ALLEVAMENTO OVINO-CAPRINO
Fin dalla più remota antichità, sul territorio intemelio veniva
praticato l’allevamento ovino e caprino. Era molto fiorente nel XIII
secolo, come è documentato dai solerti notai. Le greggi hanno, da
sempre, praticata la transumanza, anche limitata nelle distanze
percorse. Nel corso della stagione fredda, i pastori svernavano in
vicinanze, della costa marina, dove, una o due volte nella stagione,
conducevano le Pecore spiaggia per bagnarle e per aumentare
l’assimilazione dello iodio.
Le zampe, ammaccate da lunghi periodi. di pastura su terreni rocciosi
trovavano grande sollievo dall’azione dell’acqua salata.
Tra i punti d’appoggio della transumanza al mare sono stati, per secoli,
anche i villaggi posti alle immediate spalle di Mentone. Persino la zona
dei Mulini monegaschi era meta delle greggi di Val Roia e dell’Alta Val
Bevera.
Inoltre, i Ciotti, sopra
La Mortola; con Sealza, Sant’Antonio e Villatella, nella Valle di Latte;
San Lorenzo e Seglia, sopra Bevera, erano punti di sverno delle greggi.
Ciaixe e Sant’Andrea, per Camporosso; Perinaldo e Saldano, in Val
Verbone; con Sasso e Seborga, sopra Bordighera, hanno secolarmente
ospitato la transumanza ovina invernale. Succedeva che i proprietari. di
gerbidi o di prati concedevano il pascolo ed il pernottamento alle
greggi, al fine di stercurà, ovvero provvedere alla concimazione
del terreno.
Le greggi composti interamente da Capre, più difficoltosi da gestire,
praticavano in maniera ridotta la transumanza, preferendo cambiare
pascolo in zone più circoscritte, anche se più impervie. Attorno a
Castellaro, Monti e Castiglione; a Dolceacqua, a Rocchetta, a
Castelvittorio e ad Apricale, le capre trovavano il foraggio per tutto
l’anno, tra la disperazione degli agricoltori.
Tra i nostri pastori, a féa è la principale componente del
gregge, un certo numero di fée vengono fecondate da u mutùn,
provocando la nascita de l’agnélu. Il risultato di macellazione
della féa diventa carne de pégura.
La Capra sprovvista di corna è detta mùta; quella di due anni,
eccellente per la cottura coi fagioli, si dice a bima. Il maschio
de a cràva è u bécu, genitore de u cravéu.
L’ALLEVAMENTO BOVINO
A differenza della béstia menüa o da cortile, i bovini e gli
equini venivano chiamate in generale bèstie gròsse. L’allevamento
bovino non ha maturato grandi tradizioni nel Ponente ligure. Salvo casi
particolarissimi, si trattava d’un massimo di due o tre capi, mantenuti
per soddisfare il fabbisogno di. latte del “clan” famigliare.
A Pigna, era il gardian dèr munte a raccogliere i bovini di tanti
particulà, per condurli al pascolo estivo, definito màrga
o margharìa.
I “cognomi” duecenteschi delle famiglie: Bovetus e Vache stanno ad
indicare un fiorente commercio di bovini, nella Carreria de Merçarie, il
nostro mercato medievale, rivelatoci dall’Amandolasio, attraverso la
Balletto.
Nel Settecento, Giovanni Ruffini, dal suo “Dottor Antonio” ci presenta
la misura della ridotta presenza bovina, quando si trattò di trovare il
burro, per la colazione all’inglese dì Miss Davenne.
Nel periodo tra le due guerre mondiali e fino agli anni Cinquanta, prima
alcuni allevatori tendaschi, eppoi i Fantino vacài piemontesi,
provenienti, dal Basso Cuneese, avevano organizzato l’allevamento
stanziale di vacche lattifere. Questa attività aveva soddisfatto una
crescente richiesta di latte, da parte del consumatore cittadino, prima
evoluta attraverso la consegna porta a porta, trasformata poi in appropriate
latterie. Nell'ultimo dopoguerra, la massima parte
dell'approvvigionamento carneo bovino era soddisfatto dai contatti col
mercato di Cuneo, da parte di imprenditori coi caratteri di quello che
potrebbe essere definito "u maixelà", operatore
artigiano-commerciale del settore.
La numerosa presenza. di Buoi, era invece dettata dall’esigenza di
possedere gli animali per l’aratura. U bö, il bue, più mansueto e
docile, era l’ideale per l’aratura di terreni ricavati su “fasce”, anche
scoscese.
Gli innumerevoli graffiti di figure cornute, dette Tori ma anche di
Animali con corna e di Aratri, tra le incisioni rupestri, nella Valle
delle Meraviglie, danno il senso dell’antichità e della diffusione del
bue da lavoro, sul nostro territorio.
EQUINI
L’allevamento equino non ha mai trovato in questa zona un deciso
inserimento. La richiesta di cavalli, quali bestie da sella, sia
nell’antichità, che nel Medioevo, era sostenuta dalla sparuta nobiltà
locale e dalle rare Stazioni di Posta, lungo la via Emilia Scauri, poi
Iulia Augusta ed ultimamente conosciuta come Via Aurelia.
Il solito notaio del Duecento, nei suoi atti, differenzia nettamente la
qualità di “destriero”, da quella del “ronzino”., Perché più adattabile,
a müra ha trovato invece una diffusione capillare, nel tessuto
della componente agricola ponentina.
Il Mulo, usato come animale da soma, era molto adatto alle erte e
strette mulattiere, unica via possibile per raggiungere la maggior parte
delle campagne, fino agli anni Cinquanta, di questo secolo. Dal nome
dato al carico della Mula, a soumà, l’animale stesso veniva
chiamato anche a sòuma.
L’asino, presente fin dall’Antichità, nel corso del XVI secolo, dovrebbe
esser stato diffuso assai capillarmente sul nostro territorio, infatti
veniva usato principalmente per girare attorno ai pozzi, onde cavarne
l’acqua. Desta interesse il termine col quale veniva indicato il
meccanismo elevatore dell’acqua dai pozzi locali; era detto zìru a
sànghe, proprio perché azionato dall’umile àse.
Nei giorni nostri, la passione per le passeggiate a cavallo, lungo le
piste del nostro entroterra, fino alle mitiche tappe dell’Alta Via dei
Monti Liguri, ha ricreato vivacità nell’allevamento ippico ed un
crescente indotto.
Fin dall’Antichità, la nostra
comunità ha consumato ogni sorta di carne equina, sia tratta da animali
colti da incidente, che da equini appositamente selezionati. Ancor oggi,
esistono macellerie equine, che propongono gustose e selezionate carni
di cavallo e perfino di puledro, a prezzi veramente popolari. Le carni
equine, salutari e terapeutiche, per le grandi quantità di ferro che
contengono, sono dotate di un particolare gusto dolciastro, poco gradito
alla gran parte della popolazione.
ALTRI ANIMALI DA CORTILE
Il Maiale, detto u pòrcu, non ha mai attivato grandi allevamenti,
sul territorio ponentino, avversati dal clima, che non permette la
perfetta, lunga conservazione delle carni suine, neppure se
opportunamente insaccate. Un discorso a parte si può fare per la
salsiccia, da consumarsi fresca, che nel secolo scorso. veniva prodotta
in Ceriana ed era divenuta famosa.
Nel Medioevo, una mandria con
più di sei porci, allevata allo stato brado, veniva chiamata
“porcaratus” mentre ne era vietato l’allevamento nell’abitato, a meno
che il Maiale non stesse sempre chiuso in una stalla, o venisse
accecato.
Sempre in quegli anni, un Maiale pubblico, detto u purchétu de Sant’Antòniu’
vagava indisturbato per vicoli e chintagne, alimentato dai miseri avanzi
di tutta la città. Veniva macellato per organizzare un pranzo ai più
poveri, nella giornata dedicata alla celebrazione del Santo, Uno di
questi purcheti scorazzava liberamente per le vie di Nizza,
ancora nel 1673, come ci annunciano gli Statuti di quella città,
riportati dal Glossario del Rossi.
Oche, Anatre, da noi dette e pàpure ed animali da corsile, in
genero , non sono mai mancati, come i conigli, che fin dal tempo della
conquista romana, facevano parte del menù intemelio. A gaglina,
specie se vecchia, fa buono il brodo, ma il pollo giovane u pulàstru,
non mancava sulla mensa benestante, dove a fine d’anno compariva anche
u capùn.
Fin dall’antichità,
subito dopo le guerre persiane, attorno al 350 a.C. , proveniente
dall’Asia, attraverso la Grecia, vennero introdotti il Gallo e la
duttile Gallina, mentre attraverso gli egiziani ed i. romani giunse la
gallina Faraona, che nel Medioevo era conosciuta come “frixona”.
U bebìn e a bebìna,
ovvero il Tacchino è giunto tra noi a Cinquecento inoltrato, non avendo
potuto mai integrarsi in allevamenti grandiosi. Un tacchino o due
rappresentavano sovente l’alternativa alla gallina, però molto
impegnativa e limitata ad un numero esiguo di famiglie.
Dall’anno 1976, insieme ad alcuni nobilissimi Cigni, messi a dimora
nelle zone umide, alla foce del Nervia e del Roia, in onore del mitico
re dei Liguri, Cicnus sono state immesse numerose anatre domestiche,
dette volgarmente papure, un tempo rigorosamente presenti nel
menù intemelio.
Nello svilupparsi della civiltà contadina, qualche Anatra domestica e
alcuni branchi di Oche erano presenti in ogni villaggio del nostro
entroterra, in simbiosi con i gaglinài ed importanti
curumbaire. Anche u pixùn, il Piccione selvatico è stato
parte della nostra dieta.
LE COLOMBAIE
Quasi sempre, le colombaie venivano impiantate sulla sommità delle torri
agricole, presenti nelle campagne del circondario. Di questi torrioni
esistono ancora importanti monumenti: in Siestro, a mezza costa, la
cosiddetta Torre Ruffini; più sotto tra Santa Marta e la ferrovia, una
ancora integra, è stata restaurata ed immersa in un bel boschetto di
pini.
Un’altra è ritrovabile proprio davanti al convento agostiniano, anche se
è stata completamente intonacata e racchiusa da altre costruzioni.
Voltando l’angolo di via Mazzini, in un corridoio fra le case, quello
che un tempo è stato un ampio cortile, si nota lo sporgere di un’antica
slanciata torre agricola, appunto, oggi adibita. ad abitazione.
Si tratta di torri colombaie del XIII secolo, erette in quelli che
furono i possedimenti. del Convento agostiniano, adibiti ad orto ed
altre colture, tra i Paschei e Siestro, fino a Nervia.
Queste costruzioni, oltre a tramandarci l’uso di quei primitivi “silos”
per la conservazione di certe derrate vegetali, ci segnalano appunto la
pratica dell’allevamento dei piccioni.
Sulla sommità di queste costruzioni, crescevano intime coppie di colombi
domestici, atte a produrre gustosi curumboti, da mettere in
pentola quando le loro penne alari erano ancora i morbidi canunèti;
infatti, l’uso gastronomico de u curùmbu duméstegu è
condizionato al prelevamento in nido, quando è ancora novello.
Successivamente le sue carni diventano troppo asciutte e toste, tanto da
non venire considerate dai buongustai. Erano invece molto apprezzate le
carni dei colombi e dei piccioni anche anziani, durante l’ultimo
conflitto mondiale, quando hanno subito una caccia quasi indiscriminata.
Gli stormi di colombi semidomestici si sono però ripresi benissimo ed
oggi occupano i nostri tetti e le nostre piazze, portando persino
fastidiosi contrattempi, anche nocivi alla salute, cosicché siamo
costretti a controllarne chimicamente la diffusione indiscriminata.
La cucina intemelia è stata assai parca nell'uso delle carni, in specie di quelle bovine, ma la presenza di un esteso allevamento ovino e di un cospicuo parco equino, hanno largamente sopperito alla bisogna, aiutate anche da un limitato cospetto suino e da cortili e stagi pieni di polli, conigli e colombi. La cacciagione è stata praticata nei limiti delle regole che sono state in vigore, nei vari periodi, mai omogenee.
Prima che venisse
addomesticato l’ariete e la carne o i prodotti delle greggi
fossero disponibili per la gran parte dell’anno, erano gli
uccelli acquatici a fornire il maggior apporto di proteine
carnee alla mensa umana.
Nel nostro caso, i segni dell’affermarsi per l’allevamento e la
progressiva diminuzione della caccia e della raccolta, come
primarie attività di approvvigionamento, sarebbero da ascrivere
all’Età del Ferro.
Fin dall’Antichità, il potentato sì è riservato il monopolio
della cacciagione, prima nelle vesti della nobiltà locale, poi
della famiglia contile ed infine con le famiglie borghesi
emergenti, continuativamente fino al XV secolo. Si è poi
stabilito un periodo, caratterizzato da una discreta libertà di
caccia; quando le prede servivano al popolo minuto per portare a
termine baratti, essenziali alla sopravvivenza.
Nel Medioevo, le prede più ambite, consistevano in: Caprioli,
Cervi, Camosci, Cinghiali, Lepri e Conigli selvatici, che non
mancavano mai sulla mensa del nobile, o alla corte comitale. Il
Camoscio lo chiamiamo u camùnu, e nel dialetto
distinguevamo u craviö e a lévre.
Nella dieta
del popolano erano più frequenti u tàsciu e le Marmotte,
oltre a e tàrpe ed i Ghiri, oggi non troppo appetibili e
sovente protetti. Ma hanno fatto parte delle prede anche l’Orso
e persino bisce e serpi.
Con la regolamentazione moderna della caccia, seguita da un
intenso sfruttamento delle risorse e da un irreversibile
inquinamento, le possibilità di cacciagione si sono decisamente
ridotte. Anche la sensibilità ecologica dei moderni cacciatori
pare sia decisamente migliorata.
Oggi, la caccia più praticata è quella al cinghiale; effettuata
da squadre organizzate, riesce a mantenere l’equilibrio vitale
di una specie in rapida crescita, a causa dell’abbandono, da
parte dell’uomo, del territorio montano.
L’auspicato reinserimento del lupo, u lùvu, ingiustamente
creduto dannoso, per interminabili secoli, dovrebbe ridare
equilibrio all’ecosistema, che troverebbe giovamento anche dal
ripopolamento, ad alte quote, di erbivori selvatici di grossa
taglia, quali caprioli e camosci.
LA CACCIA DA PIUMA
Tra la cacciagione da piuma, sulla mensa nobile locale, non sono
mai mancati: a becàssa, a càgliara, a pernìxe,
u galétu de muntàgna, ovvero il Fagiano, u becafighe,
u becaçìn, u verdùn, a spìpura, u
pitapìn, a tùrtura e u curùmbu, ovvero il
Piccione selvatico.
Nella cattura, con le reti o con i trapin unti dì
vischio, finivano: u frenghélu, u mérlu, a
cavéurna, a testanégra, u lùgaru e u tùrlu,
del quale si conoscevano tre varianti u cursìn, u
scascélu, a çésara”, u marvìssu e u butàssu.
Si catturavano anche u rebìssu, il Pettirosso, u
strùnelu e persino u buì, o u ciciö, lo
scricciolo, che rappresentavano l’uccellagione minuta. Ancora
negli anni dal Trenta al Cinquanta, del nostro secolo, questi
uccelletti furono bottino di numerose doppiette.
Nell’ultimo dopoguerra, invece, venivano cacciati con fucili a
ripetizione sempre più sofisticati, usati da “cacciatori” sempre
meno oculati, tanto da diventare merce rara e venir quindi, in
qualche modo protetti.
Altro volatile commestibile, oggi giustamente protetto, è u
galétu de màrsu, ovvero l’upupa. Sulla mensa odierna, l’auxelétu
è rarissimo e forse è meglio così. Nei supermercati si trovano,
a buon mercato, ottime quaglie e robusti piccioni, che
sostituiscono degnamente la richiesta base gastronomica. Anche
il fagiano e l’anitra sono presenti nei mercati.
Il volatile migratore più rappresentativo, della caccia
nostrana, è stato l’anitra selvatica; mentre la preda più ambìta
e stato u germàn, o anitra nera. Nell’Alto Medioevo,
veniva catturata anche la Gru, che arrostita, offriva
qualitativamente un ottimo banchetto.
Le Gru, assieme al Cavaliere d’Italia ed altri trampolieri
sceglievano sovente la zona umida, alla foce del Torrente Nervia,
quale sede di tappa, nel loro viaggio di trasmigrazione verso il
Nord Europa.
Trattando di uccelli, non si può dimenticare l’apporto dato alla
caccia dalla falconeria. Nel Medioevo, la nobiltà locale ha
certamente praticata la caccia con u farchétu,
appositamente addestrato. La specializzazione si è poi
trascurata, fino agli anni Settanta, quando una scuola dì
falconieri si è insediata sulle alture della Turbia, praticando
l’arte per il solo gusto della dimostrazione.
Oltre ai conosciuti selvatici, la popolazione ha da sempre dato
la caccia a piccoli animali e persino ad insetti per sfamarsi,
ma qualche volta per assaggiare vere e proprie leccornie
alimentari, che oggi la cucina riscopre, anche se a molta gente
non vanno proprio giù. Tra questi animaletti troviamo rane e
lumache, mia anche qualche insetto, oggi neanche più
proponibile.
LE RANE
Un tempo e ràine erano abbondanti anche lungo il corso
dei nostri torrenti, mai sufficienti comunque ad organizzare un
consistente menù. Sono stati i contatti con le risaie del
Vercellese, che ci hanno fatto conoscere anche questa delicata
leccornia, sovente presente sulle mense di censo. Sul nostro
territorio, vivono da sempre le Raganelle mediterranee, mentre
la Rana verde è stata introdotta dopo la seconda guerra
mondiale, importandola dall’Albania, a scopo alimentare.
L’eccessivo uso di anticrittogamici e diserbanti nella
floricoltura ha quasi cancellato la presenza delle rane. Oggi,
per l’uso in gastronomia, lo stesso prodotto viene importato,
congelato e raro, dalla lontana Indocina, sempre concesso alle
mense benestanti e di gusto compiacente.
LE LUMACHE
Dopo ogni temporale, sui camminamenti interpoderali del nostro
entroterra, pullulano gustosissime lumàsse e squisiti
ciùi, che da sempre vengono raccolti, lungamente spurgai
e cucinati, in succosi intingoli, sostenuti dalla menta.
Nei boschi, la raccolta di questi gustosi gasteropodi è oggi
proibita ed attentamente controllata, anche se gli abusi
abbondano. L’allevamento di lumache, che altrove costituisce una
interessante opportunità imprenditoriale, nel nostro entroterra
viene decisamente evitato. Eppure, sia per le condizioni
climatiche, che per il reperimento di abbondante foraggio, le
nostre Alte Valli sarebbero ideali.
Il 26 marzo del 1643, un sensale e commerciante di “bestie grosse e minute”, che operava tra il Basso Piemonte, Tenda e Briga si aggiudicava la fornitura di carni alla mensa del vescovo e di tutte le persone ecclesiastiche di Ventimiglia, compresi i frati del Convento di San Francesco. La qualità della merce prevedeva “… carni di manzo o manza piemontese e carni di montoni novellani”, al prezzo di vendita di 34 denari di moneta genovese alla libra. Il posto di macellazione veniva definito, o nel Convento francescano, o nella strada antistante le Case Canoniche della Cattedrale. I giorni di vendita erano così documentati: “Carni di manze dalla festa di Pasqua a venire fino alla festa di San Giovanni; da questa fino ai Santi carne di montoni; dai Santi fino a Carnevale venderà carni al sabato e martedì e quelle di montone tutti i giorni permessi”.
Fin dal 1558, il Comune appaltava
numerose imposte, in pubblica callega, tra le quali era
presente anche la Gabella macellarum, la Gabella macelli,
pedagii, la Gabella passagii animalium e la Gabella
porcorum; ponendo i sensali di bestie all’interno di strette
regole commerciali.
Nel 1600, il Parlamento ventimigliese, nelle Regole dei Maestrali,
decretava sulla macellazione e la vendita delle carni in tutta la
Comunità di Ventimiglia; assegnando poi l’appalto per la fornitura
di carni alla stessa Comunità. In precedenza, gli appaltatori locali
riuscivano a sottrarsi ai continui controlli. Molto spesso gli abusi
venivano tollerati giacché, non raramente, famiglie notabili della
città si approvvigionavano nottetempo a fonti non legali.
Privilegiate, sia per la lontananza dai controllori, sia per il
blando controllo effettuato, erano le Ville.
Fin dal X secolo, la corte comitale e la conseguente presenza
della classe nobiliare nella città, esercitavano una notevole
pressione fiscale verso le Ville e gli agricoltori del contado.
Se nel XI e XIII secolo, il porco salato era ancora per tutti,
cittadini e contadini, la carne per eccellenza, dal secolo XIV,
i cittadini amavano distinguersi come consumatori di bue e di
manzo, la carne più cara ed esclusiva sul mercato.
Chi non poteva permettersela, si doveva accontentare di pecore e
castrati, un genere che in quel periodo trovava la massima
espansione, più a causa dei bisogni dettati dall’industria
laniera, in rapida e potente espansione, che per la stima che il
genere incontrava dal punto di vista alimentare.
Inoltre, la trasformazione del paesaggio rurale o montano, aveva
cancellato molti spazi coltivati, che non avevano visto
ripristinare i primitivi boschi. La foresta era stata terreno
incontrastato per l’allevamento dei maiali, i vasti prati
naturali che l’avevano sostituita, dopo gli inconsulti
disboscamenti, erano aree più propizie alle pecore animali di
“‘moda”’, per la lana, nella società urbana del XVI secolo.
Da documenti del Cinquecento apprendiamo invece che in quel
secolo, il macello di Ventimiglia era dato in appalto dagli
amministratori del Banco di San Giorgio, cui la città era
assegnata. Il macellaio che si aggiudicava la concessione doveva
fornire un certo quantitativo, annuo, di carne fresca alla
comunità.
Anche gli eserciti stranieri che transitavano nella regione,
numerosi, pretendevano l’approvvigionamento di carni, oltre al
pane fresco.
A partire dal secolo XII, al
mercato della città erano destinati i bovini, che venivano prodotti
in quantità maggiore che in passato. A ragione del peso, macellare
un bovino non era quasi mai un affare di famiglia. Solo la presenza
di una folla di consumatori rendeva conveniente l’operazione.
I rogiti notarili indicano che, nella Ventimiglia del Duecento erano
parecchi i ‘‘macellarius”, riuniti in una potente Maestranza.
Anche la presenza toponomastica, continuativa, dell’antico “Vico
Macelli” è segno d’importanza per l’allora emergente “arte”. Da
questo, si può stabilire che il duecentesco Libero Comune
ventimigliese fosse alla stregua di una discreta “città stato”, fra
le molte che apparirono in quel momento.
Ma ecco che nacque un’opposizione, anche in termini d’immagine, fra
la città ed il suo contado. Fra la carne suina, macellata in
famiglia e messa in conservazione: salata, seccata o affumicata;
simbolo di un’economia tendenzialmente autarchica contro la carne
bovina, macellata in città e simbolo del nuovo dinamismo
commerciale.
Oltre che alimentare, l’opposizione tra la città e le sue “Ville”
risultava anche politica, ma l’immagine esteriore dettata dai
particolari evidenti, era quella che maggiormente segnava in
negativo i rapporti tra le due diverse entità. Rapporti che, nel
Seicento, sfoceranno nell’autonomia della rinomata “Repubblica degli
Otto Luoghi”.
Le trippe bovine, preparate usando gli stomaci: a buséca,
assieme a a scùffia, e çentupéle e a drüa,
con aggiunta dell’intestino crasso, cioè: u biélu gràsciu,
u stùpu e u biélu cùrau, ai quali si aggiungono
i mìsculi d’i zampìn e u mürrétu, che decretano il
denso all’intingolo, ovvero a bàgna per legare la
ricetta.
Dalle frattaglie bovine ed ovine si ricavano ottime fritture,
con: u figarétu, a mìrsa, a curà o
curatéla, com’era chiamato il polmone, i rugnùi ed
i lacéti o ghiandole; mentre a çervéla risulta più
gustosa se impanata.
Gli agnelli da latte, che ancora non avessero toccato foraggio,
fornivano una delicatezza, oggi introvabile, i bieléti,
l’intestino tenue raccolto in mazéti e cotto a zemìn,
con aglio e prezzemolo.
I già citati documenti notarili
del XIII secolo, asseriscono che la corporazione dei “macellarii”
fosse assai potente, in Ventimiglia, quindi, i suoi associati
sarebbero stati numerosi e ben introdotti nel commercio locale.
Dalla macellazione, oltre alle carni, derivavano una grande quantità
di frattaglie, che il popolo minuto apprezzava particolarmente per
questioni economiche, sovente imitata dai benestanti, per ragioni di
gustosità.
Dai bovini, a lénga preparata con i capperi o salmistrata,
a testìna in gelatina e a maschéta in umido, oppure a cùa, bollita o stufata.