Olii di Van Googh e Claude Monet, con tratti di Barbadirame
1974
Il
lavoro di Alberto Rebaudo non vuole essere altro che una pura e semplice
carrellata panoramica sull’evoluzione dell’ulivo dalle sue lontane
origini ai giorni nostri. Sono numerosi gli studiosi e i tecnici che,
prima di lui, hanno affrontato la prova con l’impegno di tracciare, il
più fedelmente possibile, la genesi di questa pianta secolare, divenuta,
col passar del tempo, il simbolo della flora mediterranea. Ma,
allorquando si tratta di avvenimenti, che potremmo definire storici, e
per questo soggetti a tanti errori e deformazioni attraverso i secoli e
le passioni degli uomini, prevale nell’analista, suo malgrado, la
preoccupazione di valutare i fatti il più equamente possibile.
Tutti i «forse» del narratore, diceva Renan, lasciano largo spazio ad
altrettanti «forse» nel lettore. Ed è per questo insieme di sensazioni
dubbiose, mai sopite, concernenti la vita dell’ulivo che è possibile
riaffrontare l’argomento.
Le innumerevoli manifestazioni della riproduzione vegetale da un lato e
le esigenze della ragione dall’altro conducono inevitabilmente alla
ricerca e all’osservazione. Ed è sotto questa angolazione che ha voluto
esaminare lo sviluppo dell’ulivo attraverso i secoli, analizzandolo,
senza ambizione alcuna, nella sua meravigliosa progressione, nel suo
involo mistico e sentimentale e, infine, nel suo sviluppo scientifico.
Tuttavia, questa distinzione che la sintesi storica impone, non deve
essere intesa come se, da un periodo all’altro, potessero emergere
fattori nuovi di evoluzione capaci di annullare i precedenti e, di
restare completamente estranei a quelli futuri. Al contrario, il
presente deriva dal passato e genera l’avvenire.
L’evoluzione creatrice, dice Bergson, non conosce ostacoli di sorta.
Ogni epoca fornisce il suo contributo, misto a quello delle epoche che
l’hanno preceduta e che la seguiranno come l’onda si confonde all’onda.
Ed è per questo che non è assolutamente possibile abbordare uno studio
sull’olivicoltura moderna senza ricercare le cause materiali e sociali
della sua secolare formazione. È soprattutto indispensabile riscattare
dalla sua storia antica quelle leggi alle quali è inevitabilmente
legata, perché parlare di evoluzione significa affermare, almeno sotto
un certo aspetto, una ben determinata convinzione.
L’evoluzione della specie non può essere capita senza prima valutarne il
complesso delle eredità che l’hanno preparata e le condizioni in cui si
è sviluppata. Sta di fatto che dall’Era Minoica, epoca della sua
scoperta, ai giorni nostri, l’ulivo ha conservato tutte le sue
caratteristiche fisiche e biologiche.
Lo scopo di questo lavoro semplice è specialmente quello di offrire al
lettore un rapido excursus sull’olivicoltura antica e moderna, lo studio
delle sue condizioni etniche e geografiche e, infine, dei sistemi
tecnologici che hanno via via rafforzato e perfezionato il modello
originale.
«I Pini» - Latte di Ventimiglia, 1974
Antonio ANIANTE
P.S. - Ho prefazionato questo libro di Alberto Rebaudo
non solo per il suo valore, altresì per altrettanta passione che ho per
l’ulivo.
Ritrovata la Liguria, dopo il mio lungo esilio in Francia, ho sempre
cantato l’ulivo nei miei scritti, ed ora particolarmente mi è caro,
avendone io, da oltre quindici anni, uno, maestoso e ultrasecolare, nel
mio giardino.
Per
tutto l’oro del mondo non me ne staccherei, e, se fosse possibile,
vorrei riposare, per sempre, alla sua ombra.
A. A.
da L'ULIVO di Alberto Rebaudo - capitolo III - pag.
19
Grazie al ritrovamento di resti nelle grotte abitate da popoli della
preistoria, abbiamo potuto stabilire che l'ulivo allignava dalle nostre
parti già in epoche remote. Abbiamo pure assodato che non si trattava di
colture vere e proprie in quanto non si era ancora delineato
l'importante ruolo che esse avrebbero assunto, col passare del tempo,
nel contesto dell’alimentazione umana.
Per giungere al riconoscimento vero e proprio dell’ulivo dovranno
passare alcuni secoli. Saranno i monaci Benedettini verso il 1200 che ne
inizieranno la coltivazione nella riviera Ligure di ponente col
trapianto di esemplari prelevati a Monte Cassino.
Si deve dunque a quei monaci sagaci e laboriosi la diffusione in
provincia di una varietà di ulivi che si ebbe l’appellativo di
«Taggiasca» in omaggio alla città di Taggia, centro di distribuzione.
Questa qualità è la più coltivata ed apprezzata della Riviera dei Fiori.
Un albero dalla chioma maestosa, assai sviluppata, che produce
pregiatissime drupe, la cui maturazione avviene con regolarità graduale.
Ai Benedettini si fanno risalire pure i primi contratti di «mezzadria»
sottoscritti nel 930, poco dopo la disfatta dei Saraceni ad opera di Teodolfo Vescovo, con venti famiglie di Sanremo, allo scopo di
«ripopolare e restituire alla coltivazione le terre che la Chiesa
possedeva». (G. Battista Tirocco - Taggia, i paesi e i Santuari).
Da questo momento la coltura olivicola si avvia, attraverso graduali
miglioramenti in campo tecnologico, a diventare uno dei maggiori cespiti
del reddito locale. Nel XVI secolo si comincerà a parlare di una vera e
propria industria olearia in progressivo sviluppò per una serie di
innovazioni apportate al sistema di lavorazione.
Grazie all’ingegno degli abitanti di Dolcedo, ritenuti già da quel tempo
maestri nell’arte dell’estrazione dell’olio, vengono impiegati i primi
frantoi a sangue, così chiamati perché le mole venivano fatte ruotare
nei «gombi» mediante la forza di animali (per lo più asini e muletti),
così come avviene ancora oggi in molte regioni per sollevare l’acqua dai
pozzi.
È pure in questo periodo che Pier Vincenzo Mela farà la scoperta di un
procedimento per lavare le sanse che consentirà un maggiore sfruttamento
delle olive.
Parallelamente al progredire dei sistemi di estrazione subiscono una
graduale evoluzione tutte le attività collaterali. Un poco ovunque si
aprono botteghe a carattere artigianale. Alcune di esse, col passare del
tempo, si trasformeranno in avviatissime piccole industrie. Attivissime
le botteghe dei bottai, specialmente a Sanremo e dei fabbri ferrai di
Ceriana, reputatissimi questi ultimi nella fabbricazione dei cerchi per
le botti. In gran conto erano tenute gli otri che uscivano dalla
conceria impiantata a Porto Maurizio da Bertone, Conte di Ventimiglia.
Qui, a parere degli esperti del tempo, si producevano gli otri migliori
di tutta la provincia. Gli apprezzati recipienti venivano ricavati da
pelli di capra conciate e cucite a forma di sacco e consentivano il
trasporto dell'olio senza alterarne le caratteristiche organolettiche.
Inoltre, grazie alla loro duttilità, potevano essere agevolmente
sistemati sul dorso dei muli là dove, per la mancanza di strade, era
impossibile l’impiego dei carri.
Tutte queste innovazioni e l’ingegnosità degli operatori, per aumentare
il livello e i pregi della produzione, favoriscono ravviamento di
rapporti di affari tra gli olivicoltori e frantoiani della zona costiera
con i commercianti dell’interno, piemontesi e lombardi.
* * * * *
Oggi le vallate, le colline e le alture di questa nostra terra che per
millenni ha riso al sole e rallegrato i nostri paesaggi, sommersa in una
marea di verde perenne, reso più intenso dalle chiome maestose e folte
di uliveti secolari, sono mutate.
L’ulivo, dalle origini remotissime e dalle eccezionali virtù, sta
attraversando, in alcune zone della nostra regione, un periodo di triste
abbandono.
Questo tanto celebrato simbolo di saggezza, di abbondanza, di pace e di
gloria, che gli Ateniesi custodivano gelosamente nel recinto sacro a
Pandroso, figlia di Cecrope, nel tempo di Eretteo sull’acropoli di
Atene, è vittima della trascuratezza umana.
-«In Italia, e in misura uguale o meno accentuata in altri Paesi -
afferma il Nino Breviglieri -, la coltura ha presentato tutte le
alternative: dalla rapida ed intensa diffusione, alla contrazione ed
all’abbattimento degli ulivi, dalle amorose cure dell’agricoltore,
all’abbandono ai pascoli armentizi ed ai parassiti, dal confronto dei
prodotti copiosi e remunerativi, alle calamità atmosferiche ed
all’alternarsi di scarsi raccolti e di flessioni di prezzi, dalle
esaltazioni delle caratteristiche ineguagliabili del suo
alimento-condimento, alla sopraffazione di volgari prodotti di equivoca
origine e di anonimi olìi di specie vegetali a rapido ciclo, che non
potranno mai eguagliare l’olio d’oliva».-
Un durissimo colpo gli fu inferto durante la prima Guerra Mondiale con
il taglio disordinato di migliaia di piante per far fronte
all’incalzante richiesta di legna da ardere necessaria al funzionamento
delle fabbriche e delle locomotive a vapore di cui erano dotate a quel
tempo le Ferrovie dello Stato.
Non meno preoccupanti per l’ulivo i continui salassi cui vengono
sottoposte le piantagioni per l’approvvigionamento delle fabbriche di
mobili di stile e degli intagliatori di ricercatissimi oggetti
artistici.
Eppoi, vi sono i tagli dovuti alla realizzazione delle strade
interpoderali e delle grandi arterie autostradali. Si pensi che per la
costruzione dell'Autostrada dei Fiori sono state sacrificate migliaia di
piante. In tale frangente ci viene da pensare a che serve la famosa
legge del 27 luglio 1945, n. 475, che vieta l’abbattimento degli olivi.
Ma fermiamoci qui.
Il mio intento è quello di stabilire quale sia in realtà la situazione
dell’ulivo nella nostra regione, quale il posto che gli spetta, e
infine, che cosa rappresenta per noi nel contesto economico,
tradizionale, folkloristico, sociale e commerciale.
L’ulivo,
pianta le cui proprietà la farebbero definire forse magica e che,
senz’altro, è la più antica del mondo.
In queste pagine, Alberto Rebaudo, con una ricerca analitica da
appassionato studioso, ne ha tracciato la storia, dalle lontane origini
a oggi.
Della pianta forte, contorta nelle sue ramificazioni e al tempo stesso
aggraziata, qui è detto proprio tutto in ogni possibile aspetto: l’ulivo
come sorgente di vita, legato a tradizioni antichissime, l’ulivo come
elemento decorativo, come produttore di quell’elemento, l’olio, presente
nei riti segreti della sacralità in quasi tutte le religioni; l’ulivo
come fattore d’arte, possibile a modellarsi nelle mani di scultori di
vaglia. Infine, una ricca documentazione sulla produzione olearia oggi,
sul consumo dell’olio, come elemento naturale, con riflessi che corrono
a ritroso nel tempo, dai più lontani frantoi a quelli modernissimi di
oggi, presso le grandi case produttrici.
Una lunga storia che
ha un intento documentaristico, il sapore di un saggio e che in certe
pagine rivela l’impegno di un romanzo. Lo corredano e completano una
dotta e cordiale prefazione di Antonio
Aniante e le brillanti
illustrazioni di
Barbadirame.
Estese coltivazioni di oliveti della qualità
"Taggiasca", caratterizzano il paesaggio della Riviera Ligure di
Ponente. Messi a dimora in forma intensiva a cominciare dal
Seicento, da generazioni di contadini ben consci di non riuscire a
sfruttare intensamente l'oliveto, che avrebbe costituito opportuno
sostentamento alle generazioni future.
La lungimiranza dei monaci,
che avevano consigliato l'avvio di questa grande opera, ha concesso
anche alle basse Valli: Bevera, Nervia e Roia, la fortunata
presenza di una estesa coltivazione idonea a produrre l'olio più buono
del mondo, tutelato dalla Documentazione di Origine Protetta.
ventemigliusu di Dalio BONO
L’auriva a l’è ina cianta che a vive pe’ de’ séculi, e che a l’à de
urigini antighiscime.
Cume tüte e autre ciante a l’à, ela aiscì, u periudu de répousu d’invèrnu.
Versu u tempu de marsu-avrì, ghe végne i primi bruti insci'a çima d’ê
raméte; mazu u l’é u périudu da sciùriüra, e sciùre de l’auriva i se
ciama «pàne».
Int'i mési de zügnu-lügliu, cařa e pane e se furma e aurivéte, che int'i
mési caudi i végne grosse, propiu cume «e aurive».
Avanti ch’i maure s’e deve netezà a tèrra, suta a cauza de l’àrburu, dae
érbasse, faxendu «e aire», pe’ purrè cöglie e aurive int'u nétu. L’è
perché, candu e aurive i sun ben maüre, i càze da pe’ ele, ascaixi
sèmpre tacae da «u vermu de San Martin», cuscì ciamau, pe’ via che e
aurive i maüra propiu pe’ i primi de nüvembre.
Pe’ cöglie cun e mae, da per tèrra, s’aduvéra «i cavagni», faiti
aspressu cun vìmini o liste de castagnu intreixae.
M’arregordu d’ina ratéla, de me’ pàire cun in cunfinante, pe’ due rame
d’auriva chi se scruxiava insc’ün’àira, dandu modu de dubità insce a
prupriétà d’ê aurive che i ghe saréva picae.
Piglia a decisiun de taglià tüte e due e rame, cuscì da levasse i
fastidi, a ratéla a cuntugnava pe’ via de chi duvésse taglià pe’ u primu.
Pe’ mete paixe, me pàire u l’è muntau insce l’àrburu e u l’à tagliau a
sou rama, speitandu che u veixìn u fesse autrétantu, ma chelu u l’è
scurtìu a di’ che uramai l’èira inütile taglià a sou rama: defaiti avura
l’èira ciairu cume u sù, che e aurive ch’i sereva cazüe, insce chel’àira,
i sereva staite a sou.
L’è propiu int'i nostri üsi e custümi, che u frütu cazüu insc'e aire d’u
veixìn u l’è de prupietà d’u padrun de l’àrburu.
Pe’ fenì de cöglie e aurive ancu’ insci'a cianta, i se «ramàva» picanduře
cun ina sferla de ninsöra ciamà «ramavùira»; se stendeva de téře, suta a
cianta, ch’i féniva pe’ cöglie aurive, föglie e raméte.
‘Ste téře
i se catava inte l’ucaxiun d’a féira de San Giusèpe, a marzu.
E aurive ramae i duveva pöi èsse «mundae», e pe’ fařu se pigliava due
téře, üna destésa pe’ tèrra e l’autra drissà pe’ l’autu, au lau
contravèntu.
Cun ina cassa de legnu, faita aspréssu, se lansava aurive e föglie versu
a tèřa contravèntu, cuscì e aurive ciü pesanti i carava int'a tèřa
destésa; pe’ còntra e föglie, ciü lengéire, i vöřava indéré.
Int'u tempu s’è spantegau l’üsu de “a chitara”, ch’u nu’ l’èira autru che
in cian, inbousu, faitu cun de bachete de legnu a trei lai, messe
abastansa veixine, tantu che e föglie i pichésse pe’ tèrra, intantu che
e aurive i rundélava int'u sacu au fundu d’a chitara, bèle néte.
E aurive i se mésürava cun «a carta», ina mésüra de legnu cilindrica, de
vinti litri de vulüme, che a tégniva in pesu dai dùze ai trèze chiloi:
tantu che e aurive «insacae» i vegniva de catru carte pe’ sacu da mima.
Se carrégava i sachi insc'e müře pe’ purtaři a “u deficiu” duve inte «i
gumbi» se franzéva e se pastava e aurive pe’ trane l’öřiu ch’u vegniva
consérvau inte «i trög1i» o e giarre.