Fino alla caduta dell’Impero
Romano, pescare era un’attività libera e produttiva. Il pesce come tutti
i prodotti del mare e delle acque dolci facevano parte della dieta, sia
sulla mensa di censo, che su quella popolare. La nobiltà egemone, nei
primi secoli della diffusione del Cristianesimo, riservò al proprio uso
sia i prodotti delle selve che quelli dei corsi e dei bacini d’acqua
dolce.
Nei primi secoli cristiani, il pesce era escluso dalle diete
quaresimali; solo nel X secolo, il prodotto della pesca veniva
considerato prodotto magro, diventando il simbolo della dieta monastica
e di astinenza dalle carni.
La vera battaglia fra carne e pesce, quale artificio retorico della
religione, per alternare il consumo di carne e pesce ha inizio a
cominciare dal XIII secolo. Soltanto nell’Ottocento, la nostra cucina è
diventata veramente costiera; quando il pesce era diventato meno costoso
della carne e più facile da procurarsi e soprattutto da conservarsi e
trasportarsi.
Qui da noi, oggi, lo sfruttamento intensivo del pescato in mare e
principalmente professionistico, mentre la pesca di fiume è
principalmente amatoriale. Per i tempi odierni, nei rari vivai d’acqua
dolce si produce pochissimo. Nei primi anni Novanta, una Società
americana aveva impiantato un vivaio d’acqua di mare, allestito su una
nave, ancorata al largo della rada monegasca. In speciali vasche, nel
suo interno, allevava numerosi e variatissimi pesci, riservati alle
mense più raffinate della Cote d’Azur. Dopo qualche anno anche la nave,
che ormai faceva parte del paesaggio, è sparita.
LA PESCA IN MARE
La costa tirrenica, prospiciente al Bacino del Boia, da Capo Nero a Capo
d’Aglio è stata storicamente molto pescosa, sia in altura che in ogni
suo minimo recesso. Nei secoli, alcune cale ed attracchi sono diventati
particolarmente attivi nella pesca, concentrando l’attenzione degli
acquirenti buongustai. Bordighera e Mentone sono stati, in assoluto, i
maggiori centri di attracco del pescato d’altura, mentre le “piazze” di
Ventimiglia e Monaco sono stati i mercati più attivi.
Nel Seicento, il monopolio sul mercato del pesce, assieme a quello della
vendita di grano e sulla fattura del pane, sono state tra le cause
scatenanti la ribellione degli Otto Luoghi, verso l’egemonia
ventimigliese.
Nel corso della prima metà del secolo XIX, tutte le spiagge italiane
della zona intemelia, hanno sostenuto l’attività dei pescatori
professionisti, i quali non potendosi servire di alcun porto,
spiaggiavano le loro grosse barche ed usando poi i parài, legni
ben ingrassati, le arenavano.
Sovente, le grandi reti a sciàbega venivano tratte da terra, con
l’ausilio di lunghe corde, trascinate da intere file di pescatori.
Giunto a riva, il sacco di rete fitta veniva rivoltato dagli stessi
pescatori, fino a prelevarne il prodotto pescato.
Altri tipi di rete, quali u tartanùn venivano usati dalla barca,
qualcuno, come i pařamiti e i trémari, ancor oggi, vengono
stesi tra due boe per poi essere recuperati dopo parecchio tempo. Con
u ressàgliu si pesca sulla riva.
Il pescato, opportunamente disposto a riva, giungeva in abbondanza nelle
Osterie, nelle Trattorie e nei Ristoranti, dove veniva elaborato con
ottime ricette. Oggi, diminuita notevolmente la pescosità, sono i porti
di Bordighera e di Mentone i più attivi tra gli approdi di pescatori
professionisti, in zona, mentre le calette attorno a La Mortola ed a
Capo Martino restano il regno del pescatore costiero, dilettante. Il
pescato raggiunge sovente i Ristoranti, ma gli “chef” che lo sanno
elaborare degnamente sono, per ora, limitati alla costa francese ed in
minima parte alla Vecchia Bordighera.
Il calo del pescato locale, forse irreversibile, è colpa
dell’inquinamento, ma per la maggior parte degli stessi pescatori
professionisti d’altura, i pescherecci sanremaschi ed onegliesi, che
oltre ad autopunirsi, deteriorano le possibilità che la nostra costa
potrebbe proporre ad una qualificata pesca subacquea, con l’aggiunta
d’un notevole indotto.
Il vivaismo dei molluschi non ha mai trovato validi spazi, a causa della
incombente profondità della costa. L’esempio della nave ancorata al
largo della rada di Monaco, potrebbe suggerire un allevamento di
molluschi, d’avanguardia, che troverebbero una buona
commercializzazione, almeno oltre frontiera.
LA PESCA NEL FIUME
Le acque del Fiume Roia sono state storicamente rinomate per le trote
che ospitavano, ma anche i torrenti Nervia e Bevera sono ricchi di
ottime specialità ittiche. Fin dal Seicento, i pescatori di fiume
prelevavano le guizzanti trote, per passarle all’aristocrazia locale, in
cambio di derrate alimentari più semplici, ma più abbondanti.
Nella sua opera “La Biblioteca Aprosiana”, Padre Angelico Aprosio,
traccia le lodi della trota locale, consumata prevalentemente dai
notabili, accompagnata da un soave moscatellino del luogo, degno dei più
rinomati Cinqueterre.
Le anguille vivono in abbondanza nei nostri torrenti. Nel dopoguerra,
dopo ogni ondata di piena, orde di pescatori si affrettavano a
raggiungere la riva, mentre le acque erano ancora ingiallite da u
sterburìn; pescavano con una rudimentale canna, che reggeva u
massàme, un agglomerato di vermi, per poi gettare l’anguilla appena
trattenuta, in un ombrello aperto e capovolto.
Durante l’ultimo conflitto mondiale, si pescavano le anguille cursàle,
mentre raggiungevano il mare, andando verso la riproduzione, con u
barcàgiu, complicato attrezzo conosciuto fin dal Medioevo. Questi
erano una sorta di trappola larga all’imbocco e stretta in fondo, fatta
di canne legate tra loro, che venivano poste nella corrente del fiume,
all’imboccatura delle secche, onde convogliare i pesci in un sacco.
Una leccornia, attualmente assai proibita e molto ridotta
dall’inquinamento, sono stati i gamberi di acqua dolce, che esperti
pescatori, sapevano prelevare di notte, nelle limpide acque dei ruscelli
prealpini.
Fin dall’Antichità, la cucina del Ponente ligure si a adattata al frutto delle fatiche dei pescatori, che a seconda delle stagioni traevano a terra tipi di pesce, adatti ad accontentare ogni mensa. La presenza di ricchi corsi d’acqua, sul territorio, ha incentivato anche la pesca al fiume. Storicamente, lo sfruttamento del pescato ha rappresentato la sopravvivenza, anche quando l’attività veniva tutelata da leggi e fiscalizzata.
Tra i piccoli
squali, molto apprezzati sono: a ninsöra; l’agugliàn
e u scàiru, la cui pelle era usata come cartavetro.
Ancora: u pésciu spà, pescato dai nostri siciliani, nel
dopoguerra; il discreto axiértu; l’ottimo déntixiu;
l’eccellente üglià ed il buon pàgaru. Un antico
detto locale tende ad evidenziare l’Occhiata, alludendo: -
Va’ ciü in’üglià, che çentu pàgari -. Non confondiamola però
con l’uràda, l’Orata, le cui carni, senza dubbio, sono le
migliori tra quelle pescate nel nostro mare.
Tra i pesci piatti e pregiatissimi: a sòla; la Sogliola,
ma non tradisce u rùnbu, nei lamprediformi è apprezzato
u pésciu làma, del quale è ottima anche la sacca ovifera.
Una buona frittura di pesce si può confezionare con pesciolini
di molte specie, ma ottimi sono i pignurìn, novellame di
gerro.
Per la zuppa di pesce, che da noi viene chiamata u
bugliabàsciu, venivano e vengono usati: u capùn, a
rascàssa, u gianèlu, o Rana pescatrice ed anche il
Lofio Martino, u bùdegu, pesce di fondo che è ottimo
elaborato coi broccoli o col cavolfiore. Anche i molluschi,
detti a robamòla sono apprezzati e raccolti sugli scogli
delle “Roche”, su tutti i promontori marini del comprensorio.
Dal XVI secolo in poi, anche prodotti ittici importati dal Nord
Europa entrarono a far parte della nostra dieta, come vedremo
nel capitolo sull’approvvigionamento, anche per i nomi
dialettali.
Oltre al Pesce Azzurro, sono
i piccoli pesci pescati da riva, quali: a bavècura, a
ciòcula, l’aràgna, u zèrru, a ziguréla o
a bùga, che quando è novella viene detta bugalùn. Di
solito, questi pesciolini sono riservati alle mense meno abbienti;
mentre i pescatori professionisti traggono ottime qualità, di buone
dimensioni, che un tempo finivano sulle mense importanti. Oggi, non
sussistendo più le differenze censuarie di mensa, c’è quasi per
tutti la possibilità dì cucinare pesci di buona taglia, senza avere,
purtroppo, la certezza della provenienza.
Dei pesci di taglia, che da sempre hanno trovato posto sulle mense
importanti, nella gastronomia ponentina, fanno parte: l’unbrìna
e u luvàssu, pescati davanti alla foce del Roia: u nasélu,
con le sue carni, simili a quelle del merluzzo nordico; a lüxérna,
classica preda di scoglio; a mustélura ed anche u müzaru,
quando non si alimenti nei pressi degli scarichi fognari.
Nei pesci di media taglia, a tréglia la fa’ da padrona,
specialmente se de scögliu, anche i suràli vengono
particolarmente apprezzati. Tra gli anguilliformi, sono da sempre
apprezzati: u grùngu, malgrado le spine; a muréna,
a ciaciardèla, l’agùn e a surgelìna, anche se di
carne molle.
MOLLUSCHI E CROSTACEI
I Molluschi, come i
Crostacei, consumati appena catturati, a volte crudi, sono sempre
stati apprezzati dalla gente di mare; che li chiamavano robamòla.
Oggi, nei ristoranti e nelle sagre, ne vengono servite alcune
qualità, ma quasi sempre d’importazione, perché nel nostro mare non
esiste industria vivaistica.
Nella gastronomia
locale trovavano spazio: u limùn, sacco di colore giallo dal
sapore aspro; u zin, o Riccio di mare; u rasteghèlu,
cotto fritto;, a patéla ruchéta, con e peřegrine ed
e lümàsse, note anche per la porpora. Per u mùsculu, il
nero mitile consumato cotto; l’òstrega apprezzata cruda, con
l’arçéla gustata indifferentemente, il discorso diventerebbe
letterario.
Tra i Crostacei,
oltre alla regina l’aragùsta, si cucinano: u scànpu,
forse più ricercato della stessa Aragosta e u dugubàn,
che si diceva ne fosse il maschio. E grìte ed i
bancàrdi erano i più apprezzati tra i granchi, oltre alle
gustosissime Grancevole, da noi chiamate e brancùe.
Tra i molluschi:
a babaròta o Seppietta; a capelàna e a sciüpia
vera e propria; i spunciacurénte; u tòtanu, o
Calamaro ed u muscardìn. Più coriaceo e più diffuso di
tutti: u pùrpu è immancabile tra i nostri piatti
marinari.
I PESCI DI FIUME
Nei corsi d’acqua
del nostro entroterra, sono presenti alcune qualità di pesci,
tutte commestibili, oggi generalmente disdegnati dai più, per
via dell’abbondanza di gustosissime trote, che meritano una
segnalazione speciale.
I müseri
popolano le acque stagnanti alle foci dei torrenti, in compagnia
del Cagnetto. Il Cavedani, i Temoli e lo Spinarello si sono
acclimatati da tempo. Il Vairone è presente in una sottospecie
endemica. La notturna Tinca è stata introdotta nel Nervia nel
secolo scorso, come il Barbo.
In alternativa
gastronomica alla trota, si presentano primariamente e
anghìle. Lunghe dai trenta ai sessanta centimetri, le
anguille del Roia e del Nervia, sono sempre state fonte di
proteine per le classi meno abbienti. Infatti, i signori , una
volta arricchiti, dimenticavano la bontà delle bianche carni,
scoprendovi il viscido, giacché davano retta alle “signore”,che
non gradivano la forma serpentesca dell’anguilla.
Oggi, le squisite
anguille del Roia non fanno più parte dei menù, e quando ci
sono, si tratta sovente di anguille importate da Spagna e
Portogallo, che sono più grosse, ma anche più viscide e meno
saporite. Neppure le anghìle cursàle, che durante
l’ultima guerra sono state fonte di proteine a portata di molti,
sono facilmente reperibili.
LA TROTA
Uno speciale
trattamento bisogna dedicarlo alla Trota, a trüta, che
per molti anni, dal XVII secolo, ha rappresentato per la nostra
contrada un interessante richiamo gastronomico, quanto
pescasportivo. Nel Seicento, dall’epistolario del nostro colto
concittadino Angelico Aprosio, apprendiamo che sulla mensa dei
notabili spiccano le eccellenti trote del Roia, condite con olio
d’oliva di purissima qualità.
Oggi i pescatori,
organizzati in Società sportiva, continuano a valorizzare le
nostre acque, ottime per le trote; mentre non fanno la stessa
cosa i ristoratori, sui loro menù tipici. Fino agli anni
Sessanta, erano aperti, in Val Roia ed in Val Nervia, almeno una
decina di allevamenti ittici, forse non troppo funzionali, ma
produttivi. Oggi non si vede la volontà di ripristinare quegli
allevamenti, magari rendendoli più ecologici, rifacendosi alle
moderne tecniche di gestione, già collaudate altrove.
I TONNIDI
Dal Medioevo, fino al secolo scorso, la pesca del Tonno era diffusa
anche sui nostri mari, con sistemi meno industriali che nel
Meridione, ma sufficientemente produttivi. Oggi, si torna a pescare
il Tonno, per diletto, con il sistema al traino, chiamato “pesca
d’altura”. Le carni dei Tonni, venivano conservate sott’olio; quelle
della regione addominale, erano molto apprezzate col nome di
ventrésca, oggi rara.
Oltre che casualmente, come capitava dal Medioevo, anche le carni di
pescespada si sono presentate stabilmente nel menù delle popolazioni
intemelie. Da quando, nel secolo scorso, le rinnovate barche da
pesca consentirono ai frequentare il passaggio, al largo.
U musciàme, che
altro non e che il filetto essiccato del tonno, come a butàrega,
ovvero l’ovario essiccato dei muggini, ma anche dei tonni, sono da
considerarsi ghiottonerie del passato, considerando le proibizioni
legali e la lievitazione dei costi, quando viene importato dalla
Sicilia.
IL PESCE AZZURRO
A sardéna, viene
pescata un estate ed e gustosissima, sia in salsa che abbrustolita.
Il grasso della Sardina scioglie il colesterolo. Le giovani Sardine
vengono dette e parazìne, quelle più piccole sono dette e
putìne e vengono usate per preparare u machétu, specie di
salsa ittica, molto usata dagli antichi romani e nota come “garrum”,
o Salsa d’Apicio.
Le sardine neonate, semitrasparenti, vengono chiamate i gianchéti
e sono molto apprezzati dalla cucina locale. L’anciùa, vive
in branchi come la Sardina. Pescata all’inizio dell’inverno, veniva
salata in barile e spedita in tutta Europa. Alla fine del XIX
secolo, la Liguria aveva il monopolio della pesca di questo pesce
azzurro. L’Acciuga viene anche filettata e conservata in olio
d’oliva, oggi esposta in quegli eleganti vasetti, dove a volte,
appare anche farcita attorno a gustose olive verdi.
Prima della cottura non dimenticare di togliere la testa, che è
decisamente amara. Sovente le teste delle acciughe filettate,
andavano a finire nel machétu, che assumeva così un
amarognolo assai sgradito.
I GIANCHETI
Il novellame di sardina, pescato nei mesi da gennaio a marzo; per
quasi un secolo, è stato una leccornia, per le mense denarose,
diventando, nel primo Novecento, una delle rivendicazioni popolari
più appariscenti. Un documento d’archivio del 1526, ci racconta come
un gruppo di pescatori sanremaschi veniva multato perché aveva
venduto fuori zona, a Ventimiglia, gianchéti pescati nelle
acque di San Remo.
Ai fresciöi de giancheti, almeno una volta per stagione, non
rinunciava nessuna tavola locale. Erano apprezzati anche crudi,
oppure bolliti e conditi con olio, ma anche in frittata o in
minestra.
I gianchéti d’anciùa,
pescati nei mesi autunnali, erano abbastanza apprezzati, anche se le
testoline riuscivano a dare al tutto, un certo gusto amarognolo.
Oggi la pesca ai gianchéti viene giustamente, rigorosamente
controllata, per cui le ricette hanno acquistato un mitico alone,
adeguato al costo della specialità, quando è presente sul mercato.
Sovente il novellame viene importato, persino da paesi
extracomunitari, ma con scarsi risultati in qualità. Per la pesca
dei gianchéti, sulla rete di strascico della sciàbega
normale, i nostri pescatori aggiungevano un sacco a maglie
finissime, chiamato u gianchetà.