NOTE :
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(1) Girolamo Rossi: Cronaca Ventimigliese 1850-1914, estratti e note di Emilio Azaretti. - Cumpagnia d’i Ventemigliusi 1989. p. 43.
(2) Girolamo Rossi: Storia della Città di Ventimiglia - Eredi Ghilini Oneglia 1886. p. 217.
(3) Domenico Astengo - Emanuela Duretto - Massimo Quaini: La Scopetta della Riviera viaggiatori, immagini, paesaggio - SAGEP Genova 1982. p. 185.
(4) Erino Viola e Serena Vatta Leone: L’esilio a Ventimiglia del luogotenente Cavour. - I MESI, anno 6, n. 4, dicembre 1978, p. 75. - Istituto Bancario San Paolo di Torino.
(5) Carnevale, ci riporta al “carrus navalis”, il battello su ruote, preceduto da gruppi burleschi di personaggi travestiti, sul quale era trasportato il simulacro di Iside, protettrice dei marinai, tra le danze ed i canti liturgici della popolazione romana, ancora verso la fine dell’età imperiale. Alfredo Cattabiani: Calendario, le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno. Rusconi Milano 1988. p. 151.
(6) Sfogliando Paolo Toschi; deriviamo le affinità del nostro personaggio con gli “issocadores” del folclore sardo di Mamojada, in Barbagia. Questi figuranti, in processione danzata, associati ai “mamutones, sorta di “umbrae silentes”, frustano le persone che assistono al corteo, e la frusta è un attrezzo dalla forma assai simile alla canna da pesca. Questo rito potrebbe rifarsi agli antichi Lupercali, nel Lazio, che si celebravano a Roma il 15 febbraio, ed ormai trasformate in un rito di fertilità, fin dai tempi degli antichi re. Due giovani, rivestiti delle pelli degli animali sacrificati, correvano intorno al Palatino, percuotendo con strisce di cuoio, tagliate dalla pelle del lupo, le donne ansiose di garantirsi la fecondità. Secondo Pierre Échinard, sulla spiaggia di Marsiglia, al culmine della “nuotata di Caramantran” alcuni gagliardi fendono l’oceanica folla, portando in spalla a mo’ di fardello un bastone, con appesa un’aringa salata, a significare il sopraggiungere della Quaresima e della sua magra dieta. Paolo Toschi - Le origini del Teatro italiano - Boringhieri, Torino 1979; pp 182/185.
(7) La derivazione di quell’armamentario gli giunge dai rituali isiaci, dove maschere addobbate da pescatore provvedevano alla cattura delle anime dal mare dei peccati. Il Donini, invece ci avvia ad un’interessante evoluzione sul significato dell’aringa, o del pesce in generale, quale ancestrale protettore totemico della popolazione locale. Ambrogio Donini - Lineamenti di storia delle religioni, (Roma 1959) ci si avvia ad un’interessante evoluzione sul significato dell’aringa, o del pesce in generale quale ancestrale protettore totemico della popolazione locale.
(8) Una conferma dei riferimenti liturgici al Rito Ambrosiano, presenti nella nostra Diocesi, la ricordavano i paramenti sacri dedicati al Santissimo Sacramento, presenti in Cattedrale, ancora al termine dell’ultimo conflitto mondiale e dispersi per incuria attorno agli anni Sessanta. Quando la Cattedrale fu restaurata, seguendo anche le variazioni della liturgia esteriore dettate dal Concilio, si perse l’uso di rivestire le colonne e certe pareti con i pesanti paramenti, legati ai colori del calendario liturgico. Oltre ai paramenti, anche il baldacchino per accompagnare le processioni dedicate al Santissimo Sacramento era di colore rosso, secondo il Rito Ambrosiano, mentre il Rito Romano prevedeva, da sempre, il colore bianco. Oltre alle cotte ed alle dalmatiche degli officianti, sempre in color rosso era l’ombrello dedicato al trasferimento del viatico verso la casa d’un morente.
da INTEMELION n. 11 - 2005 - Archivio della memoria p. 157
Luigino Maccario - 1990
RIFERIMENTI STORICI
Si hanno notizie di Carnevali ventimigliesi, popolarmente molto sentiti,
all’inizio del secolo, con elitari veglioni nel Teatro Civico, in città
alta, ora Civica Biblioteca, e poi nel nuovo Politeama Sociale della
città bassa, ora Teatro Comunale.
Nel suo memoriale lo storico Girolamo Rossi ci informa che: la sera
del 9 febbraio 1893, alle ore 21, ha fatto il suo ingresso in città la
mascherata rappresentante Carnevale, col nome di “Marchese III”. Nella
serata del giorno 14, si era bruciato il Carnevale, al Cavo.
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Per il conte Camillo Benso di Cavour, giovane ufficiale del Genio
Sabaudo, inviato nella nostra città per ristrutturare il forte San
Paolo, il Carnevale ventimigliese del 1829 era:“… oltremodo
brillante” e ne informa in una lettera la nonna Filippina, chiamata
affettuosamente Mairina, cui era particolarmente legato. Nella
stessa lettera dice ancora: ”… In compenso si balla tutte le
domeniche, tutto il giorno e la notte, sebbene fino ad oggi non si siano
viste che delle danze popolari, cui ha partecipato unicamente il
popolino. Tuttavia ci son stati promessi dei balli un po’ più eleganti
ai quali interverranno tutte le bellezze ventimigliesi. E siccome il bel
sesso del luogo è molto grazioso, la cosa si presenta senz’altro sotto
un aspetto affascinante”.2
IL
BALLO COME SFOGO POPOLARE
Del Carnevale a
Ventimiglia e della smania per il ballo dei suoi cittadini, siano stati
essi popolari o di classe elevata, abbiamo notizie ancora più antiche.
Già nel XVI secolo, il vescovo Grimaldi sarebbe intervenuto
moderatamente per limitare il divertimento del ballo al solo periodo del
carnevale; ma nel 1586, un’altro vescovo ventimigliese, monsignor
Galbiati, condannava aspramente il ballo denominato “la nizzarda”.3
Il segretario del cardinale Aldobrandini, nel 1601 scriveva di una festa
di Carnevale a Ventimiglia cui ha assistito e dove ha visto ballare “la
nizzarda”, ballo che giudica veramente grazioso.4
Oltre al ballo, si svolgeva un corteo in maschera, qualche volta
accompagnato da carri allegorici, in ogni caso composto sempre da
popolazione festante e danzante. Certamente era vivo il rituale di
camuffarsi per non farsi riconoscere e poter così dar sfogo a temporanee
rivalse, almeno verbali, verso i potenti.
Persino sul nostro territorio, le feste popolari che si celebravano
nell’antica Roma, in onore di Iside agli inizi del mese di marzo, hanno
trovato esecuzione nel senso suggerito dalla reale etimologia della
parola “carnevale”.5
Molto della coreografia di questi rituali dipendeva dalla protezione
totemica desiderata dalla comunità medesima. I lupercali del
popolo romano esaltavano il lupo fecondatore, mentre in altre località,
ad esempio, era il suino coi suoi derivati a tenere banco.
Residuo di tali riti si potrebbe riscontrare nel nostro attuale
carnevale, nel quale, pur essendosi esaurita la funzione carnevalesca,
restano parvenze di antiche usanze pressoché scomparse, quali, ad
esempio il lancio di coriandoli e stelle filanti o il fatto che la
maschera principale sfiori con un pesce affumicato i partecipanti (come
vedremo nel paragrafo che segue).
FORMALITÀ DISSACRATORIE
Precise informazioni dateci da Emilio Azaretti e confermate
dall’esperienza diretta di numerosi altri informatori, ci hanno fornito
le caratteristiche peculiari di un personaggio immancabile nei carnevali
ventimigliesi d’anteguerra. Il tipo mascherato descrittoci era detto
Chélu ch’u fa’ pità. Indossava sempre un enorme camicione col
quale mimetizzava le reali sembianze del folle giullare per ovvie
ragioni di temute rivalse, possibili, visto l’incarico di dissacratore
satirico che assumeva nei confronti della politica cittadina, anche se
solamente nei giorni di Carnevale.
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La sua caratteristica estetica più rilevante consisteva nel fatto di
essere armato d’un lungo bastone dal quale pendeva un’aringa affumicata.7
Si presentava con una frase di rito:(“Sun Segù, u pescavù, òn a
cana inescà, vögliu fate pità”), portando l’aringa penzoloni davanti
al naso del malcapitato preso di mira e, sempre alterando la voce in
falsetto, gli proponeva: ”Ti pìti, ti pìti”, istigandolo ad
abboccare all’amo.
Ad una qualunque reazione del soggetto scelto, iniziava, sempre in uno
strettissimo falsetto, la sequela delle invettive popolari, più o meno
pubbliche o più o meno note, che lo riguardavano, non risparmiando
proprio nulla. Ebbene, se il malcapitato abbozzava, tutto finiva in
allegria tra una bevuta generosamente offerta alla compagnia; se,
viceversa, si alterava, peggio per lui, perché la città tutta sarebbe
ben presto stata informata delle presunte malefatte o scandali.
Lasciata una vittima, la “maschera” andava subito alla caccia di quella
successiva, la quale, se personaggio pubblico, avrebbe fatto meglio a
farsi trovare tra la folla festante in modo bonario e spontaneo. Con
questa presenza si sarebbe risparmiato ben più feroci canzonature, che
non sarebbe stato semplice sminuire ridendoci sopra come se nulla fosse.
Compito rilevante, gravoso e delicato aveva dunque la maschera Chélu
ch’u fa’ pità, ovvero colui che invita, che costringe a beccare.
Era, di solito, il giovanotto in possesso delle migliori caratteristiche
di attore, mimo ed improvvisatore di tutta la compagnia di buontemponi
che frequentavano i caffè culturali cittadini in auge negli anni Venti.
Le notizie ed i testi delle punzecchiature erano creati coralmente,
nelle insonni nottate precedenti il Carnevale, ma gli appunti strategici
sugli argomenti piccanti venivano raccolti e conservati nel corso
dell’intero anno, quando capitavano o quando se ne veniva informati,
meglio se segretamente: tutto nella prospettiva della più o meno
accettata originariamente, trasgressione carnevalesca.
IL RUMPIPIGNÀTA
Il Carnevale vero e proprio inizia il
giovedì ed i giorni fino al lunedì successivo, “a setemana grascia”,
vengono considerati giorni de carlevà, mentre il martedì grasso è
il vero e proprio carlevà, il giorno dopo si entra in quaresima,
anche se l’atmosfera resta carnevalesca fino alla domenica successiva.
Un’altra delle caratteristiche del Carnevale locale è la sua durata,
derivante dall’influenza subita dal Rito Ambrosiano, a causa della lunga
appartenenza dalla diocesi intemelia a quella metropolitana di Milano
conclusasi il 9 aprile del 1806.8
Come accade su tutto il territorio lombardo ed in qualche altro luogo
della Riviera di Ponente, anche Ventimiglia, nella prima domenica di
Quaresima, indice la festa popolare della “pentolaccia”.
Fino agli Anni Cinquanta, la celebrazione di questa festa, detta
idiomaticamente del rumpipignàta, era molto sentita, tanto che
persino la pubblica autorità indiceva un raduno popolare, attorno a
mezza dozzina di pentolacce, pronte da sorteggiare.
Il contenuto delle pignatte era quasi sempre di natura alimentare, a
volte un oggetto di un certo pregio, ma naturalmente non mancava quello
liquido, cioè l’acqua ..., sovente, per irrorare il malcapitato bendato
che si voleva cimentare.
Negli
anni successivi, la manifestazione venne sempre più dedicata ai bambini,
con le meno ruvide pentolacce di cartone ricolme di caramelle, ma anche
di coriandoli e segatura che, nell’immancabile esito di burla,
sostituiva - trattandosi di bimbi - la più insidiosa acqua, o qualcosa
di peggio.
LA FILASTROCCA DI CARNEVALE
Com’è nella
migliore tradizione, anche il Carnevale ci ha tramandato una sua
filastrocca, documento ricordato ancora da Emilio Azaretti, con un testo
tutto improntato alla coincidenza tra il divertimento, l’enologia e la
gastronomia:
Carlevà u l’è mortu
imbriàgu cùme in pòrcu;
u l’à fàitu testaméntu
ìnscia pòrta d’u Cuvéntu,
lasciàndu ai sòu figliöi
tagliarìn e raviöi.
Come tiritera entra di diritto tra i più classici rituali popolari del
Carnevale, che sarà bruciato come capro espiatorio facendo appena in
tempo a mettere a buon fine il lascito testamentario, il quale ultimo,
oltre al buon vino di cui Carnevale si dimostrava satollo, conterrà due
tra le più conosciute specialità gastronomiche locali.
Nel menù tradizionale del Carnevale spicca un dolcetto fritto, assai
semplice, confezionato con strisce di pasta intrecciate o variamente
involtate, poi spolverate di zucchero. Il loro nome dialettale è e
buxìe, (le bugie).
Camillo Benso, Conte di Cavour; giovane ufficiale del Genio, a Ventimiglia nel 1829