TRADIZIONI DA
TRAMANDARE
I GIOCHI DEI
BIMBI
Dopo il “sessantotto”, gli sviluppi verificatisi nei mezzi di
comunicazione e in quelli di stampa, l’espansione nella
circolazione delle idee hanno reso l’intero mondo un ipotetico
villaggio, ma gli stessi “maxmedia” hanno creato tra i giovani
un modo diverso di socializzare.
La piazza del “villaggio” ha perso la vivacità
che gli veniva trasmessa dai giochi socializzanti dei bimbi,
nelle generazioni pre sessantotto. Per evitare che il demenziale
Mazinga televisivo ed il fascino elettronico dei videogiochi
cancellino irreparabilmente la tradizione è bene catalogare i
divertimenti “poveri”, cosi come ci sono stati riportati dal
passato.
I nostri nonni avrebbero potuto
diversificare le descrizioni da noi impostate, perché era
prerogativa della tradizione orale concedere differenze, anche
sostanziali, ad un gioco. Nel corso del secolo, seguendo
le ragioni dello sviluppo industriale, il significato sociale
del passatempo infantile poteva essere stravolto, nel giro di
duo o tre generazioni, ma tant‘è, a noi, così è stato riportato.
LE CONTE
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Nei pomeriggi
assolati di primavera, i maschietti si ritrovavano per strada,
in piazza o nei giardini pubblici; per parte a giocate con
biglie, figurine od altri divertimenti per singoli, coppie o
comitive di bimbi.
Quando il numero dei giovani in piazza era sufficiente e la
volontà di socializzare si faceva largo, qualcuno proponeva un
gioco di gruppo, ed allora, necessariamente si provvedeva alla
conta, per dividere squadre o per stabilire chi avrebbe giocato
singolo, contro tutto il gruppo.
Segue una nota tra le conte più usate:
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LA MANZOLICA
Formato un cerchio, molto
ravvicinato, tra tutti i partecipanti di fronte, ognuno
cominciava a vocalizzare il detto: “A la man zo o o o - lica”,
mentre faceva roteare le mani davanti al busto.
Quando il gruppo si sentiva formalmente accordato, sulla
lunghezza musicale della vocale “o”, tenuta sospesa, dava
termine al vocalizzo “ - lica”, gettando nel mezzo del cerchio
la mano destra, voltata con il palmo verso l’alto o verso il
basso, a propria scelta.
Il direttore della conta valutava, in immediato, se fossero più
le palme in vista o quelle voltale, indi provvedeva a far
allontanare dal cerchio quelle che risultavano in numero minore.
Gli altri riprendevano fino alla formazione delle squadre
uniformi. Quando invece si voleva trarre un singolo, si ripeteva
il “giochetto” fino a quando non fosse risultato un solo
elemento con la palma posta in maniera opposta a tutti gli
altri.
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A TUCA
Una variante era
costituita dal fatto di gettare in mezzo il pugno chiuso da dove
potevano fuoriuscire un certo numero di dita tese.
Il più intraprendente tra i giocatori, che aveva già annunciato:
“Da mi”, contava il risultato delle dita tese, indi prendeva a
toccare se stesso e al giro, verso destra, toccava virtualmente
ogni giocatore, contando fino al risultato ottenuto. Il ragazzo
toccato dal numero finale era il prescelto da “a tùca”.
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Altro sistema prevedeva che il
più intraprendente chiedesse ad un altro a caso, un numero
piuttosto alto di decine, indi partendo dalla tocca di se stesso
procedeva a contare verso destra, toccando ognuno, il toccato
dal numero in campo era il prescelto.
Le bimbe praticavano questa conta
vocalizzando una cantilena tradizionale, con finale tronco.
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PARI E DESPARI
Tra due giocatori la scelta era più
pratica, annunciando uno dei due: “Pari”, l’altro di
conseguenza: “Dispari”, ci si guardava negli occhi e mentre si
agitava, per tre volte, davanti al viso, il pugno destro chiuso,
si modulava: “Bim, bum, bà”.
Al “bà” si gettava nel mezzo il pugno dal
quale potevano fuoriuscire un certo numero di dita tese.
Si contava il risultato fornito dalle dita tese e la parità o la
disparità del numero ottenuto favoriva quello che l’aveva
chiamata.
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LA SCELTA DEI CAPI
Stabilita la presenza di
due trascinatori o di due fortissime “teste di serie”, quello
che tra i due annunciava a sorpresa: “Prìmu” aveva il diritto di
scegliere il compagno che riteneva opportuno.
Toccava ora all’altro chiamare in squadra il suo
inseparabile, indi ognuno dei due tornava a praticare la sua
scelta, lasciando per ultimi i giovinetti fisicamente più scarsi
o meno intraprendenti.
Comunque tutti trovavano aggregazione, assieme allo
stimolo per sempre migliorarsi e le squadre erano sempre
bilanciate.
© lavoro del 1992 - disposto
nel gennaio 2008 - L.M.
ultima ispezione:
23 marzo 2013
ÇEVULETA
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PREPARAZIONE
Un territorio
di gioco poco esteso o impedito da troppi ostacoli, suggeriva
giochi ugualmente movimentati, di assoluto contatto, seppur
limitati nello spazio. "Çevulìn çevuléta” era tra i giochi di
contatto, il più movimentato ed il più praticato.
I presenti
si dividevano in due squadre condotte da un capo carismatico
plenipotenziario, che traevano dalla sorte il ruolo iniziale di
ricevente e di saltante.
La squadra
ricevente poneva il primo elemento, in piedi, a ridosso di un
efficace sostegno d’ancoraggio, il secondo elemento piegava la
schiena, poggiando una spalla sul ventre del primo e
proteggendosi la testa oltre le braccia di questi che lo
sorreggeva per le ascelle.
Ogni altro componente di
questa squadra, opportu-namente scelto dal capo, veniva posto
nei punti strategici di una catena di schiene pronta a ricevere
le successive planate avversarie, ancorando le braccia al bacino
del precedente e proteggendo la testa sotto il ventre dello
stesso.
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IL BALZO PLANATO
L’altra
squadra predisponeva il turno di rincorsa secondo l’abilità di
balzo, riconosciuta in ogni suo elemento; ed anche in base a
come gli avversari si disponevano in catena, ricordando le
debolezze di ogni avversario.
A catena formata, il
primo dei saltatori, eseguita la rincorsa, poggiava le mani
sull’ultima schiena e praticava un balzo planato,
nell’intenzione di finire sulla prima schiena della catena,
lasciando il maggior spazio possibile per le successive planate.
Giunto sulla
schiena non poteva più muovere, anche se fosse caduto malamente
e non avesse provveduto a dotarsi di un ancoraggio deciso, ne
avesse provveduto all’importante particolare di tenere le
ginocchia piegate in alto, per diminuire la possibilità di
toccare terra.
I componenti
della catena provvedevano a piccole astuzie, muovendo ed
ondeggiando durante il balzo avversario, per mettere lo in
condizione di un volo sbagliato ed una planata scomposta.
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LA RESISTENZA
Se un giocatore balzante,
stimolato dalle astuzie avversarie, fosse finito con un piede a
terra, o fosse scivolato malamente; si riprendeva immediatamente
il gioco da capo, ma con la sostituzione nei ruoli delle
squadre.
Terminati i balzi
con opportune fortune, cominciava una dura lotta di accalorata
resistenza. I ragazzi della catena di schiene cercavano di non
cedere al notevole peso antagonista, mentre praticavano astuzie
per esasperare eventuali errori di caduta avversaria.
Se avessero
ceduto i sottostanti si ricominciava il gioco senza cambiare i
ruoli, se avessero sbagliato i soprastanti si sarebbero
tramutati in sottostanti.
Se non fosse
accaduto qualche cedimento dei sottostanti, ne’ spostamenti o
cadute da parte dei soprastanti, e la resistenza dei primi
cominciasse a vacillare, sarebbe toccato al capo dei sottostanti
prendere la decisione di gridare, scandendo: "çevulìn, çevulìn,
çevuléta”.
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ÇEVULÌN
Nel corso del
lungo grido scandito dal capo sottostante, i giovani soprastanti
avrebbero dovuto immediatamente smontare, facendosi trovare al
più presto, ben lontano dalla catena di schiene.
Questo, molte
volte, non poteva avvenire alla spicciolata, perché, cercando di
rompere le resistenze degli avversari più deboli, avveniva che i
saltanti mettessero in atto strategie di accavallamento di più
pesi sulla medesima schiena; quindi gli ammassi di corpi
accaldati non sempre erano di facile scioglimento.
In questa
evenienza, se al termine della parola “çevuléta” vi fossero
ancora in corso fratture della catena, il gioco ricominciava con
l’inversione dei ruoli. Per contro, se l’operazione di
scavalcamento e decentramento fosse avvenuta nei tempi previsti,
si ricominciava con gli stessi ruoli.
Di solito
l’esecuzione filava liscia, a meno di pacchiani errori di salto
o banali distrazioni, così la sequenza si. preparava a
ravvivarsi, con: ”A famìa d’i Carregàssi a 1’é in sciù pònte
ch’a l’arìva”, di certo seguita da un categorico: ”A l’è arivà”,
salto che doveva essere eseguito da tutta la fila, esagerando la
pressione delle mani sulla schiena del malcapitato penitente.
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SEQUENZA LIBERATORIA
Con la frase:
”U surdatìn de ciùmbu duv’u pica u résta, chi l’u tòca u l’è
sùta” si dava inizio ad una sequenza liberatoria per il
penitente, infatti appena giunto a terra dopo il salto, ogni
avversario avrebbe dovuto rimanere ben fermo sul posto, sugli
attenti come un soldatino.
Chi saltava
successivamente doveva stare ben attento a non toccare i
compagni già presenti sul luogo, pena ovviamente la sostituzione
del penitente e la ripresa del gioco da capo.
Se vi era
intesa tra i saltatori e tutti collaboravano, i primi nel
saltare cercavano di eseguire salti i più lontani possibile, in
modo da non compromettere i saltatori successivi.
In tal caso
la frase seguente era: “U surdatìn de gùma duv’u pìca u bàla,
chi l’u tòca u l’è sùta”, stesso comportamento, ma in questo
caso al termine del balzo si doveva saltellare a piedi uniti,
rigidamente sul posto.
In questo caso la
collaborazione dei saltanti era avvantaggiata dal piccolo
imbroglio di allontanarsi impercettibilmente dal penitente, ad
ogni saltello di routine.
Benché le
difficoltà dei saltanti aumentassero in ragione all’esagitato
ballo dei già presenti. Comunque, se tutto fosse andato liscio,
il prosieguo dava tono al ragazzo sotto, viste le difficoltà
quasi insormontabili dell’esercizio.
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LE DIFFICOLTA’
Una volta
saltato al detto: ”A marìna a l’è in bunàssa” il penitente ed il
conduttore si disponevano affiancati nel verso della rincorsa,
accovacciati su quattro zampe, ben serrati ai gomiti, con la
schiena ricurva e la testa protetta tra le braccia incrociate
sulla nuca.
Ogni
concorrente vedeva aumentare le difficoltà del proprio salto,
perché ognuno, prima di lui, si disponeva nella posizione
descritta aumentando la fila.
Quando questa
fosse stata troppo lunga per le capacità saltatorie di qualcuno,
questi sarebbe rovinato sopra la schiena di qualche compagno,
causando, oltre a qualche ammaccatura, la ripresa, da capo, del
gioco.
Una lista
troppo breve di giocatori, una esagerata bravura dei saltatori,
od una fortunata lista dei salti in ordine crescente di abilità
personali, poteva portare al proseguimento, con l’esercizio: ”A
marina a l’è in bürasca”, simile al precedente con una
eccezione.
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L’IMPOSSIBILE
Il penitente
si poneva in ginocchioni, mentre il conduttore stava
accovacciato con le ginocchia semi distese, il secondo
saltatore, ginocchioni, mentre il terzo accovacciato, coi gomiti
tra le ginocchia e le mani serrate a proteggere la nuca e così
via, agitandosi trasversalmente alla rincorsa ed aumentando
così, notevolmente, le difficoltà della prova.
Se anche
questa prova ai limiti del possibile, avesse concesso ai
saltatori di terminare indenni, il gioco sarebbe ripreso, da
capo, con il medesimo ragazzo predestinato penitente.
CIOTÉTI
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IL TERRENO DI GIOCO
Tra i giochi
eseguiti con l’ausilio di una palletta, quello denominati
“Ciotéti” era senza dubbio la più originale ideazione prodotta
dalla generazione del quarantotto.
Il campo di gioco
preferenziale e quasi unico in città, era la piazza del Comune,
in quei tempi non ancora pavimentata, che aveva per fondo un
battuto di terriccio calcareo biancastro, duro e piuttosto
abrasivo.
Il tratto di facciata, sgombro di finestre, dal lato giardini,
che non conteneva ancora l’aberrante finestrone “architettonico
moderno” incompiuto, era l’ideale per far da sponda al gioco.
Ogni giocatore
partecipante scavava, o meglio rigenerava uno delle buchette a
ridosso della base del muro, ponendovi un segno di
riconoscimento, era il suo “ciotétu”.
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L'INIZIO
Trasferito, il
complesso dei partecipanti, dietro una linea parallela,
tracciata ad una distanza di sei metri sull’allineamento delle
buchette; uno dei giocatori, attivato dall’iniziatore, assumeva
il ruolo di conduttore e si batteva contro tutti gli altri che
reagivano alla caccia autonomamente.
L’iniziatore
faceva rotolare la palla verso le buchette, cercando di centrare
quello di uno dei partecipanti. Se vi riusciva il tenutario
della buchetta raggiunto diventava il conduttore. Se centrava la
propria buchetta o la palla si fermava fuori dei buchi, ne
assumeva egli stesso il ruolo.
Il conduttore
prescelto correva a raccogliere la palla e con questa cercava di
colpire, lanciandola, un altro giocatore che intanto si era dato
alla fuga, dal preciso istante della raccolta della palla.
Il giocatore che
si fosse allontanato dalla linea prima della raccolta della
palla, sarebbe stato condannato al ruolo di conduttore,
riprendendo il gioco daccapo, con il pegno assegnato al
fuggitivo.
Nel caso di tiro,
se fosse riuscito a colpirlo avrebbe ottenuto la propria
liberazione, condannando l’avversario alla caccia. Se non fosse
riuscito, avrebbe dovuto raccattare la palla, tornando ad
inseguire qualcuno.
Tre errori
consecutivi del conduttore lo condannavano al pegno, mentre il
gioco riprendeva dalle buchette, con il perdente nelle vesti di
iniziatore.
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VARIANTI
Giudicando
difficoltosa la situazione creata da una fuga facilitata da
troppi impedimenti alla raccolta, il conduttore poteva scegliere
di gridare: “müràglia”, bloccando così la corsa degli avversari,
mentre egli lanciava con forza calibrata la palla, alta, contro
il muro sovrapposto alle buchette, per riprenderla al volo nel
balzo di ritorno.
Il fuggitivo che
non si fosse fermato al richiamo, al giudizio della maggior
parte degli altri avrebbe pagato pegno, divenendo l’iniziatore
della fase successiva.
Se il conduttore
non fosse stato abile a raccogliere la palla nel rimbalzo
avrebbe comunque pagato pegno, in caso di presa,
intelligentemente calibrata dal tiro, avrebbe dovuto trovarsi ad
una distanza ottimale dai più prossimi fuggitivi, con la facile
possibilità di colpirli da fermi, concedendo e sopportando,
comunque, le stesse regole del tiro in movimento.
GIOCHI
INFANTILI ATTREZZATI
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Per gioco attrezzato si intende quel
passatempo per il quale fosse stato indispensabile l’uso di materiali
definiti. Dagli Anni Cinquanta, uno degli attrezzi più usati era una piccola palla di
gomma. La "baléta", una pallina di sei centimetri, che il commercio di allora metteva a
disposizione, costruita in gomma piena, morbida ed elastica,
poco meno che una balla da tennis, la quale, in mancanza d'altro
funzionava altrettanto bene.
Fino al 1943, una delle poche
attrezzature per giocare, frutto del lavoro artigianale, era la
"sgavàudura", la trottola di legno, col puntale metallico.
A BUTÌA D’ÖRIU
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PRELIMINARI
Avendo a
disposizione uno spazio, anche ristretto, ed un numero limitato
ad una decina di giocatori, si provvedeva a fare la conta, per
stabilire il penitente, cioè chi avrebbe dovuto “sta’ sùta”,
indi colui che avrebbe guidato il gioco ed anche la sequenza di
salto di ogni giocatore.
Chi fosse
risultato il penitente di turno, andava a disporsi a metà dello
spazio a disposizione, dando la schiena ai compagni, disposti in
fila; piegando leggermente la schiena e serrando la testa tra le
mani, raccolte sopra la nuca, assumeva la posizione chiamata
“tésta in cascéta”
Il
conduttore, presa la rincorsa, saltava, facendo leva sulle mani
appoggiate sopra la schiena di chi stava sotto, declamando, ad
alta voce, tratti di una cantilena portata a memoria per intere
generazioni.
Gli altri
giocatori, rispettando la conta, dovevano imitare il salto e
ripetere la sequenza, con dovute eccezioni.
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LE SOSTITIZIONI
Molto spesso,
uno qualunque dei saltanti, avrebbe sbagliato, sia
nell’enunciare che nel saltare o nel muoversi, di conseguenza
avrebbe dovuto “anda’ sùta”, sostituendo il penitente, che
rilevava il suo turno nel saltare.
In quel caso
il gioco riprendeva da capo, con quella cantilena, una precisa
sequenza di comandi che se non veniva sciorinata nel giusto
ordine dal conduttore, poneva questi nella condizione di
sostituzione del penitente.
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LA CANTILENA
Durante la rincorsa
il conduttore enunciava ad alta voce:”A butìa d’öriu”, saltava a
cavalletta, cadendo a piedi pari, indi defilava lasciando spazio
al secondo giocatore.
Questi
ripetendo la frase ed imitando il salto, defilava, nel corso
d’una serrata e veloce esecuzione da parte di tutti i giocatori.
Portata a
termine la prima prova, indenne, da parte di tutti i
partecipanti, il conduttore saltando, enunciava: ”A cagnéta a
dòrme”.
Allora, tutti
gli altri dovevano saltare, nel perfetto silenzio di tutta la
compagnia, fino al termine della seconda prova, mentre il
penitente cercava di rompere questo silenzio imposto, invitando
e provocando, con tutti i mezzi, la parola degli avversari.
Se vi fosse riuscito
avrebbe potuto dissociarsi dalla penitenza, facendo andar sotto
il malcapitato distratto.
Toccava al
conduttore rompere il silenzio, quando saltando per la terza
prova, avrebbe dovuto farlo senza poggiare le mani sulla
schiena, ma dando una pacca sul sedere del penitente, scandire:
”Se a dòrme a descierému cun ina pàta in sciù cü au vöru” e
questo dovevano eseguirlo tutti.
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IL SEGUITO
La sequenza
che seguiva era tutta da imitare senza eccezioni, la locuzione
da ripetere era: ”Càsse e cügliai i se fan de légnu”, che non
poteva essere seguita che dall’espressione: ”De légnu e de l’utùn”.
Rimarcando ad
alta voce, veniva eseguita: ”Chi le sùta l’è in belinùn”,
seguito dall’ovvia: ”Chi l’è sùrva l’è in bràvu garsùn”.
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