Le terribili peripezie di un ragazzo di Bevera, fatto prigioniero dai corsari turchi e ridotto in schiavitù
UN VENTIMIGLIESE A LEPANTO
Il primo Settembre 1571 ritrovandosi il Benedetto col suo padrone al seguito della flotta Turca nei pressi dell’isola di Corfù, venne assieme ad altri sbarcato a far razzia di animali per rifornire la nave. Approfittando dell’occasione e del fatto che Corfù era allora in mano ai Cristiani fuggì dai suoi compagni e poco dopo venne catturato da un gruppo di cavalieri di un presidio Cristiano. Questi non tennero in alcun conto le sue richieste di esser lasciato libero, anzi alla fine del mese, essendo arrivata la flotta Cristiana, venne da essi venduto al Capitano Comandante la Galea Capitana Genovese del signor Nicolò Dona.
Imbarcato sulla stessa nave pochi giorni dopo si trovò ad essere testimone alla storica Battaglia. Non partecipò ad essa, sappiamo infatti che le navi Genovesi assistettero da lontano senza intervenirvi.
Ritornate le navi in Genova, il Martino riuscì a riscattarsi e fece ritorno alla sua Città dove, ritrovati i propri genitori, rivolse istanza al Vescovo al fine di poter abiurare la Fede di Maometto e ritornare alla Fede della Santa Chiesa.
Il che gli venne concesso ed il 30 marzo 1572 fece solenne atto di Abiura innanzi al Vescovo di Albenga Carlo Cigala, allora in Ventimiglia, che gli impose la penitenza di recarsi “nudis pedibus“ ad un Santuario presso Mentone e lì assistere devotamente alla Santa Messa.
Del tutto stese testimonianza il Notaio Giobatta Galiano
allora Segretario Vescovile
(Archivio Vescovile di Ventimiglia - Civilium, Filza 1)
LA VOCE INTEMELIA anno LI n. 11 - novembre 1996
Lo scontro navale di Lepanto tra le flotte Cristiana e Turca segnò una svolta nella storia. Da documenti esistenti nell’Archivio Vescovile della città veniamo a conoscere che in questa battaglia fu testimone un Ventimigliese, certo Benedetto Martino.
Della sua presenza in quel luogo e in quel giorno apprendiamo da un Atto di Abiura della Fede Maomettana in data 30 marzo 1572.
Tutto ebbe inizio nella notte fra il 25 e 26 agosto 1563 quando, in piena notte, le navi del Corsaro Turco Ulug-Alì, comunemente conosciuto anche come Uccialli, o Occhiali, si ancorarono nella rada del luogo di Latte e sbarcarono innumerevoli armati. Forse loro scopo era di attaccare Ventimiglia perché infatti risalirono il vallone di Latte e giunti a Sant’Antonio da lì discesero verso Bevera dove cominciarono a razziare cose e persone. Era in quel luogo con la sua famiglia, cioè la moglie Bianchetta e figlioletto Benedetto non ancora dodicenne, Domenico Martino che era a lavorare nelle terre del Nobile Ventimigliese Roberto Orengo.
Mentre i genitori riuscirono a porsi in salvo, il piccolo Benedetto venne catturato insieme ad altre persone. Imbarcati sulle navi furono portati in Algeri quali schiavi.
Dopo alcuni anni Benedetto Martino venne venduto ad un altro Corsaro di nome Coriolai il quale lo condusse con sé in un luogo vicino a Costantinopoli. Sul trattamento riservato agli schiavi, lo stesso Benedetto dice: «Fui venduto a Coriolai dal quale mi ritrovai malamente trattato essendo di minore età, tra quali le minacce, bastonate et altri flagelli». Al fine di alleviare le sue sofferenze ed anche indotto dalla speranza di esser rilasciato, si indusse ad abbracciare la Fede Maomettana.
UN CANONICO CIARLIERO
I due giovani dolceacquini, seppero “prendere in castagna” il loquace canonico e giunti in paese armeggiarono presso amici affinché il signor marchese venisse a conoscenza della stima in cui era tenuto in Ventimiglia dal Clero e dal Capitolo.
Il Marchese li chiamò al Castello e sentito la relazione, generoso quanto mai, fece loro dono di una cena presso la sua servitù. Sospettoso che ben altre fossero le dicerie e le critiche in Ventimiglia. ordinò al cappellano, don Belluomo, di inviare al Vescovo Galbiati, lettera di protesta, in cui si chiedeva la rimozione del canonico Bosio e pesanti condanne a tutti i maldicenti.
Il Galbiati ordinava, poco convinto, di avviare il processo inquisitivo; imponeva prudenza nell’acquisire “et inulta grafia in procedere quia multa est fama” del canonico Bosio. Conosce l’operato militare del Marchese in Corsica per ordine della Repubblica di Genova ed è scettico della divulgata bontà del vecchio guerriero. L’indagine contro il canonico deve essere fatta con cautela. Si legge infatti: “Ordinò essere fatta la presente inquisizione ed assumere informazioni a che si possa in un secondo tempo intervenire con prudenza e carità”.
Ordinava inoltre che il decreto inquisitivo venisse esposto “ad portam Castri et ianuam Ecclesiae”.
La nostra storia termina qui. Siamo convinti che una qualche soddisfazione punitiva sia pervenuta al Castello, ma non sappiamo se il canonico sia stato richiamato ad usare maggiore prudenza nei pubblici conversali.
Vuole una tradizione popolare che anche Madre Eva, prima di rubare la mela, si fosse permessa di criticare il Vecchio Padre Eterno, per avere lasciato crescere di molto il melo posto nel bel mezzo del Paradiso terrestre.
Per quale proibizione, dunque, in quel lontano 1572, un signor canonico della Cattedrale non poteva dire il suo parere sul Marchese di Dolceacqua, ormai vecchio e stanco dei tanti “affaroni” combinati in Corsica a nome della prepotente Genova ?
La storia mai ci dirà dell’odio del canonico Pietro Antonio Bosio, ne noi faremo offesa se in tutto l’operato pubblico del canonico vorremo intravedere un comune disprezzo dei ventimigliesi contro Francesco Doria. Si era nell’anno 1572, di lunedì 17 agosto. Era vescovo di Ventimiglia Francesco Galbiati, l’uomo che per preparazione (fu alunno e amico di San Filippo Neri) si era proposto di avviare la Riforma Tridentina con metodi fraterni.
Un certo sacerdote, i documenti curiali lo dicono nativo di Torri, Don Pietro Antonio Bosio, giunto ad essere tra il novero del Capitolo, con un parlare da strada “et multa alia verba” alla presenza di due giovani di Dolceacqua, a lui sconosciuti, si era permesso di chiedere notizie sul loro Signore, Francesco D’Oria; «Come sta il vostro Francesco ? Se verrà qui gli vogliamo mettere due “crestieri”: uno di acqua salata et l’altro d’acqua dolce». Si legge inoltre che disse molte cose “a parole ed a segno (gesti) offensive e di non rispetto”.
In quell'occasione. Genova pretese che la città deliberasse la spesa di 3.240 fiorini d'oro, per pagare i costruttori delle nuove mura. Il progetto, di chiara impostazione genovese, mostrò tutto il valore "rampino" del comune oppressore.
Le mura cinquecentesche (genovesi) furono innalzate con criteri di parvenza visiva molto possenti, al fine di scoraggiare gli attaccanti dai tentativi d'assalto, ma nella sostanza interiore non rispondevano ai richiesti requisiti.
Una dimostrazione evidente, la possiamo constatare in quel varco che, nell'Ottocento, venne aperto per dar luce all'erigendo ginnasio, presso Porta Nizza. Il ritaglio di mura conservato per racchiudere a Sud. un tratto del cortiletto d'entrata del Convento di San Francesco, mostra l'esiguità verticale del manufatto, che sul culmine che avrebbe dovuto reggere il camminamento di ronda, non supera il metro di larghezza, per un camminamento di circa due palmi. Visto dal mare quel tratto di mura avrebbe potuto far pensare ad un baluardo inespugnabile, ma se il "barbaresco" avesse mangiato la foglia, con un proiettile di poco peso avrebbe potuto aprire varchi indifendibili.
Coi soldi dei ventimigliesi i "rampini" genovesi hanno fatto la cresta persino sull'edificazione delle nuove mura. Cambiano i tempi, ma le situazioni si conservano.
Mura rampine
Nel 1529, Ventimiglia mostrava tutta la sofferenza derivatale dalla guerra franco-spagnola, nella quale era finita coinvolta. Era ridotta a seicento fuochi, mentre le campagne attorno erano devastate e spoglie. I nobili abitavano in Piazza e frequentavano la Loggia, instaurando l'oligarchia degli "alberghi".
In una situazione così depressa, i Genovesi decisero di innalzare nuove strutture fortificate attorno alla città, per far fronte alle armate francesi, mettendole in nota al deciso innalzamento delle mura, che presentarono come assai utile a scoraggiare gli assalti turco-barbareschi, che si facevano sempre più frequenti.
La descrizione e le varie citazioni logistiche riferiscono come nel 1442 Ventimiglia non si estendesse nella zona a sinistra dell'attuale Via Garibaldi: una cerchia di mura, le prime ricordate in vari documenti, percorrevano, in tratto longitudinale, dalla Piazza, loco Chiappa Piscium, fino sotto la chiesa di San Francesco, anch'essa posta fuori delle mura.
Una zona di certa consistenza costituiva "La Colla": verzieri, orti, incolti, alberi. Una strada si snodava a fianco delle mura, sulla quale si apriva una delle porte comunali. La Colla e il Castello, soprastante la Piazza e la cattedrale, furono nei secoli XII-XIII-XIV i punti di difesa naturale dell'abitato. Con il decreto dogale inizia la prima utilizzazione della zona, che in due secoli, darà consistenza ad un agglomerato abitativo signorile.
La concessione del Doge non parte dalla sola necessità urbanistica; vuole essere un premio della beneficenza dogale, «per la fedeltà al Comune di Genova». Il riferimento si allaccia alla storia di alcuni anni precedenti. Le vicissitudini politiche del governo genovese; il dominio del Ghibellino Filippo Visconti a cui Ventimiglia giura fedeltà; il tentativo di Ventimiglia di ribellarsi con le armi contro il Visconte; l'azione dei ventimigliesi fuori usciti, condotti da Ottobono de Giudici, che riconquistano la città e si sottomettono a Genova.
Atti che meritarono un «Decretum pro fabricando Apothecas super Collam Ventimilii».
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(Asv, scat. 207/16)
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LA VOCE INTEMELIA anno LI n. 11 - novembre 1996
Il decreto del Doge
1442
di Nino Allaria Olivieri
Il 25 novembre 1442, Tommaso De Campofregoso, Doge di Genova e suo territorio, invia alla città di Ventimiglia un decreto «Pro fabricando apothecas super Collam Ventimila».
E Podestà e Castellano l'illustre Girolamo Castagnolis che oltre all'amministrazione giudiziaria, non manca di interessarsi delle più impellenti necessità della Città, Ventimiglia vive, si muove nelle ristrette cerchia murarie. Occorre uno sbocco verso la Colla. Oltrepassare le mura potrebbe indebolire ogni difesa, ma il non allargarsi resta sempre azione di soffocamento. Il problema, in concomitanza al Consiglio, viene dal Castagnolis fatto presente al Doge Tommaso.
E il Campofregoso - così lo descrivono gli storici della Serenissima - veramente magnifico, intelligente, colto, ambizioso.
In Genova intensifica l'opera di rinnovamento edilizio. Una identica politica urbanistica la vuole estendere fuori di Genova. Ventimiglia chiede di usufruirne.
La concessione parte da presupposti. Scrive il Doge: «Mossi da buon rispetto ed esaminata attentamente la richiesta nella quale intravediamo l'utile alla universalità di Ventimiglia, in considerazione della fedeltà e della difesa dimostrata all'inclito Comune di Genova e per il bene pubblico concediamo ai predetti uomini della Comunità di costruire ed edificare nel territorio di detto luogo di Ventimiglia dal termine della Piazza della Città, cioè dalla Ciappa dei pesci fino alla Chiesa di San Francesco, magazzini, la cui costruzione non oltrepassi in altezza la misura di quindici palmi. Gli uomini della Comunità ne possano usufruire e goderne e ciò contrariamente ad ogni altro decreto precedente».
OCCUPAZIONE
GENOVESE
Il XV secolo,
ha assistito alla insensata "caccia alle streghe", prodotta da
un'autorità ecclesiale non del tutto adeguata, sommersa nel
nepotismo e nella simonia imperante.
Dopo un rissoso Trecento, agli inizi del Quattrocento la città ha seguito Genova
nell’attaccamento a Carlo VI di Francia, ma quando Genova lo
abbandonava, Ventimiglia restava fedele alla Francia. Il 9
giugno 1410, quindici galee di Ottobono Giustiniani, del Doria e
di Ladislao di Napoli saccheggiavano la Città. |