SMALTIMENTO
DELLE SCORIE ALIMENTARI
Dall’Antichità, fino agli Anni Quaranta del Novecento, la produzione di
“rümenta” era pressappoco inesistente, considerando la meticolosa
attenzione verso gli sprechi, che è sempre stata applicata in ogni ceto
sociale e verso ogni comparto, dal carattere parsimonioso degli
Intemelìi.
La produzione agricola mondava i propri prodotti con moderazione, nel
predisporne la distribuzione; trattenendo l’indispensabile entro
caratteristici depositi, interni all’azienda, dove formava il composto,
il quale poi veniva usato nella concimazione. Oltre ad esaurire molti
prodotti del medesimo scarto agricolo, l’allevamento produceva dei
liquami, anch’essi adatti alla concimazione biologica. Persino il
derivato alimentare umano veniva indirizzato alla fertilizzazione dei
terreni, per mezzo di particolari incaricati, i quali, svuotando
sistematicamente i pozzi neri delle città, trasferivano i liquami verso
l’agricoltura.
L’economia veniva salvaguardata da comportamenti virtuosi, fin troppo
diligenti, i quali mettevano in moto un buon giro di affari, moralmente
irreprensibile, anche nel trattamento delle scorie nutrizionali. I
poteri pubblici si limitavano ad osservare i traffici, intervenendo
soltanto per sanare le situazioni conflittuali o di abuso. Assieme ai
grandi quantitativi di cereali, al sale e qualche altra derrata
d’importazione, uno dei comparti maggiormente controllato, fin dall’Alto
Medioevo, era l’approvvigionamento carneo, in considerazione della
probabilità di abusi, ma anche, e soprattutto, nella componente di
smaltimento dei cascami di lavorazione.
Come in ogni altro settore, anche nella macellazione e nel trattamento
delle carni non si buttava proprio nulla. La pelle era di valore per i
conciatori, le interiora e le zampe, come le teste, venivano
opportunamente trattate in acqua calda, per finire a loro volta
nell’alimentazione. Le acque di risulta ed il contenuto dell’apparato
digerente erano comunque incanalati verso la concimazione. Unghie, corna
e ossa erano trattate e triturate nel concime; quando il sangue non si
trasformava anch’esso in concime, dopo adeguata essiccazione in
appropriati contenitori. Al momento della mattazione, il sangue
opportunamente sbattuto affinché non coagulasse, finiva in ottimi
prodotti commestibili.
Le attività legate al mare, producevano scarti limitati, i quali a loro
volta portavano materiale al composto fertilizzante, assieme agli
straordinari contenuti attivi delle alghe morte, che attraccavano a
riva, come sempre, nei pressi degli “aregài”, in quei morbidi
mucchi bigi, oggi considerati antiestetici.
LA VOCE INTEMELIA
anno LXVI n. 10 - ottobre 2011
IL CICLO DELLE ACQUE
Quello che l’acqua piovana raccoglieva, percorrendo i terreni coltivati,
conteneva una così limitata componente inquinante, che il deflusso verso
il mare non la rilevava neppure, mentre le acque salse del Mar Ligure
riuscivano a metabolizzare ogni minimo degrado disciolto, anche se a
priori fosse stato un poco più denso.
I corsi d’acqua rifornivano il territorio agreste per le esigenze di
irrigazione; ma anche le fonti ed i pozzi vi provvedevano; le città
erano rifornite dagli acquedotti, quando non erano i pozzi artesiani,
pescanti nei subàlvei dei corsi d’acqua, a provvedervi.
A parte il consumo per la necessità de bere, regolato anche dal
metabolismo, l’uso igienico personale di acqua era assai contenuto.
L’acqua usata per lavare e per lavarsi, contaminata soltanto da
detergenti biodegradabili, nelle città, veniva avviata verso i corsi
d’acqua; in campagna era in un secondo tempo usata per irrigare.
Nell’antichità, per i ceti sovrastanti, la cura della persona avveniva
di solito alle Terme, che fungevano anche da luogo d’aggregazione. Il
popolo risolveva le incombenze igieniche nei punti pubblici degli
acquedotti, presso i pozzi o nei corsi d’acqua.
Siccome, nella maggior parte dei casi, le latrine erano sistemate
all’esterno dei luoghi d’abitazione, lo smaltimento avveniva
direttamente nel pozzo nero, possibilmente senza l’aiuto di acqua
aggiuntiva, la quale avrebbe diluito eccessivamente l’acidità del
susseguente elemento concimatore. Questa particolarità era accertata da
addetti, i “desciotéi”, i quali commercializzavano lo smaltimento
con attrezzature e comportamenti appropriati.
Anche la lavatura degli indumenti avveniva in appositi luoghi; che in
città erano siti nei pressi degli acquedotti. Per il resto: pozzi, corsi
d’acqua e bacini naturali, permettevano il disbrigo delle necessità in
merito. La lavatura dei panni e dei teli era resa funzionale dalle norme
del bucato, eseguito in appositi contenitori, con l’aiuto di cenere in
liscivia, nel consumo di poca acqua calda, lasciando poi decantare fino
all’essiccamento il “lesciàssu” di risulta. Il risciacquo dei
teli da bucato avveniva sulla riva dei corsi d’acqua, eseguito da
lavandaie di mestiere, chiamate “bügaréire”.
Ad Ottocento inoltrato, la politica nella distribuzione delle acque,
attraverso opportuni impianti in tubatura, ha portato l’acqua
all’interno delle abitazioni. Un cambiamento epocale che ha migliorato i
rapporti nella sfera privata degli Intemeli, ma ha dato inizio ad una
continua catena di sprechi, peggiorativi della vita globale.
Una volta portata all’interno delle abitazioni e degli appartamenti,
l’acqua stimolò l’acquisizione di innegabili comodità. Già nei primi
anni del Novecento, le abitazioni si dotarono di una specifica stanza da
bagno, dove l’acqua veniva scaldata ed abbondantemente scialacquata,
mentre nell’ultimo dopoguerra le incombenti creazioni tecniche
industriali trasferirono all’interno delle singole abitazioni le
operazioni di lavatura degli indumenti e delle biancherie, corredato
dalla proliferazione di cospicue produzioni chimiche, per realizzare i
detersivi appropriati, ma allo stesso tempo, mettendo in crisi anche lo
smaltimento delle acque bianche.
Detersivi, detergenti e prodotti disinfettanti ad uso famigliare resero
sempre più abbienti le industrie chimiche, ma impoverirono il “ph”
nell’epidermide delle persone, mettendo in campo: dermatiti, allergie e,
chissà quanti, altri disturbi corporali. Ma il mercato della pubblicità
prosperava, autoalimentando guadagni spropositati, ma anche danni alla
salute popolare, a volte irreversibili.
LA VOCE INTEMELIA anno LXVI n. 10
- ottobre 2011
Dall’Antichità, fino agli Anni Quaranta del Novecento, lo smaltimento delle scorie derivate dall’approvvigionamento alimentare, avveniva con ritmi ed usanze che si erano inalterate pochissimo, nei Secoli. ... Oggi non è più così.
La
diminuzione, costante ed irreversibile, dell’allevamento nel
nostro entroterra, spostò l’approvvigionamento quasi totalmente
versi i mercati del Basso Piemonte, che ne erano stati già
interessati in passato. Questo avvenne lungo il periodo fino
agli Anni Ottanta, per poi indirizzarsi verso l’omogeneizzato
rifornimento grossistico, globale.
Il territorio costiero, che fino agli Anni Cinquanta aveva
ospitato estesi appezzamenti agricoli, perlopiù rivolti verso
l’alimentazione, nel giro di pochi decenni rivolse l’interesse
alla floricoltura, e pian piano verso l’edilizia intensiva,
molto più redditizia.
Nell’entroterra, le campagne di media vallata continuarono a
mantenere un certo numero di addetti, in costante ed
inarrestabile diminuzione. Dagli Anni Sessanta in poi, nelle
alte valli e sulle montagne, l’agricoltura era pressoché
sparita; intanto che l’allevamento, ancora abbastanza fiorente,
fino a tutti gli Anni Settanta, si preparava a fare la medesima
fine, travolto da decisioni politiche insensate.
L’esodo delle famiglie dai villaggi vallivi, era suggerito
dall’intento di insediarsi nelle città costiere, sedi d’un modo
di vivere più comodo e proficuo, ma il disequilibrio che si era
venuto a creare, finì per mettere in scacco la totale
salvaguardia del territorio. Nelle vallate, gli appezzamenti
coltivati, quindi continuativamente frequentati, si ridussero
impetuosamente; lasciando il territorio incustodito, a rischio
di sfruttamenti spregiudicati e di eventi naturali non più
contenuti.
Dall’ultimo dopoguerra in poi, le
variazioni nello stile di vita degli abitanti del Comprensorio
Intemelio hanno determinato seri problemi in molte funzioni
collettive. Lo sradicamento dalla civiltà contadina, per la maggior
parte degli individui sopravvissuti al devastante conflitto
mondiale, ha trovato un’accelerazione non indifferente, man mano che
le giovani generazioni applicavano le tendenze suggerite dalla
moderna letteratura, ma soprattutto dai modelli comportamentali
imposti dalla sempre più invadente “televisione”.
Nel giro di qualche decennio, l’agricoltura ha perso la quasi
totalità degli addetti professionali, a vantaggio
dell’interessamento amatoriale verso la conduzione di piccoli
appezzamenti ortili ad uso personale, o limitato alle culture
stagionali irrinunciabili. La maggior parte degli agricoltori
esperti, che scelsero di rimanere nel settore, spostarono le loro
culture verso la più redditizia floricoltura; quindi
l’approvvigionamento alimentare vegetale e dall’allevamento, venne
rivolto verso l’importazione.
Dapprima, i grossisti del mercato annonario, che nel dopoguerra
aumentarono significativamente la loro presenza ed il numero, si
rifornivano sul territorio regionale, come al mercato di Albenga; ma
in seguito entrarono anche loro nel rapporto mondiale, indefinito.
Già nel primo Novecento, la ricchezza di acque dell'Alto Bacino Roiasco è stata utilizzata per produrre energia elettrica, con la costruzione di cinque condotte forzate consecutive, la prima delle quali costringeva la portata dal grandioso Lago delle Mesce, del 1916, verso la già esistente Centrale a San Dalmazzo di Tenda, del 1914. L'uscita di San Dalmazzo viene forzata verso la Centrale di Paganin, del 1917. Da li verso quella di Fontan, poi quella di Breglio, l'altra è a Piena Bassa, poi Airole e infine Bevera; queste ultime già attive nel 1906. La potenza di questo insieme industriale forniva energia alle ferrovie e ad alcune industrie savonesi e genovesi.
Oggi, dobbiamo considerare industria degradante la privatizzazione delle acque di falda; situazione che, di fatto, sta avvenendo in questi paraggi. Gli acquedotti presenti sugli ampli alvei torrentizi locali, succhiano grosse quantità del nostro liquido vitale per trasferirlo a grandi distanze, dove la dabbenaggine dei programmatori non ha saputo dosare le potenzialità di accoglienza.
In superficie, l'industria delle cave per l'estrazione di materiale inerte, che continua ad operare in modo abbastanza massiccio, com'è stato fin dal lontano passato, non tiene molto conto dello smaltimento dei fanghi di lavorazione, che potrebbero infiltrarsi nelle acque di falda. Nel settore i controlli non paiono molto diligenti.
Negli Anni Ottanta, un intenso movimento di importazioni nel campo degli animali da macello, ha intensificato la sua base operativa proprio nei valichi doganali della nostra città. Molti carri ferroviari e moltissimi autotreni, provenienti dalla Francia, ma derivati da ogni parte d'Europa, sdoganavano e verificavano il carico, onde eliminare le carcasse di eventuali animali morti, a causa delle insostenibili caratteristiche del tipo di trasporto. Per un lungo periodo di tempo, le carcasse sono state smaltite sotterrandole sommariamente in un terreno espropriato per la realizzazione del Parco Merci Ferroviario del Roia, in pieno greto torrentizio, sopra strati ghiaiosi, con la certezza dell'inquinamento per la falda acquifera sottostante.
Una ditta di imbottigliamento d'acque si era insediata a Fontan, in Media Val Roia, ma è miseramente cessata, mettendo in vetro non proprio acqua di fonte. La corrente del Roia passava prima nei pressi del deposito di residui inerti dell'inceneritore per rifiuti ospedalieri, che dovrebbe servire per smaltire gli scarti dell'Ospedale di Tenda, però, nei paraggi girano troppi autocarri telonati napoletani, che tornano a casa stelonati.
Per tutti questi motivi, la nostra falda continua a deteriorarsi, con l'aggravante che sta impoverendosi visibilmente, ma staremo a vedere. Per ora non possiamo fare altro.
Anche all’interno del Bacino Imbrifero Roiasco, molte risorse naturali sono state oggetto di sfruttamento intensivo; come molte sostanze destinate all’alimentazione, o residui della medesima, sono diventate materia prima per un artigianato evoluto o addirittura di piccole e medie industrie.
Bisogna tenere in considerazione la lungimiranza degli antichi amministratori del territorio Intemelio, i quali non hanno mai concesso che grossi complessi industriali, sovente inquinanti, venissero ad approfittare, anche soltanto della ricchezza d’acque.
Nell’Ottocento, a Ventimiglia, ben cinque concerie entrarono a far parte di quel tipo di attività, arrivando a produrre continuativamente per qualche decennio. L’inquinamento prodotto non è stato indifferente, ma il territorio ha saputo reagire, nel correre dei lustri successivi. In seguito, altre iniziative si limitarono a produzioni artigianali, pur se massicce; dove l’inquinamento non trasparì molto. La tradizione pellettiera è stata assunta da una piccola industria di calzature: “Taverna”, con stabilimento sul lungomare Cavallotti, ora in rovina.
Fin dall’Alto Medioevo, il “lagàssu” antistante le Gianchette è stato il terminal del legname proveniente per via fluviale dai boschi di Tenda, oltre quelli mandati giù dalle “caravuire” della Béndola; molto di quel legname veniva lavorato dalle “sèrre”, segherie situate in Riva Sinistra, tra le Gianchette e il deposito dei locomotori francesi. Dal 1887, una succursale della “Papéira” di Isolabona, macinava i cascami di queste segherie per renderli cellulosa da cartiera
Ancora negli Anni Cinquanta, l’industria di segheria era attiva e assai evoluta, in via Metella e via Sottoconvento, sul Vallone.
In seguito l’urbanizzazione incombente ha costretto quegli stabilimenti a trasferirsi in Roverino e nelle Braie di Camporosso.
Prima, le piantagioni abbastanza intensive di agrumi, poi quelle di erbe aromatiche nel primo Novecento, hanno portato sul territorio due industrie per la distillazione delle essenze naturali, che mettevano in campo scorie agricole inaridite; in volumi di inerti giacenti, ma non di più. Nel contesto, in Vallecrosia. la dolciaria “Fassi” ha continuato a produrre industria nel campo delle essenze, pressoché artigianalmente imitata dalla “LIS” di Peglia. La “Vermuth Principe” di Nervia era anche lei poco più che artigianale. L’industria alimentare più importante è stata il “Pastificio Ligure” di ‘via Regina’, ancora attivo nei primi Anni Sessanta.
La floricoltura è stata l’industria locale più inquinante del Novecento, che ha ridotto vaste plaghe di territorio a terra bruciata, ma una volta valutata la pericolosità, i produttori hanno saputo diversificare le colture, magari inquinando soltanto con la presenza fisica di voluminose serre.
Il sopraggiungere della linea ferroviaria, con l’andirivieni dei convogli omnibus internazionali, ha sostenuto la necessità della produzione di ghiaccio, rilevata anche dalle esigenze conservative della spedizione floricola. Alimentata dall’acqua del Roia, opportunamente incanalata; nel Borgo era efficiente “a giasseira”, che forniva ghiaccio anche a tutto il comprensorio. Lo stesso canale aveva azionato, nel tempo, la centrale elettrica della tranvia, un importante mulino da cereali ed un frantoio d’una certa importanza. I frantoi, molto diffusi in tutto il territorio, non hanno mai superato gli standard di artigianato evoluto.
Armato di un suo più capace bidone attrezzato, calava le scale per svuotarlo nel solito carretto.
Lo stile di vita che andava affermandosi nel commercio e nell’industria di servizio, negli Anni Cinquanta, fece si che il bidone del netturbino non bastasse più a contenere i rifiuti di un condominio medio; quindi, venne istituito il bidone condominiale, custodito in un angolo poco evidente, nel retro-atrio di ogni portone; foraggiato da ogni famiglia, possibilmente la sera tardi.
Il carretto del netturbino si era sviluppato in un capace camioncino, svuotato più volte in mattinata. Qualche palazzo, costruito in quegli anni, mostra ancora, lungo le scale, i puzzolenti sportelli che si aprivano sul vano a colonna posizionato in asse allo sgabuzzino dei rifiuti, proprio sopra la capace pattumiera condominiale, furberia che evitava alle famiglie di scendere col bidone, a scapito d’un minimo di “odore”, lungo le scale.
Negli Anni Sessanta, l’industria della plastica studiò le borse shopper, specializzandole anche nei sacchetti pattumiera. Entrambi questi prodotti serviranno per stipare, giornalmente, tutti quegli scarti che le industrie di servizio allestiranno per rendere gradevoli i loro prodotti ed i commercianti tratteranno in simbiosi coi prodotti da vendere, per risparmiarsi parte del servizio fino ad allora erogato.
In precedenza, la massaia usciva di casa per gli acquisti armata di una capace borsa personale, dove poneva ordinatamente i pacchetti di derrate alimentari, ben fasciate in pacchetti, magistralmente eseguiti con carta di vari colori, a seconda dei prodotti, che veniva sovente riciclata, prima del definitivo abbandono.
Oggi, tonnellate di cartoni e fogli di plastica proteggono il trasporto delle derrate, prodotte industrialmente, fino al loro giungere nel deposito del mercato di distribuzione; quivi vengono liberate le merci, gettando cartoni e plastica, mentre i prodotti, bellamente contenuti in altrettanto cartone e plastica, vengo esposti alla vendita. A casa, la massaia getta la confezione acquistata ed usa il prodotto minimale; i grandi volumi di plastica e cartone li ha certamente pagati, eppure li getta via senza neppure troppi ripensamenti.
Una decina d’anni prima che fosse pervenuto il Secondo Conflitto Mondiale, il Podestà aveva istituito la figura del netturbino, un manipolo di salariati che tenevano in ordine gli spazi pubblici cittadini, fino ad allora tenuti d’occhio da funzionari pubblici generici. Tra i netturbini, qualcuno era addetto al ritiro della spazzatura prodotta dalle famiglie; considerando che stava aumentando, a confronto di quanto accadeva precedentemente, fin dall’antichità.
Per quello specifico smaltimento, dal Medioevo, la città aveva ereditato l’uso della discarica controllata, aperta in un appropriato terreno, sito non troppo lontano del centro abitato. La “chintanàsca” ricavata in un angolo poco evidente del Ciousu, pur ricevendo fin dal Seicento la rümenta privata cittadina, non era aumentata di molto, anche perché di tanto in tanto i pezzi più voluminosi venivano bruciati; magari nel corso di uno di quei raduni popolari rituali, nei quali era prevista l’accensione di un falò.
Ancora allo scadere degli Anni Cinquanta, in città, lo scarto prodotto da ogni famiglia, nella media, non superava i tre chilogrammi settimanali, per un volume mai superiore ai trenta centimetri quadrati. Un quarto di questi scarti consisteva nei rimasugli umidi della cucina, con i resti dei pasti; il rimanente sussisteva in stracci e carta, gettati via al termine d’un lungo utilizzo di riciclo.
In quel periodo venne originato il germe dello spreco istituzionalizzato. Prima della Guerra, era uso che la mattina prestissimo, armato di un carretto attrezzato, il netturbino percorresse le strade cittadine, entrando in ogni portone, indicato da un numero civico. Nell’atrio trovava i bidoni della rumenta condominiali allineati. La famiglia, che aveva deciso per quella sera lo scarico della pattumiera, al calare della notte, portava la pattumiera di casa nel portone, allineandola con le altre. Svuotata la relativamente poca spazzatura condominiale nel carretto, il netturbino ri-allineava le pattumiere, che in prima mattinata venivano ritirate.
Nel primo dopoguerra, alla ricerca di consenso, l’Amministrazione era andata incontro alle famiglie, istituendo la raccolta porta a porta. Entrato nel portone di ogni palazzo, il netturbino saliva le scale, perché i bidoni li avrebbe trovati davanti alla porta di ogni singolo appartamento.
Questo, mise in moto l’interessata attività politica verso i
depuratori, destinata alla fasulla conquista delle “bandiere
blu”.
La proliferazione
indiscriminata di condotte fognarie, sovente mal utilizzate, a
metà degli Anni Settanta, mise in campo la Legge Merli: “Norme
per la tutela delle acque dall’inquinamento”, che poco risolse
nell’ambito dello scopo che si riprometteva, ma in compenso,
orientò a favore delle lobby industriali interi settori
dell’economia nazionale, e molto pesantemente, nella Zona
Intemelia. L’agricoltura e la floricoltura avrebbero dovuto
salassare i propri capitali per adeguarsi appieno a questa
iattura, come molti artigiani sborsarono fortune per adeguarsi,
nel minimo risolutivo. Alcuni servizi pubblici vennero serrati a
vantaggio degli erogatori di servizi privati; tra cui c’è da
annoverare la chiusura dei Pubblici Mattatoi, con la perdita
della diversificazione nelle proposte carnée.
Sovente, questi erogatori privati, invece di mantenere attivi i
costosi sistemi di filtraggio dei loro impianti, facevano in
modo di ottenere opportune deroghe, incanalando i loro cospicui
residui nella rete pubblica; la quale non riuscendo a smaltire i
copiosi volumi, richiamava la messa in campo di un ampliamento o
di un nuovo impianto pubblico.
La richiesta di abitazioni nelle città della costa, dette vita ad
una speculazione edilizia spropositata; la quale, oltre ad invadere
le rimanenti aerée agricole, ha creato la necessità di
infrastrutture per una urbanizzazione più attenta. Le acque
potabili, che erano sempre state materia d’un consumo equilibrato e
conseguente; vennero a trovarsi al centro di interessi ormai
determinati, che si misero a sfruttare i relativi approvvigionamenti
in maniera capillare, ma disordinata.
L’anomala crescita dei volumi nell’espulsione, dalle abitazioni
moderne, per le acque bianche e nere, rese inadeguati ed
insufficienti i pozzi neri; mettendo in moto una interessata
attività politica nell’assemblaggio di reti fognarie sempre più
complicate, ma sovente meno efficienti.
I fautori delle ormai corpose reti fognarie, pensarono di aver
trovato nell’ampia presenza del Mare Ligure, la meta finale per gli
imbarazzanti contenuti delle loro realizzazioni, ma il pur solido
habitat marino finì per ribellarsi.
Oltre a mettere in moto le prime
avvisaglie di allergie diffuse, che
avrebbero potuto evolversi in pericolose infezioni, lo stato
delle acque marine, presso le rive, allontanava pesantemente il
flusso dei bagnanti e di conseguenza dei villeggianti, creando la
veemente reazione dell’ imprenditoria
legata al turismo.