MULINI E
FRANTOI
Collegata alla coltivazione dei cerali, è sempre stata presente la
produzione delle farine, prima con le macine a mano, in seguito con i
mulini. Le macine ritrovate dalla moderna archeologia, sul nostro
territorio, non sono numerose, per cui si potrebbe pensare ad una
ridotta macinatura dei cereali.
Invece, gli esperti indicano come casuale, il mancato ritrovamento di
questo essenziale attrezzo del periodo preromano o dell’era romana, ma
presumano una discreta attività di macina. Nel medioevo, i consueti
notai ci segnalano l’abbondante presenza di mulini, sempre produttivi,
azionati dalle acque del Roia, ma anche da quelle del Nervia e del
Bevera. Mulini gestiti dalle famiglie dei potenti del Duecento,
che miravano, con la produzione delle farine, a controllare la politica
popolare.
È
interessante notare, come da una sequenza di atti dell’Amandolesio, si
possa dedurre una sarta di passaggio di poteri, attivato dalla potente
famiglia De Giudici, filogenovesi, per favorire l’inserimento del
congiunto Rainaldo Bulferio, tra gli industriali del macinato. Per
attivare i mulino, oltre a quelli coltivati in loco, venivano importati
cereali dalla Provenza, dal nord della Gallia e persino dall’Africa.
Infatti, erano Ventimiglia e Monaco, perché dotate dì porto, a gestire
un alto numero di mulini.
Trasportati in chicchi, per comodità, venivano macinati principalmente
nei mulini, costruiti su un isoletta nel letto del Roia, chiamata i
Guréti. Resti archeologici di un’antica molo, per attracca navale,
interrato nella zona ora prospiciente i campi da tennis, a monte del
terrapieno ferroviario, potrebbero indicare il sito molendario,
considerando anche che un tratto della zona di Peglia, si chiamava ai
Murin, ancor prima dell’avvento del moderno mulino elettrico, sito a
mezza costa. La località non risultava essere neanche molto distante dal
Lago, il porto canale. Altri mulini, riportati dall’Amandolesio,
risultavano insediati ne i Paschei.
Nel Principato di Monaco, le macine erano azionate dalle acque di Rio
Cradausina e del Rio della Noce, opportunamente incanalate verso Monte
Carlo, su quello che oggi è il centrale Boulevard des Moulins.
Altri mulini agivano a Sospello, in Alta Val Bevera, a Tenda, per l’Alta
Val Roia, così come a Pigna e Saorgio, sia per i cereali ed i legumi
secchi, che per produrre la farina di castagne. Per contro, i frantoi
per la frangitura delle olive, onde l’ottimo olio locale, trovarono
edificazione a partire dal XV secolo, in quasi tutti i centri delle
vallate, con i gumbi, mossi quasi sempre dalla forza delle acque.
Oltre alla presenza di importanti resti d’archeologia medievale, ancor
oggi, molte macine moderne, trovano posto in frantoi medievali ad:
Airole, Olivetta, Saorgio, Dolceacqua, Rocchetta, Apricale, Pigna,
Mentone, Piena e Sospello. I frantoi dell’ultima generazione sono
limitati nel numero, ma hanno acquisito una tecnologia tale da renderli,
forse meno pittoreschi, ma molto più igienici ed efficaci.
CANTINA E VINIFICAZIONE
La vite produce anche uva da tavola, ma la maggior parte della
viticoltura è destinata alla vinifìcazione. Nell’Antichità intemelia, la
produzione di vino non deve essere stata eccezionale, forse neppure
sufficiente.
Importazioni di vino sono segnalate dagli storici romani, a cominciare
dalla colonizzazione da parte dei loro Consoli. Il porto nervino era
importante scalo per navi vinarie. Da principio, il vino importato dalle
regioni del Sud della penisola italica, oltre che dalla Grecia, era
comunque usato dai soli colonizzatori.
Nel periodo imperiale, invece, il consumo era ormai esteso a tutta la
popolazione. Le cantine, pubbliche e private, hanno cominciato a essere
presenti nei piani bassi delle case, ma le cantine di produzione erano
rarissime.
Oltre che dal sud Italiano, l’importazione era attiva dalle Cinque Terre
e dalla Provenza, poi cominciò quella dal Piemonte, ancora molto vivace
tuttora. Mentre dal Settecento in poi, ogni casa colonica ha esibito
anche una attrezzata cantina dì vinificazione.
ACETO
Nell’ambito della vinificazione, bisogna considerare l’aceto, che dalle
nostre parti, quando la legge lo permetteva anche ufficialmente, veniva
prodotto da ottime màìri, ovvero quelle retine gelatinose di
miceti, che si formano spontaneamente nelle botti o nelle damigiane,
inacidendo il vino.
Questo aixéu veniva anche commercializzato, mentre oggi, soltanto
in casa propria, si può produrre ottimo aceto, fornendosi di un pezzetto
di maire‘ da tenere in apposita damigianetta, nella quale versare
i resti delle bottiglie, magari di ottimo rossese. L’aceto così
realizzato, non può essere commercializzato e deve essere consumato in
proprio.
Per diventare alimenti, dal campo di cereali e dall'uliveto, le derrate necessitano di particolari trattamenti di macina, mentre i frutti della vigna, oltre ad essere consumati direttamente, possono addivenire a divino nettare attraverso i passaggio in cantina.
Tale distilleria, oltre al lavoro sulle abbondanti vinacce,
raccolte dalle famiglie che vinificavano, produceva un ottimo e
pregiato Vermouth.
A Latte, già tre generazioni
della famiglia Vacca, producono un’insostituibile àiga nàfra,
l’acqua di fior d’arancio amaro, ancora molto richiesta,
localmente. Invece, sfidando le leggi fiscali in materia,
numerosi dilettanti ricavano, a loro uso e consumo, potenti
grappe e gradevoli acquaviti.
Nel Seicento, all’acquavite si affiancarono liquori dolci di
moda nei salotti, il rosolio ed il ratafià, cari al mondo
femminile. Le mode moderne hanno aumentato notevolmente l’uso di
distillati e liquori d’importazione. I Brandy, il Cognac, i Gin,
gli Whiskies, la Tequila, le Vodke, oppure i distillati di
melassa come il Rum, o quelli di frutta come il Calvados, il
Kirsch ed il Maraschino, hanno invaso il mercato.
Con gli spumanti, gli champagne, i Vermouth, i Fernet, i Bitter,
gli Amari, le Anisettes sono entrati negli usi alimentari,
sostituendo l’aspetto ludico del consumo antico del Vino e delle
Grappe, inteso come forma di evasione, ma anche di aggregazione
sociale.
Anche il Caffè, il Thé e il Cioccolato hanno sostituito il vino
ed i relativi distillati, in qualità di bevande, dapprima moda
elitaria, poi entrando a far parte degli usi quotidiani,
d’evasione, come vedremo.
La distillazione,
conosciuta già dagli antichi Greci e dai Romani, con temperature
molto alte fu perfezionata dagli Arabi, che la reimportarono in
Europa, dove gli alchimisti europei riuscirono ad ottenere la
distillazione del vino, mediante un rinnovato procedimento di
refrigerazione delle serpentine, per ottenere la “aqua vitae’’.
Nella Provenza catara del XII secolo, l’uso misterico dell’alcool
era riservato alle cerimonie del “consolamentum”. Infatti
quelle strane luci’ che apparivano tra i Catari durante questo rito
e venivano rilevate dall’Inquisizione, altro non erano che bagliori
provocati da alcool saturo di sale, usato nel battesimo del fuoco,
sulla testa del consolato, seguito dal battesimo dello spirito, che
consisteva nel deglutire un cordiale color oro, riccamente
profumato, dal sapore di ginepro.
Nel 1230 ha inizio l’uso profano dell’alcool, quando un laico
modenese fabbricò la prima acquavite a fine di lucro. La tecnica di
distillazione, largamente praticata nella nostra zona fin dal
Cinquecento, ha avuto un discreto incremento nei primi anni del
Novecento, tanto che ancora negli anni Settanta, era attiva la
Distilleria Principe, sulla strada del Nervia, alle falde Est di
Collasgarba.
ARTIGIANATO CASEARIO
Densa e compatta, quanto dolce e pastosa, a recöta era
una specialità dei pastori di Buggio, Realdo e Verdeggia, Briga
e Sospello.
A caglià, che
i genovesi chiamano “prescinsöa”, molto semplice da produrre,
era uno dei latticini che i pastori d Breglio, fin dal Seicento
ed ancora negli anni Quaranta distribuivano, porta a porta,
specialmente a Ventimiglia.
Un tipo di ricotta fermentata e piccante, aromatizzata con le
bacche del ginepro, u brùssu con il suo nobile bagaglio
batterico ha costituito e mantiene il bollo di originalità tra i
prodotti locali. E’ denso, omogeneo, cremoso, dolciastro con una
punta di piccante, qualità che lo rendono inimitabile ed
indispensabile in molte ricette.
E tume,
prodotte con latte ovino-caprino, ma anche quelle di latte misto
vaccino, così come quelle rare di solo latte vaccino, seno state
il “formaggio”, per i nostri vecchi, fino al XVIII secolo,
quando il Grana, o il Parmigiano , hanno invaso anche il nostro
mercato. Per rendere maggiormente affini alla tradizione le
ricette locali, sarebbe bene mescolare il più duttile Grana, col
grattugiato d’una toma locale.
Nel delicato equilibrio dell’Ecosistema intemelio, gli allevamenti
animali rappresentavano principalmente il concime, quell’arricchitore
biologico che dava impulso all’agricoltura concedendo ai prodotti
quella naturalità che li distingueva.
Dal latte bovino e da quello ovino-caprino, derivavano fin
dall’antichità, ottimi formaggi e fresche ricotte. Quagliata dal
latte fresco, nelle malghe di Fontanalba, del Sabbione, di Prearba e
di Monesi, a tùma aveva un sapore indescrivibile, di aromi al
tempo alpini e mediterranei.
Accanto alle malghe, ancor oggi si possono ritrovare le celle,
opportunamente scavate nel terreno e coperte di uno spesso strato di
pietre, dove venivano stagionati e conservati i formaggi, custoditi
nel Celerio.
Il Burro, venne fatto conoscere ai Romani dai Greci, che lo avevano
trovato tra gli Sciti, ma lo usavano soltanto come unguento per uso
esterno. Plinio parlava con sdegno di popolazioni barbare che ne
facevano uso alimentare.
Nell’Europa occidentale, non fu molto utilizzato neppure nel
Medioevo, con esclusione della Normandia; meno che mai sul nostro
territorio, dov’era difficile la sua conservazione.
I Romani usavano abbondantemente il “caseus”, formaggio importato
dalla Gallia. Dal Medioevo a tutto l’Ottocento, specialmente nei
paesi montani delle Marittime, il formaggio formava, dopo la zuppa
di vegetali, la parte essenziale del pasto.
Uova di gallina, oltre a quelle d’oca ed in seguito quelle di
tacchina, hanno portato sulle mense ricche proteine, rendendo
gustose le ricette. L’uovo quale elemento rituale e sostanza
“balsamica” della medicina popolare, ha da sempre ottenuto un
interesse particolare per la nostra gente.
L’usanza pasquale di grixurà i övi è connessa a questo
tipo di pratiche, anche magiche. Per colorare le uova sode, si
mettevano a bollire in pentole diverse, contenenti coloranti
naturali.
Nell’Ottocento, i colori venivano ricavati dalla infiorescenza
delle becìciure, o mùscari per l’azzurro, alla
radice del dénte de leùn, o tarassaco per il rosso, dallo
zafferano per il giallo e dai fondi di caffè per il marroncino.