USANZE

            CIANCIAPIN
.
       Nel nostru parlà: "Andà a cianciapìn" vuol dire: procedere saltellando su una gamba sola, o con saltelli, anche alternando il piede che tocca terra; proprio come è necessario per aderire a questo gioco, per bimbi e bimbe, che è diffuso in tutto il mondo, con infinite varianti, che sulla Penisola si chiamano: Campana, Mondo, Globo, Cielo. In Francia si chiama Marelles, nei paesi anglo-sassoni Hopscotch, in Germania Tempelhupfen.

LA VERSIONE INTEMELIA
     
Dopo aver tracciato dieci o dodici caselle numerate sul terreno, comincia il primo: gettando una pietra "a ciapéta" nello spazio numerato 1, che andrà a recuperare saltando col piede destro, mentre il sinistro resta sollevato. Così di seguito per tutte le caselle, ricordando che nella 2 dovrà poggiare il piede sinistro, il destro nella 3, e così via, senza mai toccare terra con tutti e due i piedi, finché si arriva al "cielo", che è la casella finale. Qui il giocatore può mettere a terra tutti e due i piedi. Poi torna indietro, piede sinistro nella casella 10 o dodici che sia, piede destro nella casella 9, via via finché arriva alla casella 1. Qui, fermo su un piede solo, recupera la ciapeta e salta fuori dal tracciato.
       Se la ciapeta cade su una linea, o se il giocatore mette il piede su una linea, quel giocatore va fuori gioco e nel turno successivo dovrà ricominciare da capo. Se un giocatore completa il giro senza inconvenienti, continua a giocare gettando la ciapeta nella casella 2, facendo un nuovo giro a saltelli come prima, e saltando alla fine fuori dallo schema: poi continua finché ha gettato la ciapeta in ogni casella, saltellando per tutte le case ogni volta. Quando ha completato tutti i giri senza errori, chiude gli occhi e lancia la ciapeta verso la casa. Se la ciapeta cade dentro la casa, senza toccare la riga, il giocatore rifà il giro dello schema ancora una volta, a occhi chiusi, saltando nella prima caselle e nell'ultima con tutti e due i piedi, poi nella seconda e penultima e così via fino alla casa e ritorno. Se riesce a completare anche questo giro senza toccare alcuna riga, e raccogliere la propria ciapeta nella casa e finalmente ne salta fuori alla fine, ha vinto la partita. Poi il gioco ricomincia, con un'altro giocatore.

Media Feruglio - Tavagnacco
TRADIZIONI  DA  TRAMANDARE
I GIOCHI DEI BIMBI

      Dopo il “sessantotto”, gli sviluppi verificatisi nei mezzi di comunicazione e in quelli di stampa, l’espansione nella circolazione delle idee hanno reso l’intero mondo un ipotetico villaggio, ma gli stessi “maxmedia” hanno creato tra i giovani un modo diverso di socializzare.
      La piazza del “villaggio” ha perso la vivacità che gli veniva trasmessa dai giochi socializzanti dei bimbi, nelle generazioni pre sessantotto. Per evitare che il demenziale Mazinga televisivo ed il fascino elettronico dei videogiochi cancellino irreparabilmente la tradizione è bene catalogare i divertimenti “poveri”, cosi come ci sono stati riportati dal passato.
       I nostri nonni avrebbero potuto diversificare le descrizioni da noi impostate, perché era prerogativa della tradizione orale concedere differenze, anche sostanziali, ad un gioco.  Nel corso del secolo, seguendo le ragioni dello sviluppo industriale, il significato sociale del passatempo infantile poteva essere stravolto, nel giro di duo o tre generazioni, ma tant‘è, a noi, così è stato riportato.

LE CONTE
.
     
Nei pomeriggi assolati di primavera, i maschietti si ritrovavano per strada, in piazza o nei giardini pubblici; per parte a giocate con biglie, figurine od altri divertimenti per singoli, coppie o comitive di bimbi.
Quando il numero dei giovani in piazza era sufficiente e la volontà di socializzare si faceva largo, qualcuno proponeva un gioco di gruppo, ed allora, necessariamente si provvedeva alla conta, per dividere squadre o per stabilire chi avrebbe giocato singolo, contro tutto il gruppo.

       Segue una nota tra le conte più usate:
.
LA MANZOLICA
       
Formato un cerchio, molto ravvicinato, tra tutti i partecipanti di fronte, ognuno cominciava a vocalizzare il detto: “A la man zo o o o - lica”, mentre faceva roteare le mani davanti al busto.
Quando il gruppo si sentiva formalmente accordato, sulla lunghezza musicale della vocale “o”, tenuta sospesa, dava termine al vocalizzo “ - lica”, gettando nel mezzo del cerchio la mano destra, voltata con il palmo verso l’alto o verso il basso, a propria scelta.
Il direttore della conta valutava, in immediato, se fossero più le palme in vista o quelle voltale, indi provvedeva a far allontanare dal cerchio quelle che risultavano in numero minore.
Gli altri riprendevano fino alla formazione delle squadre uniformi. Quando invece si voleva trarre un singolo, si ripeteva il “giochetto” fino a quando non fosse risultato un solo elemento con la palma posta in maniera opposta a tutti gli altri.
.
A TUCA
       
Una variante era costituita dal fatto di gettare in mezzo il pugno chiuso da dove potevano fuoriuscire un certo numero di dita tese.
Il più intraprendente tra i giocatori, che aveva già annunciato: “Da mi”, contava il risultato delle dita tese, indi prendeva a toccare se stesso e al giro, verso destra, toccava virtualmente ogni giocatore, contando fino al risultato ottenuto. Il ragazzo toccato dal numero finale era il prescelto da “a tùca”.
.
       
Altro sistema prevedeva che il più intraprendente chiedesse ad un altro a caso, un numero piuttosto alto di decine, indi partendo dalla tocca di se stesso procedeva a contare verso destra, toccando ognuno, il toccato dal numero in campo era il prescelto.
       Le bimbe praticavano questa conta vocalizzando una cantilena tradizionale, con finale tronco.
.
PARI E DESPARI
     
Tra due giocatori la scelta era più pratica, annunciando uno dei due: “Pari”, l’altro di conseguenza: “Dispari”, ci si guardava negli occhi e mentre si agitava, per tre volte, davanti al viso, il pugno destro chiuso, si modulava: “Bim, bum, bà”.
       Al “bà” si gettava nel mezzo il pugno dal quale potevano fuoriuscire un certo numero di dita tese.
Si contava il risultato fornito dalle dita tese e la parità o la disparità del numero ottenuto favoriva quello che l’aveva chiamata.
.
LA SCELTA DEI CAPI
       
Stabilita la presenza di due trascinatori o di due fortissime “teste di serie”, quello che tra i due annunciava a sorpresa: “Prìmu” aveva il diritto di scegliere il compagno che riteneva opportuno.
     Toccava ora all’altro chiamare in squadra il suo inseparabile, indi ognuno dei due tornava a praticare la sua scelta, lasciando per ultimi i giovinetti fisicamente più scarsi o meno intraprendenti.
     Comunque tutti trovavano aggregazione, assieme allo stimolo per sempre migliorarsi e le squadre erano sempre bilanciate.

 home

©  lavoro del 1992 - disposto nel gennaio 2008  - L.M.
ultima ispezione: 23 marzo 2013

 

                          ÇEVULETA
.

PREPARAZIONE
    
Un territorio di gioco poco esteso o impedito da troppi ostacoli, suggeriva giochi ugualmente movimentati, di assoluto contatto, seppur limitati nello spazio. "Çevulìn çevuléta” era tra i giochi di contatto, il più movimentato ed il più praticato.
     I presenti si dividevano in due squadre condotte da un capo carismatico plenipotenziario, che traevano dalla sorte il ruolo iniziale di ricevente e di saltante.
     La squadra ricevente poneva il primo elemento, in piedi, a ridosso di un efficace sostegno d’ancoraggio, il secondo elemento piegava la schiena, poggiando una spalla sul ventre del primo e proteggendosi la testa oltre le braccia di questi che lo sorreggeva per le ascelle.
   Ogni altro componente di questa squadra, opportu-namente scelto dal capo, veniva posto nei punti strategici di una catena di schiene pronta a ricevere le successive planate avversarie, ancorando le braccia al bacino del precedente e proteggendo la testa sotto il ventre dello stesso.
.
IL BALZO PLANATO
     L’altra squadra predisponeva il turno di rincorsa secondo l’abilità di balzo, riconosciuta in ogni suo elemento; ed anche in base a come gli avversari si disponevano in catena, ricordando le debolezze di ogni avversario.
    A catena formata, il primo dei saltatori, eseguita la rincorsa, poggiava le mani sull’ultima schiena e praticava un balzo planato, nell’intenzione di finire sulla prima schiena della catena, lasciando il maggior spazio possibile per le successive planate.
     Giunto sulla schiena non poteva più muovere, anche se fosse caduto malamente e non avesse provveduto a dotarsi di un ancoraggio deciso, ne avesse provveduto all’importante particolare di tenere le ginocchia piegate in alto, per diminuire la possibilità di toccare terra.
     I componenti della catena provvedevano a piccole astuzie, muovendo ed ondeggiando durante il balzo avversario, per mettere lo in condizione di un volo sbagliato ed una planata scomposta.
.
LA RESISTENZA
   Se un giocatore balzante, stimolato dalle astuzie avversarie, fosse finito con un piede a terra, o fosse scivolato malamente; si riprendeva immediatamente il gioco da capo, ma con la sostituzione nei ruoli delle squadre.
     Terminati i balzi con opportune fortune, cominciava una dura lotta di accalorata resistenza. I ragazzi della catena di schiene cercavano di non cedere al notevole peso antagonista, mentre praticavano astuzie per esasperare eventuali errori di caduta avversaria.
     Se avessero ceduto i sottostanti si ricominciava il gioco senza cambiare i ruoli, se avessero sbagliato i soprastanti si sarebbero tramutati in sottostanti.
     Se non fosse accaduto qualche cedimento dei sottostanti, ne’ spostamenti o cadute da parte dei soprastanti, e la resistenza dei primi cominciasse a vacillare, sarebbe toccato al capo dei sottostanti prendere la decisione di gridare, scandendo: "çevulìn, çevulìn, çevuléta”.
.
ÇEVULÌN
     Nel corso del lungo grido scandito dal capo sottostante, i giovani soprastanti avrebbero dovuto immediatamente smontare, facendosi trovare al più presto, ben lontano dalla catena di schiene.
     Questo, molte volte, non poteva avvenire alla spicciolata, perché, cercando di rompere le resistenze degli avversari più deboli, avveniva che i saltanti mettessero in atto strategie di accavallamento di più pesi sulla medesima schiena; quindi gli ammassi di corpi accaldati non sempre erano di facile scioglimento.
     In questa evenienza, se al termine della parola “çevuléta” vi fossero ancora in corso fratture della catena, il gioco ricominciava con l’inversione dei ruoli. Per contro, se l’operazione di scavalcamento e decentramento fosse avvenuta nei tempi previsti, si ricominciava con gli stessi ruoli.

     Di solito l’esecuzione filava liscia, a meno di pacchiani errori di salto o banali distrazioni, così la sequenza si. preparava a ravvivarsi, con: ”A famìa d’i Carregàssi a 1’é in sciù pònte ch’a l’arìva”, di certo seguita da un categorico: ”A l’è arivà”, salto che doveva essere eseguito da tutta la fila, esagerando la pressione delle mani sulla schiena del malcapitato penitente.
.
SEQUENZA LIBERATORIA
    
Con la frase: ”U surdatìn de ciùmbu duv’u pica u résta, chi l’u tòca u l’è sùta” si dava inizio ad una sequenza liberatoria per il penitente, infatti appena giunto a terra dopo il salto, ogni avversario avrebbe dovuto rimanere ben fermo sul posto, sugli attenti come un soldatino.
     Chi saltava successivamente doveva stare ben attento a non toccare i compagni già presenti sul luogo, pena ovviamente la sostituzione del penitente e la ripresa del gioco da capo.
     Se vi era intesa tra i saltatori e tutti collaboravano, i primi nel saltare cercavano di eseguire salti i più lontani possibile, in modo da non compromettere i saltatori successivi.
     In tal caso la frase seguente era: “U surdatìn de gùma duv’u pìca u bàla, chi l’u tòca u l’è sùta”, stesso comportamento, ma in questo caso al termine del balzo si doveva saltellare a piedi uniti, rigidamente sul posto.
   In questo caso la collaborazione dei saltanti era avvantaggiata dal piccolo imbroglio di allontanarsi impercettibilmente dal penitente, ad ogni saltello di routine.
     Benché le difficoltà dei saltanti aumentassero in ragione all’esagitato ballo dei già presenti. Comunque, se tutto fosse andato liscio, il prosieguo dava tono al ragazzo sotto, viste le difficoltà quasi insormontabili dell’esercizio.
.
LE DIFFICOLTA’
    
Una volta saltato al detto: ”A marìna a l’è in bunàssa” il penitente ed il conduttore si disponevano affiancati nel verso della rincorsa, accovacciati su quattro zampe, ben serrati ai gomiti, con la schiena ricurva e la testa protetta tra le braccia incrociate sulla nuca.
     Ogni concorrente vedeva aumentare le difficoltà del proprio salto, perché ognuno, prima di lui, si disponeva nella posizione descritta aumentando la fila.
     Quando questa fosse stata troppo lunga per le capacità saltatorie di qualcuno, questi sarebbe rovinato sopra la schiena di qualche compagno, causando, oltre a qualche ammaccatura, la ripresa, da capo, del gioco.
     Una lista troppo breve di giocatori, una esagerata bravura dei saltatori, od una fortunata lista dei salti in ordine crescente di abilità personali, poteva portare al proseguimento, con l’esercizio: ”A marina a l’è in bürasca”, simile al precedente con una eccezione.
.
L’IMPOSSIBILE
    
Il penitente si poneva in ginocchioni, mentre il conduttore stava accovacciato con le ginocchia semi distese, il secondo saltatore, ginocchioni, mentre il terzo accovacciato, coi gomiti tra le ginocchia e le mani serrate a proteggere la nuca e così via, agitandosi trasversalmente alla rincorsa ed aumentando così, notevolmente, le difficoltà della prova.
     Se anche questa prova ai limiti del possibile, avesse concesso ai saltatori di terminare indenni, il gioco sarebbe ripreso, da capo, con il medesimo ragazzo predestinato penitente.

                                CIOTÉTI
.
IL TERRENO DI GIOCO
     Tra i giochi eseguiti con l’ausilio di una palletta, quello denominati “Ciotéti” era senza dubbio la più originale ideazione prodotta dalla generazione del quarantotto.
     Il campo di gioco preferenziale e quasi unico in città, era la piazza del Comune, in quei tempi non ancora pavimentata, che aveva per fondo un battuto di terriccio calcareo biancastro, duro e piuttosto abrasivo.
Il tratto di facciata, sgombro di finestre, dal lato giardini, che non conteneva ancora l’aberrante finestrone “architettonico moderno” incompiuto, era l’ideale per far da sponda al gioco.
     Ogni giocatore partecipante scavava, o meglio rigenerava uno delle buchette a ridosso della base del muro, ponendovi un segno di riconoscimento, era il suo “ciotétu”.
.
L'INIZIO
     Trasferito, il complesso dei partecipanti, dietro una linea parallela, tracciata ad una distanza di sei metri sull’allineamento delle buchette; uno dei giocatori, attivato dall’iniziatore, assumeva il ruolo di conduttore e si batteva contro tutti gli altri che reagivano alla caccia autonomamente.
     L’iniziatore faceva rotolare la palla verso le buchette, cercando di centrare quello di uno dei partecipanti. Se vi riusciva il tenutario della buchetta raggiunto diventava il conduttore. Se centrava la propria buchetta o la palla si fermava fuori dei buchi, ne assumeva egli stesso il ruolo.
     Il conduttore prescelto correva a raccogliere la palla e con questa cercava di colpire, lanciandola, un altro giocatore che intanto si era dato alla fuga, dal preciso istante della raccolta della palla.
     Il giocatore che si fosse allontanato dalla linea prima della raccolta della palla, sarebbe stato condannato al ruolo di conduttore, riprendendo il gioco daccapo, con il pegno assegnato al fuggitivo.
     Nel caso di tiro, se fosse riuscito a colpirlo avrebbe ottenuto la propria liberazione, condannando l’avversario alla caccia. Se non fosse riuscito, avrebbe dovuto raccattare la palla, tornando ad inseguire qualcuno.
     Tre errori consecutivi del conduttore lo condannavano al pegno, mentre il gioco riprendeva dalle buchette, con il perdente nelle vesti di iniziatore.
.
VARIANTI
     Giudicando difficoltosa la situazione creata da una fuga facilitata da troppi impedimenti alla raccolta, il conduttore poteva scegliere di gridare: “müràglia”, bloccando così la corsa degli avversari, mentre egli lanciava con forza calibrata la palla, alta, contro il muro sovrapposto alle buchette, per riprenderla al volo nel balzo di ritorno.
     Il fuggitivo che non si fosse fermato al richiamo, al giudizio della maggior parte degli altri avrebbe pagato pegno, divenendo l’iniziatore della fase successiva.
     Se il conduttore non fosse stato abile a raccogliere la palla nel rimbalzo avrebbe comunque pagato pegno, in caso di presa, intelligentemente calibrata dal tiro, avrebbe dovuto trovarsi ad una distanza ottimale dai più prossimi fuggitivi, con la facile possibilità di colpirli da fermi, concedendo e sopportando, comunque, le stesse regole del tiro in movimento.

GIOCHI INFANTILI ATTREZZATI
.

     
Per gioco attrezzato si intende quel passatempo per il quale fosse stato indispensabile l’uso di materiali definiti. Dagli Anni Cinquanta, uno degli attrezzi più usati era una piccola palla di gomma. La "baléta", una pallina di sei centimetri, che il commercio di allora metteva a disposizione, costruita in gomma piena, morbida ed elastica, poco meno che una balla da tennis, la quale, in mancanza d'altro funzionava altrettanto bene.
      Fino al 1943, una delle poche attrezzature per giocare, frutto del lavoro artigianale, era la "sgavàudura", la trottola di legno, col puntale metallico.

      A BUTÌA D’ÖRIU
.
PRELIMINARI
    
Avendo a disposizione uno spazio, anche ristretto, ed un numero limitato ad una decina di giocatori, si provvedeva a fare la conta, per stabilire il penitente, cioè chi avrebbe dovuto “sta’ sùta”, indi colui che avrebbe guidato il gioco ed anche la sequenza di salto di ogni giocatore.
     Chi fosse risultato il penitente di turno, andava a disporsi a metà dello spazio a disposizione, dando la schiena ai compagni, disposti in fila; piegando leggermente la schiena e serrando la testa tra le mani, raccolte sopra la nuca, assumeva la posizione chiamata “tésta in cascéta”
     Il conduttore, presa la rincorsa, saltava, facendo leva sulle mani appoggiate sopra la schiena di chi stava sotto, declamando, ad alta voce, tratti di una cantilena portata a memoria per intere generazioni.
     Gli altri giocatori, rispettando la conta, dovevano imitare il salto e ripetere la sequenza, con dovute eccezioni.
.
LE SOSTITIZIONI
    
Molto spesso, uno qualunque dei saltanti, avrebbe sbagliato, sia nell’enunciare che nel saltare o nel muoversi, di conseguenza avrebbe dovuto “anda’ sùta”, sostituendo il penitente, che rilevava il suo turno nel saltare.
     In quel caso il gioco riprendeva da capo, con quella cantilena, una precisa sequenza di comandi che se non veniva sciorinata nel giusto ordine dal conduttore, poneva questi nella condizione di sostituzione del penitente.
.
LA CANTILENA
   
Durante la rincorsa il conduttore enunciava ad alta voce:”A butìa d’öriu”, saltava a cavalletta, cadendo a piedi pari, indi defilava lasciando spazio al secondo giocatore.
      Questi ripetendo la frase ed imitando il salto, defilava, nel corso d’una serrata e veloce esecuzione da parte di tutti i giocatori.
     Portata a termine la prima prova, indenne, da parte di tutti i partecipanti, il conduttore saltando, enunciava: ”A cagnéta a dòrme”.
     Allora, tutti gli altri dovevano saltare, nel perfetto silenzio di tutta la compagnia, fino al termine della seconda prova, mentre il penitente cercava di rompere questo silenzio imposto, invitando e provocando, con tutti i mezzi, la parola degli avversari.
   Se vi fosse riuscito avrebbe potuto dissociarsi dalla penitenza, facendo andar sotto il malcapitato distratto.
     Toccava al conduttore rompere il silenzio, quando saltando per la terza prova, avrebbe dovuto farlo senza poggiare le mani sulla schiena, ma dando una pacca sul sedere del penitente, scandire: ”Se a dòrme a descierému cun ina pàta in sciù cü au vöru” e questo dovevano eseguirlo tutti.
.
IL SEGUITO
    
La sequenza che seguiva era tutta da imitare senza eccezioni, la locuzione da ripetere era: ”Càsse e cügliai i se fan de légnu”, che non poteva essere seguita che dall’espressione: ”De légnu e de l’utùn”.
     Rimarcando ad alta voce, veniva eseguita: ”Chi le sùta l’è in belinùn”, seguito dall’ovvia: ”Chi l’è sùrva l’è in bràvu garsùn”.    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giochi di Bimbi

 

    Monte Abeglio