavano i lavori che portavano il primo treno di servizio alla Stazione di Bevera, su un binario provvisorio, che usava il temporaneo ponte francese.
Il 16 maggio del 1914, il primo convoglio in esercizio raggiunse Airole. Mentre bisognerà aspettare il 30 ottobre del 1928 per inaugurare ufficialmente la linea Cuneo- Nizza -Ventimiglia.
Nel 1870, non appena la carrozzabile della Val Roia raggiunse Tenda, venne istituito un servizio di diligenza, che aveva il suo terminal sulla piazza della Stazione ferroviaria. Nel luogo dove, nei giorni nostri, è situato il parcheggio delle autocorriere RT, che allora era copiosamente alberato con robusti eucaliptus, si trovava il deposito di tutte le carrozze pubbliche e quello dei carri e dei muli, per il trasporto delle cose.
L’omnibus per Tenda era costituito da una carrozza a due ruote, trainata da due cavalli, che caricava sul tetto ogni sorta di bagaglio, sia dei viaggiatori, che avviato per posta.
Negli stessi anni, un omnibus aperto su quattro ruote e trainato da due cavalli, fa ceva il servizio pubblico dalla Stazione ferroviaria al piazzale antistante Porta Nizza, attraverso la Strada traversa, oggi via Biancheri e via Verdi.
Altre diligenze avviate dalla piazza della Stazione ferroviaria, raggiungevano Pigna, toccando tutti i principali paesi della Val Nervia. Una diligenza giornaliera raggiungeva Perinaldo, passando per i prosperi villaggi della Val Verbone.
Terminata la galleria lunga 8100 metri, sotto il Colle di Tenda, il 14 febbraio 1898; travalicare il Colle tra Val Roia e Val Vermenagna diventava accessibile in tutte le stagioni.
Il 4 giugno 1899, in sostituzione della diligenza a cavalli per Tenda, si avviava dal piazzale della stazione un servizio di autocorriera per Vievola, da dove trovava una coincidenza per Limone e Cuneo. La stessa linea, con proseguimento verso Torino, è stata concessa alla SAPAV di Pinerolo. Quando venne interrotto il collegamento ferroviario in Val Roia, dopo il conflitto, nel 1945, che ha fatto servizio fino al ripristino della ferrovia.
Disponendo di una costa che, lasciando Mentone, fino a Bordighera, non presenta interessanti cale protette naturalmente, se non quelle piccolissime di Latte e di Beniamin, la marineria locale, dopo il XIII secolo, si è sempre servita della spiaggia come approdo, tradendo i legni a secco; con la dipendenza agli umori del mare.
Non si hanno documenti sulle imbarcazioni che frequentarono i nostri lidi nell’Antichità, ma basandoci sui ritrovamenti ingauni e nizzardi, possiamo azzardare una copiosa quanto qualificata flotta commerciale locale, sorretta da un’altrettanto capace flotta difensiva, per tutto il periodo Preromano, fino alla decadenza dell’Impero Bizantino.1
Anche per questo periodo alcuni documenti elaborati poi dalla fantasia di qualche romanziere, quale Salgari, hanno disegnato l’attività marinara ventimigliese come prettamente corsara, sempre a sostegno di adeguata attività brigantesca terrestre.
Infatti, fino ben oltre il tramonto dell’astro napoleonico, già in pieno Risorgimento nazionale, la percorrenza sulle nostre strade era qualificata in gran rischio. Questa era la ricorrente sensazione dei fruitori stranieri di quello che è stato il turistico “Gran Tour” europeo, i quali preferivano la nave per superare almeno il nodo della Turbia.
Nell’Ottocento, pur priva di un porto vero e proprio, ma usando l’ampia spiaggia fuori Porta Marina, l’attiva marineria locale ha intessuto ampi commerci persino con regioni relativamente lontane, quali il Meridione italiano, Calabria e Sicilia.2
Nei centri agricoli disseminati nelle Valli Roia, Nervia e Verbone, il mezzo di trasporto più diffuso e popolare è sempre stato il dorso del mulo. Montato da appositi basti attrezzati, il mulo, carico di ogni sorta di mercanzie, procedeva sicuro lungo le numerose strade interpoderali, che dal fondovalle raggiungevano i crinali delle dorsali prealpine intervallive, arrivando a servire ogni più piccolo appezzamento di terreno.
Mulattieri professionisti guidavano le lunghe teorie di muli, adatti ad ogni tipo di carico, su ogni tipo di percorso. “I muratei” erano talmente numerosi e rilevanti che fin dal Medioevo, giunsero persino a creare una importantissima Confraternita, che li raggruppava, tutelando i loro interessi ed organizzando gli scambi di lavoro.
Potenti Confraternite di mulattieri erano presenti a Tenda ed a Limone, sui due versanti del Col e di Tenda, ma altre si contavano nei più importanti centri delle nostre Valli, a Dolceacqua, a Sospello, così come a Ventimiglia e Mentone.
A Tenda, avevano eretto a loro Santo protettore Sant’Eligio, sicché ancor ai nostri giorni, nell’autunno, una delle feste popolari più sentita, in quel di Tenda, ora francese, è Sant’Eloi, che per l’occasione richiama sul sagrato della Colleggiata gli ancor numerosi muli del circondario.
A Ventimiglia, il centro organizzativo dei mulattieri trovava sede in un’osteria, situata nel Borgo, sul bivio di Vico Lago, nei pressi della ghiacciaia dei Lupi.
Il luogo era strategico, per quanti attraversato il ponte sul Roia intendessero raggiungere lo Scoglio, o proseguire lungo la Strada per la Francia, si trovavano con poca forza sui loro traini, magari a cavalli, per superare il dislivello del Cavu.
I mulattieri prestavano volentieri la loro opera, mettendo a disposizione un paio di muli, per i carichi, o da anteporre ai traini, in aiuto ai meno adatti cavalli. Anche i carrettieri ventimigliesi si ritrovavano nell’osteria del Borgo, scelta come base dai mulattieri e disponevano delle loro rimesse nei terreni ricavati nel sottostrada del Lago.
Nel 1890, veniva elevato l’argine che dalla sponda di destra del ponte carrozzabile chiudeva quello che era stato il Lago, fino al bastione delle mura cinquecentesche di tramontana, per disporvi al disopra la strada per Bevera, quella che negli anni Settanta diventerà Corso Francia.
Il greto ghiaioso, che aveva riempito il Lago, restava quindi isolato dal resto del fiume, rendendo difficile immaginare come quel sito, per più di undici secoli possa essere stato animato da un viavai continuo di battelli e grosse navi, attività che aveva fatto di Ventimiglia, per il tempo troppo breve della città eretta a Libero Comune, persino, una autorevole entità marinara.
1) L’attracco nel Porto Canale alla foce della Nervia, ha permesso una prosperosa attività marinaresca, che alcuni storiografi antichi hanno voluto espandere anche in un a diffusa attività corsara, in sostegno ad altrettanta attività brigantesca sui viandanti, per le vie di terra. Del periodo medievale, conosciamo alcuni documenti indicativi, che pongono il Porto Canale ricavato nel Lago, alla foce della Roia, tra i più importanti attracchi della costa ligure, nel tratto tra Albenga e Nizza, oltre al riparo naturale di Monaco. 2) Nel gennaio del 1885, il capitano Paolo Viale acquistava un vapore per L. 150/m., frutto di grossi guadagni sul vino. Il 10 maggio, bordeggiava sulla nostra rada il vapore Balaclava di sua proprietà, comandato dal ventimigliese Federico Aprosio. Il 12 giugno, era sulla spiaggia un secondo vapore del Viale, dal nome Chambeze. Oltre ai due vapori il Viale contava su tre legni a vela, la Silvia, l’Olga e il Giuseppe. Il Viale era un armatore ventimigliese che esercitava l’importazione dei vini dalla Sicilia, dalla Spagna e da altre regioni mediterranee. Il dottor Azaretti lo aveva conosciuto personalmente da ragazzo, quando nei primi lustri del nostro secolo, ritirato dagli affari, frequentava quasi ogni giorno la farmacia del padre. Era una persona molto colta che conosceva la storia, i monumenti e il folclore di tutti i paesi che aveva frequentato, prima come capitano di lungo corso, e poi per i suoi commerci ed il dottor Emilio aveva passato molte ore felici, ascoltando i suoi racconti. |
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Uscendo dalla porta occidentale della Città Alta, oltre le falde orientali del Monte, sottostante “Caramagnò”, è posta la località “Aurignana”, che dall’XI secolo è appartenuta alla nobile famiglia Olignani. Sul poggio che segue, situato a mezza costa sopra le località “Parmarin” e “Garian”, fondi famigliari, oggi sede di numerosa villette di lusso, è situata la località che ha preso il nome dalla chiesuola di San Bernardo.
Da San Bernardo, si sale verso Case Boi, “I Boi”, fondo appartenuto alla nobile famiglia Bono, fin dal Medioevo. Sopra Boi, per una strada tortuosa si giunge al colle d’Appio, dove sono ubicate le rovine di un castello genovese del XII secolo, erette sulla cisterna d’un forte d’epoca romana.
A Ponente di Castel d’Appio, “Castel d’Apiu”, che domina la conca delle Ville, “E Vile”, affacciata sulla piana di Latte, è sito l’abitato medievale di San Lorenzo, che è ad un trar di balestra dalla località Calandri, “I Calandri” alle origini della vallata che domina la chiesa di San Bartolomeo e l’antico abitato di Latte, sul fondovalle.
Nella ampia vallata del Rio Latte, che conduce all’abitato di Sant’Antonio, per poi scollinare in val Bevera, nei pressi della Cava Bergamasca, si trovano gli abitati di Carletti, Dormi-dormi e Bastei. Proseguendo oltre la vallata del Ruassu, si trova, la frazione di Villatella, incastonata in un inimmaginabile ambiente montano.
La piana di Latte, d’origine alluvionale, ha riempito un ampio golfo chiuso ad oriente dalla Punta della Rocca, “A Roca”, cui segue la rara spiaggia sabbiosa delle Calandre, “E Calandre” ed il piccolo promontorio scoglioso di “Murru Russu”, mentre ad occidente viene definito da Capo Mortola, sulle cui pendici, dalla rinascimentale villa dei nobili Orengo, il Sir inglese Thomas Hanbury ha messo a dimora il più famoso giardino botanico di Liguria.
Sopra il giardino è sito l’abitato de La Mortola, “A Murtura”, con la chiesa di San Mauro. Passato Latte, prima di incontrare Mortola, ci si incammina verso Belenda, dal Belvedere, per poi traversare “Canun”.
La collina della Mortola è un contrafforte del Monte Belenda, che coi suoi 540 metri d’altitudine, è una prima altura del massiccio della Longoira, interrotta dalla vallata del Rio Sorba, “Valun da Sciorba”, che va a sfociare nei pressi della punta del Cannone “Dau Canun”.
La costa verso i Balzi. Rossi, “I Baussi Russi”, è una ininterrotta serie di calette delimitate da orti promontori. scistosi, la più importante delle quali la Baia di Beniamin “Baia Begnamin”, chiusa a occidente dalla Punta Garavano.
Alle spalle di Belenda si apre la ampia ed erta vallata del Rio Sgorra, “A Sgura”, sul quale occhieggiano gli agglomerati. abitativi di: Zanin, Roberto, Sgurra, Tantei, Lercari, Casette e Cresci; fino a giungere ai Passo dei Sette Camini “Ai Sete Camin”, nodo per tutte le mulattiere dì confine. Sulla dorsale di mezzogiorno, Belenda ospita gli abitati di Moretti , Case Gina e Colla, oltre alla importante frazione di Grimaldi “E Grimaude”, appartenuta alla nobile famiglia monegasca, che conserva ancor oggi alcuni possedimenti.
Passato il massiccio roccioso dei Balzi Rossi, che contiene numerose caverne, frequentate da trogloditi, oltre la sede del Museo Archeologico, si apre un ampio piazzale, “Dau Casinò”, che oggi contiene il posto di dogana di Ponte San Ludovico. Dal piazzale si gode la splendida ed orrida veduta di Ponte San Luigi, incastonato tra le ultime irsute pendici rocciose della Longoira, verso il mare e l’ultima cascatella del Vallone del Passo, “U Sautu d’u Valun d’u Passu”.
La Longoira e un susseguirsi di rocce a serracco, con andamento longitudinale verso il nord magnetico, fino a poggiarsi contro l’importante mole del Grammondo. Fanno da. contrafforti orientali alla. Longoira, Monte Fuga e Monte Grosso, due panettoni coperti. dì macchia mediterranea.
La cresta della Longoira e costellata di cima e di passi, raggiungibili con mulattiere. Dai Balzi Rossi: Passo della Morte, Cima Giralda, Passo Paradiso, Passo San Paolo, i Colletti, Castel del Lupo, Passo del Porco; oltre Cima Longoira, che in territorio francese propone la cima di Rocca d’Ormea; dalla cima di Monte Grosso, si apre l’importante Passo del Cornà, con l’omonimo vallone che dirige, precipitoso, verso Villatella.
Dopo Passo Elsi, Cima Veglia e Passo Vacca, si erge la cuspide rocciosa di Monte Grammondo, “Granmundu”, con i suoi 1378 metri, punto più elevato del territorio comunale, attuale.
Alle falde nord-orientali del Granmondo, si appoggiano Monte Cogorda, la Cima dell’Arpetta e la Cima dei Fenug!i, che reggono l’aspra vallata della Bevera, chiusa nel canyon dell’Avaudurin.
Doppiato il Colletto, sotto Collabassa, trattenuto dal Monte Maltempo a riversarsi nella Roia, il Bevera volge a mezzogiorno, col suo letto tortuoso, verso la frazione di Torri, sul fondovalle. Da qui, la vallata si allarga, sormontata ad oriente dal massiccio di Monte Pozzo, alto 569 metri. “Munte Pussu” degrada a sud con un altopiano “Cian d’u Pussu”, che sulla sua estrema balza, “Cola de Bevera”, ha contenuto per qualche decennio, la discarica comunale.
Sul fondovalle, la Bevera bagna la frazine di Calvo, con la sua dipendenza di San Pancrazio, che nell’ultimo tratto della vallata del Cornà, precede gli abitati di Case Cardi e del Serro, verso Sant’Antonio.
Un’ampia ansa, contenuta dalle cave di pietra, sfruttate dai “Bergamaschi”, alle falde della Cima di Gavi, propaggine a nord della Maglioca, conduce il Torrente Bevera a bagnare la frazione di Bevera, già vivace nel XII secolo. Qui la Bevera si immette nell’ampio letto della Roia, che ha appena bagnato la frazione di Varase e Case Boeri, oggi sedi di fiorenti imprese, per la coltivazione di talée floricole.
L’ampio letto del Roia è oggi contenuto dal Parco Merci Ferroviario e sormontato dalla variante autostradale, al primo tratto della Strada Statale n° 20, di Val Roia e del Colle di Tenda.
Il Parco Roia è in regione “Maneira”, dominato dal poggio che contiene l’abitato di Seglia, sulle falde orientali della Magliocca. Prosegue poi l’arginatura dell’Autoporto Riviera dei Fiori e quella dello svincolo dell’ Autostrada dei Fiori, sormontate dalla verdeggiante altura dei Frati Maristi.
L’abitato ottocentesco della città moderna è stato costruito sopra una zona paludosa, creata dalla foce del Roia, “A Buca”, denominata “I Paschei” oggi sede di: Municipio, Pretura, Giardini Pubblici. Mercato dei Fiori. Teatro Comunale e molti palazzi residenziali, contenenti le Poste, le Banche e numerosi, uffici.
Tra i Paschei la Stazione Internazionale, esisteva fin dal medioevo, l’abitato attorno al Convento Agostiniano, “U Cuventu”, che nella parte antica era denominato “A Bastida” ed era a cavallo dell’altura detta “U Valun”, dove corre degradando il Rio Resentello, “Valun de san Segundu”.
Dal Vallone, verso oriente, si apre l’ampia campagna sabbiosa, denominata “E Asse”, oggi completamente edificata. Prima di incontrare “Via Regina”, oggi via Dante, che divide le Asse in due, troviamo l’ex GIL, oggi palestra coperta, le Scuole Elementari ed il Centro Studi. Dopo “via Regina”, le Asse sono ancora in fermento edilizio, fino al Rio delle Vacche, che divide la zona. delle Logge e crea il confine con la zona di Nervia.
Questa zona, coricata sulle vestigia romane della “Città Nervina”, è stata una produttiva zona agricola, per la prima. metà del Novecento, poi è diventata un’ampia area di residenze abitative d’abusivismo, che ha snaturato il paesaggio, l’archeologia e persino la destinazione d’uso urbanistico.
Da Nervia, traversato il Cavalcavia ferroviario, ci si inerpica per “Colasgarba”, da dove attraverso Case Gantini e Case Cane, sulle Maure, si giunge a San Giacomo, in territorio di Camporosso, lungo i primi passi dell’escursionistica “Alta Via dei Monti Liguri”.
Da San Giacomo si scende verso la vallicella del Resentello, che nascendo da Monte Fontane, divide le alture di Monte Carbone, le quali presentano la loro faccia a Ponente, a dirupo sulla Val Roia, in una decorativa parete tufacea e di puddinga, orrendamente scavata da grotte ed anfratti, “E Roche de Ruverin”.
Da sopra le Gianchette, le Rocche tendono ad ammorbidirsi in una verde collina, comunque dirupa, sovrastata dal santuario seicentesco della “Madona d’ê Vertü”, dal quale degrada il bucolico Siestro, ora soffocato da enormi moderni condomini, a mezza costa, anche difficili da raggiungere.
La sponda sinistra del Roia territorio comunale, sui.le alture più basse, sotto il profilo precipitante delle Rocche. Dopo Roverino, verso nord, troviamo la Verandona e la vecchia Statale 20, con gli innesti del nuovo ponte per Bevera.
Passato Rio Fogliaré si incontrano, verso l’argine i nuovi insediamenti produttivi artigiani e si intuisce il passaggio per il vecchio ponte in ferro, da Bevera. La regione è chiamata Porre, “E Pore”, sita alle falde del Vallone dei Lodi. Qui termina per ora, la variante autostradale della S.S. 20, con un semplice ponte. In un futuro non ancora definito, questo ponte dovrebbe costituire il collegamento terminale della famosa Aurelia Bis.
Dopo le Porre, la curva del Sardo, delimita il nuovo centro abitato di “Tremola”, un nugolo di villette unifamigliari. Poi una ampia ansa della Roia, davanti a Varase, conduce alla frazione di Trucco, da dove si può raggiungere l’abitato di Verrandi, “I Verandi”, fondo appartenuto ad una nobile famiglia dolceacquina, esule nel XIV secolo.
Dominano Trucco le alture di Cima d’Aurin, la Colla e Cima Tramontina, verso le valli Nervia e Barbaira, sopra Dolceacqua, ultime propaggini a nord dell’attuale territorio comunale, prima di Airole, colonia quattrocentesca, e La Piena, “La Penna” antico avamposto comunale medievale, ora francese.
Per proteggere la costa dalle frequenti e gonfie mareggiate, negli anni Trenta venivano costruiti alcuni brevi moli frangiflutto, del tipo a pennello di massi, da riva, nei pressi della foce Roia e di via Dante. Ma l’edificazione di molti caseggiati confinanti coi lungomare, avvenuta, negli anni cinquanta, ha costretto al potenziamento di tali moli ed alla costruzioni di altri intermedi.
Nei primi armi Settanta, il continuo dispascimento delle spiagge, provocato dalle traversie di ponente, ha stimolato la costruzione di isole frangiflutti, trasversali alla costa, davanti alle Asse. Questo sistema ha ripasciato le spiagge di Levante, creando vasti spiazzi per bagnanti e deposito di barche, senza sminuire la balneabilità.
A Ponente della Roia, lo stesso problema è stato risolto, negli anni ottanta, con la costruzione di pennelli da terra, intercalati da isole a fior d’acqua, che non impediscono un’ottima balneazione, proteggendo decisamente la costa.
Alcuni interventi di questo tipo sulla spiaggia delle Calandre, oltre il promontorio della Rocca, verso Latte, non hanno impedito la sparizione, quasi totale, dell’ottima sabbia dorata, che costituiva un’attrazione unica, per la nostra zona.
A protezione della navigazione sotto costa dalle improvvise traversie, negli anni Settanta si è data mano alla edificazione di una diga foranea il località Scoglietti, rimasta però in abbandono.
Il 1°gennaio dell’anno 1902, si inaugurava la tranvia da Ventimiglia a Bordighera. Il 5 maggio del 1906, veniva presentato un progetto per allungare la tranvia verso Taggia. Questo disegno, che in seguito prevedeva dall’altra parte il raggiungimento di Mentone, non venne mai reso operativo; ma servì nel dopoguerra del ‘46 a mettere in atto la filovia Ventimiglia-Sanremo-Taggia, che tanto ha fatto per facilitare i trasporti in questo estremo Ponente ligure.
La filovia, mezzo di trasporto pubblico poco inquinante, quindi apprezzabile dagli abitanti dei convulsi centri rivieraschi, ha trovato difficoltà politiche e burocratiche al termine degli anni Ottanta, quando gli veniva preferito il servizio di autobus, con la scusa di una interruzione di rete aerea, sul nuovo ponte del Roia.
Fortunatamente l’empasse è stato superato ed i nuovi filobus hanno ripreso a percorrere la linea da Taggia, per San Remo ed alla nostra piazza Costituente. Sebbene ad ogni minimo contrattempo vengano messi in movimento dal motore a scoppio d’emergenza, del quale sono dotati, o gli vengano preferite le vetture col motore a gasolio.
Nel frattempo, la Riviera Trasporti, che ha rilevato la licenza a suo tempo concessa alla STEL, azienda collegata FIAT, per la filovia da San Remo, ha provveduto a rinnovare la concessione ed a ripristinare il materiale tecnico.
Il servizio di autocorriere sulla litoranea Ventimiglia-Genova, negli anni Trenta, veniva con alla ditta genovese SATI, che si occupava anche, con maggiori frequenze, dei tratti provinciali sul a medesima linea.
Negli anni Sessanta, i trasporti pubblici su gomma vennero assunti dall’Amministrazione Provinciale, che all’uopo ha creato la Società Trasporti Pubblici - STP, rilevando ogni concessione sul suo territorio, dalla SATI alla STEL ed alla ditta Ferrua, in Valle Argentina.
Alla fine degli anni Ottanta, la stessa STP, in difficoltà di gestione, venne trasformata in Riviera Trasporti, accogliendo nella conduzione le Amministrazioni dei Comuni più impor tanti della Provincia.
Negli anni Trenta, alcuni privati ottennero concessioni per i trasporti lungo le vallate limitrofe. La ditta Guglielmi & Squarciafichi percorreva la Val Roia ed il ponente ventimigliese. La ditta Allavena & Ferrero gestiva i percorsi per la popolosa Val Nervia e la Val Verbone.
Anche queste concessioni vennero assunte dalla STP, che aggiunse all’incarico anche i servizi urbani di Bordighera e Ventimiglia. A Bordighera, il servizio urbano è entrato in vigore negli anni. Sessanta, mentre a Ventimiglia si dovette attendere il 1987.
Il servizio di Noleggio con autista, per comitive turistiche, è venuto a concretizzarsi massicciamente nei primi anni Sessanta. In precedenza, sia la SATI che la STEL concedevano mezzi a noleggio, così pure la STP, poi RT, continuò ad essere presente sul mercato; ma molti padroncini occupavano fette di mercato. Nel dianese sono organizzatissime due o tre ditte private, a San Remo operante due e tre padroncini, mentre nel ventimigliese, nel tempo, si sono susseguite le ditte: Guglielmi e Floreana, o quant’altre.
Sbucando da due gallerie ricavate nella collina di Siestro, l’Autostrada dei Fiori, la A-10 attraversa la Roia su un lungo ponte, per immettersi su un voluminoso terrapieno, in regione Santo Stefano, contenente lo svincolo per Ventimiglia, la barriera per il pedaggio ed i fabbricati per la Dogana, per poi introdursi in due gallerie.
Le due gallerie fuoriescono in val Latte su un altissimo viadotto, questo appoggia sulla Magliocca, in località Canun, fa proseguire l’Autostrada, verso la Francia in doppi tunnel ed un doppio viadotto, sul Vallone del Passo.
A traversare il terrapieno dell’Autostrada, sul lato di Ponente, sono i binari della linea per Tenda e Cuneo, oltre al nuovo binario che porta al Parco Roia, dopo aver traversato il ponte delle “Gianchette” ed esser giunto dalla Francia attraverso una nuova, galleria, che dalle Calandre giunge in zona Peglia, sotto la Caserma Gallardi.
In Peglia, le Ferrovie hanno eretto una nuova Sottostazione elettrica, per dare energia al Parco e questa viene alimentata da un trasformatore dell’ENEL ubicato in Roverino, nei pressi dell’innesto autostradale sulla S.S. 20. La nuova Sottostazione FS ha sostituito quella ubicata a Nervia.
Per superare il passaggio a livello ferroviario in zona Gianchette, dall’innesto, in zona “Veranduna”, per giungere al capoluogo, la Statale 20 è avviata ora su una variante costruita sopra due lunghi viadotti collegati, che evitano l’abitato di Roverino, prima frazione ed oggi periferia produttiva.
Traversato il ponte alle Gianchette, vasta zona abitata, che contiene anche il Camposanto; la Ferrovia, mantenendosi ad una quota di circa quindici metri dal livello del mare, corre lungo le ultime falde dirute del Colle di Siestro, “Sciestru”, dove trova, spazio la Stazione Internazionale, e lo strapiombo delle Maure, “E Maule”, che incombe sul vecchio Parco Merci.
Proseguendo verso Genova, i binari coprono una vasta area archeologica, sulla Città Romana. Voltano verso mezzogiorno, dopo l’area dell’anfiteatro, per immetersi nell’area umida del Torrente Nervia, dove ha sede, forse per poco, il deposito locomotori. La linea principale, invece, corre sul ponte di Nervia, per entrare in Camporosso Mare.
Nel nostro piccolo territorio, gli Anni Cinquanta sono stati testimoni di questo sconquasso, senza che si facesse quasi nulla per impedirlo. Nell’immediato dopoguerra, qualcuno ha deciso di potenziare le fognature, costruendone delle nuove per settori della città che ancora non le avessero. Lo fece, perché il vivere civile non ne poteva fare a meno, ed ha pensato bene di farle defluire in mare, con la scusante: “tanto il mare è così grande !”.
Nel frattempo, qualcun altro inventava le lavatrici automatiche, ma quel che è peggio, le dotava di “detersivi tensioattivi”. Quando, sia delle lavatrici, che dei detersivi, nessuno avrebbe più fatto a meno, procurando la prosperità di molte note ditte industriali, ci si è accorti che la combinazione era altamente inquinante e soprattutto non controllabile.
Gli anni cinquanta, sono stati gli ultimi a vedere in uso “e barì”, barilotti bislunghi, che non hanno mai contenuto vino, ma sono stati toccasana per l’antinquinamento. Ancora per qualche anno, nei dopoguerra, si sono svuotati i residui pozzi neri e la “merce” veniva venduta e distribuita per la concimazione degli orti della cintura cittadina, con meritoria efficacia. Gli addetti a questo servizio, veri esperti, arrivavano ad assaggiare il prodotto, per valorizzarlo a seconda dell’acidità ritrovatavi.
Ma l’era industriale, insieme alle fognature ha saputo inventare anche i “fertilizzanti di sintesi”, per sbarazzarsi delle “bari”, in modo che le nuove generazioni non le trovassero e non ponessero fastidiose domande.
Nel dopoguerra, le fognature sfociavano con la Roia, per la città alta e venivano convogliate al mare, nei pressi di via Chiappori, per la città bassa. Con la crescita demografica ed urbanistica del Cuventu, diffusasi principalmente nelle Asse, nuove fogne uscirono da via Dante ed a Nervia.
Negli anni Sessanta vennero creati collettori fognari che unificavano il versamento a mare su via Chiappori, anche se molte tubature abusive continuavano a versare, nel fiume ed in diversi siti marini.
Negli anni Settanta venne installato un primo tritatore, posto in via Oberdan, di fronte al Miramare. Venne poi spostato in via Trento Trieste, poco oltre il Dispensario, per trovare spazio, alla fine degli anni Ottanta, a Nervia, nei pressi della zona residenziale, a dire il vero inizialmente abusiva.
Nei primi anni Novanta, la ditta Sabazia prese l’appalto per dotare di fognature alcune frazioni e rivedere la rete cittadina. Lavorò talmente male, che le fogne divennero un problema, anche amministrativo. In molti punti della città, interi condomini non vennero allacciate alla rete fognaria, con conseguente dispersione dei liquami nella falda acquifera.
Intanto quello che doveva essere il depuratore, a Nervia, non lavorava mai a pieno regime, a causa del rumore, della puzza e dei costi proibitivi, sicché le immissioni in mare, fornite dalla condotta verso il largo, risultavano quanto mai inquinanti. Vallecrosia e Camporosso si erano dotate di un depuratore abbastanza efficiente. Anche Bordighera, nel 1993, metteva in moto il decente depuratore, sito sulla battigia, presso Rio Borghetto. Mentone ne era dotato fin dagli anni Ottanta.
All’inizio del 2012, lo smaltimento fognario di Ventimiglia appare continuativamente decente. Le numerose frazioni del Ponente comunale sono state allacciate al più capace depuratore di Nervia, che ha sostituito quello inefficiente delle Asse, da più d’un decennio; usando una appropriata stazione di sollevamento dei liquami, posizionata alla foce del Vallone Latte, proprio nel 2011. I lavori per la costruzione del bacino portuale “Cala del Forte”, agli Scoglietti, proseguono con appropriata continuità, lasciando sperare in una prossima definizione. La congiuntura mondiale ha fermato l’acquisto delle seconde case, ponendo la potente lobby locale dei costruttori nelle condizioni di soffermare i lavori edili, che rischiano di compromettere il territorio, la cui vocazione potrebbe essere turistico culturale, ancora abbordabile, contrariamente al resto della Riviera, dove ormai è compromessa. Le inadempienze verso il verde pubblico riservate quasi costantemente dalle Amministrazioni elette a cominciare dagli Anni Settanta, al concludersi del primo decennio del Secolo hanno portato la città a subire un’ecatombe di palme e pini, spogliando giardini e strade della sensata ombra realizzata nell’Ottocento. |
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