Tenendo presente di come, soltanto con la spartizione dei
confini, avvenuta in data 1870, la chiesa di San Rocco, in
località Cabanette, passava nel territorio del Comune di
Vallecrosia. Con molta facilità, l’antichissima chiesuola di
confine, anteriormente al XIV secolo, data di glorificazione del
beato Rocco, potrebbe esser stata dedicata a Sebastiano,
considerando che, in una nicchia esterna all’abside, vi si
conserva un cippo votivo dedicato ad Apollo, ravvisabile in
Sebastiano.4
LA
FESTA POPOLARE
Da quando vige l’usanza per l’allestimento dell’albero da
processione. Nella bassa Val Nervia, sono numerose le famiglie
che curano la crescita di una pianta d’alloro, in un angolo del
loro fondo, intervenendo con sapienti potature, nel corso di
parecchi anni, con l’intento che venga scelga per essere immessa
nella processione di gennaio.
Nei giorni precedenti la festa, i “sebastianeti” provvedono a
tagliare e rendere armonico, il grosso arbusto scelto, avanti di
adornarne ogni fronda con numerose “papéte”, o “négie”, ostie
variopinte preparate nel corso di lunghe veglie notturne, nei
mesi precedenti.5
Per integrare le imperfezioni nella sagoma della chioma, esperti
artigiani integrano artificialmente i vuoti tra i rami autentici
con fronde ricuperate da altre piante, operando veri e propri
intarsi nel tronco originale e sostenendo i “riporti” con
appositi tiranti. Un lavoro paziente e ponderato, frutto di
annose esperienze.
Durante la processione l’albero è portato, non senza fatica, da
robusti giovani, davanti all’effigie statuaria del Santo,
condotta dai confratelli indossanti l’antico “tabarin”.
Al termine della funzione religiosa, i rami vengono recisi ed
offerti, carichi delle loro ostie, a ciascuno dei presenti, che
conserverà con particolare cura il gradito feticcio, ottenuto in
cambio di una donazione spontanea. Per tradizione, la cima
svettante, opportunamente segnata nell’addobbo, col colore
uniforme delle “papette”, viene consegnata al donatore della
pianta.
Il rito, così come è oggi tramandato, può essere riferito al
martirio del Santo, secondo la tradizione ambrosiana. L’alloro
sarebbe 1’albero dove fu legato per essere bersaglio delle
frecce degli aguzzini, mentre le ostie starebbero a ricordare
l’intervento di un angelo che portò al martire, in cella, la
comunione.
Tradizioni similari, oltre che a Dolceacqua e San Biagio, dove
sono state riprese di recente, dopo anni d’oblio, ricorrono in
alcune località della Lombardia, durante la festività della
Pentecoste o in occasione della ricorrenza del Santo patrono,
quando viene sistemato sul campanile un albero adorno di “nebule”,
dette anche “pampare”, identiche a quelle usate a Camporosso e
Dolceacqua.6
Le processioni dedicate a
San Sebastiano, in Camporosso e Dolceacqua, durante il secondo
conflitto mondiale si erano necessariamente celebrate in tono
minore; ma a cominciare dagli Anni Cinquanta, sono tornate alla loro
abituale solennità. Con la ripresa civile, che si andava verificando
in quel dopoguerra, si
riproponevano quale manifestazione popolare della tradizione, la più
antica conosciuta in zona. Il rito è svolto nella terza settimana di
gennaio.
Dal 1980, la processione di San Sebastiano, a Dolceacqua e quella,
non meno nota e forse più continuativa, a Camporosso, hanno ripreso
tono, anche sotto l’aspetto laico-rappresentativo; mantenendo vive
le confraternite dei “sebastianeti”, che col saio bianco ed il corto
“tabarin” cremisi, assieme al popolo dei fedeli ed il clero,
accompagnano un grande albero d’alloro decorato da centinaia di
ostie policrome.1
Sarà, in ogni caso, nei primi anni Ottanta che, a Dolceacqua, le
decorative presenze delle Confraternite locali cominceranno a
scambiarsi le visite, come in una sorta di gemellaggio, con quelle
della vicina Francia e del Principato di Monaco; per poi allargare
l’impegno con le Confraternite delle altre Province Liguri.
In Camporosso, San Sebastiano fu dichiarato patrono del paese, anche
dalle autorità laiche, nel 1852; fissandone la celebrazione il
giorno 20 del mese di gennaio.
Veniva però, da molti secoli, celebrata una solenne processione,
come dedotto dagli archivi della Confraternita. Nel 1669, si trova
segnata una spesa per l’acquisto di fiaccole per la processione,
forse serale. Nel 1843, i massari spesero trenta lire, per i fuochi
d’artificio, a completamento della festa.
Le entrate della Confraternita provenivano, comunemente da
elemosine, ma anche dai redditi di qualche terra che produceva
grano, olio e fichi.2
Nel 1661, fu eseguito un inventario degli scarsi beni della
Confraternita, tanto che l’anno seguente, i massari provvidero
all’acquisto di sei candelieri, quattro vasi da fiori, una croce ed
una cornice, per la pergamena contenente la preghiera del Sacro
Convivio.3
Nel 1718, fu acquistata una nuova statua del Santo, trasportata da
Genova a Ventimiglia, via mare. L’anno seguente si tenne conto di
comprare, sempre a Genova, una cassa con le sue stanghe, per portare
il Santo in processione, accessoriata d’uno sgabello per
l’esposizione.
DEDICAZIONE DI CHIESETTE
Sin dal XIII secolo, molti paesi
della Liguria dedicarono una chiesetta a San Sebastiano, che allora
era considerato protettore contro la diffusione della peste,
protezione in seguito assegnata al trecentesco San Rocco.
La pieve di San Sebastiano, come poi quella di San Rocco, veniva
comunemente situata sulla strada d’accesso all’abitato. Mentre
questo si realizzava a Dolceacqua, non risulta che sia avvenuto a
Camporosso, dove a questo Santo fu dedicata una cappella, situata
sul lato destro dell’altare maggiore, nella chiesa parrocchiale,
appena costruita, verso l’anno 1510.
NOTE:
1) Sul suo glossario il Rossi descrive l’usanza, legata al
rito ambrosiano, propria della chiesa milanese e della nostra
diocesi, che da quella metropolitana rilevava, partendo da un
documento del 1417, pubblicato da Luigi Barbieri: - .... a Parma
la vigilia di Pentecoste, ai primi vespri si tirava in alto sino a
mezzo della cupola nel duomo “un albero tutto vestito e fiorito di
nevole, che doveva restare sospeso per tutta l’ottava”, poi la
mattina della festa, a un dato punto della messa pontificata, da
deto albero si faceva spiccare il volo ad una colomba verso il
popolo; con colombe volanti, con piogge di rose, di gigli e con
nevole si soleva rappresentare il mistero del divino Paracleto e dei
suoi carismi. Di questa antica usanza, in un remoto angolo della
nostra diocesi, cioè nei comuni di Camporosso e Dolceacqua, resta
sempre in vigore la costumanza di scegliere per la festa del patrono
San Sebastiano, un albero di alloro e di appendervi larghe cialde di
diversi colori, dette papette e di tenere collocato detto albero nel
Sancta Sanctorum ben ben otto giorni, chiudendosi l’ottavario colla
distribuzione ai fedeli di questi rotondi e variopinti fogli di pane
azzimo che, benedetti, sono tenuti come reliquie nelle famiglie. A
complemento di questo, dirò che il Vigna segna nelle spese occorse
“pro incenso et murta et lauro pro quinque e quindi ricorda “una
columbeta de argento deaurato”; chiarissima riprova questa, che
l’albero de’alloro, il mirto e la colomba venivano richiesti alle
cinque feste principali dell’anno.
2) Come nel 1843, quando veniva segnato un
introito di 13 lire, ricavate con la cessione di un rubo e 21 libbre
di olio, pari a circa 14 chili. Tra i redditi più antichi, nel 1662,
sono segnati anche sconosciuti “sossoli”.
3) Nel 1688, provvidero al restauro della
statua del Santo e nel 1696, presero a adornare di stucchi la
cappella, della parrocchiale. Con l’anno 1704, si legge l’acquisto
di preziosi fiori di metallo, artisticamente lavorato, più sei
candelabri d’argento, comprati a Genova.
4) Nella mitologia greca e romana, l’essenza
arborea del lauro era, appunto, consacrata ad Apollo o Ermes,
sovrapponibile certamente, dal mito cristiano di Sebastiano, tutore
della medesima pianta od arboscello.
5) L’occasione di incontro serale, per il
lavoro in compagnia, era da considerarsi nella consuetudine della
“veglia”, usate dalla comunità per facilitare gli incontri fra
giovani. La veglia dei sebastianeti vedeva riuniti vecchi e
giovani e dava a coloro che non erano ancora sposati la possibilità
di frequentarsi, sotto sorveglianza.
6) Il
nostro territorio è stato legato per secoli ad una convivenza
arcidiocesana comune, con la Lombardia, nvissuta dagli albori del
cristianesimo.
Soltanto il 9
aprile dell’anno 1806, papa Pio VII, staccava la Diocesi di
Ventimiglia dalla metropolitana di Milano, per rimetterla
all’Arcidiocesi di Aix in Provenza ed il 30 maggio 1818. Lo stesso
Pio VII°, pochi anni dopo, prelevava la cattedrale ventimigliese,
dall’arcivescovo di Aix, rendendola suffraganea dell’Arcidiocesi di
Genova.
Questa ricerca è stata impostata a sostegno d’una serie di diapositive che documentano le processioni per San Bastian a Dolceacqua e Camporosso, da me scattate, rispettivamente nel 1980 e 1981. In seguito la serie di diapositive è stata integrata da qualche immagine a supporto della ricerca stessa.
Nell’impianto dei riti propiziatori di questo periodo dell’anno,
in febbraio le antiche popolazioni italiche, celebravano le
Terminalia, cerimonie dedicate ai confini. Si radunavano
presso il cippo che delimitava i confini di due o più territori,
portando una corona d’alloro, ma anche ogni sorta di cibi e
leccornie da dividere con gli abitanti delle terre vicine, in
una sorta di festa.3
Anche le popolazioni celto-liguri, ancora più anticamente,
provvedevano alla purificazione dei campi, celebrando “Imbolc”,
festa lustrale del primo febbraio e con questa la fine
dell’inverno. Tale festività, cristianizzata a beneficio di
Santa Brigitta, è stata ben presto attribuita alla Santa
Vergine, con la Candelora.4
Tra gli antichi costumi, che mostrano una qualche affinità al
rito in Bassa Val Nervia, emergono ritualità elleniche legate
alla natura che i Massalioti, provenienti da Focea, avrebbero
potuto trasferire dalla Grecia in Provenza. Tra queste sussiste
la festa delle Pianepsie, che conosciamo per la descrizione che
riguardava l’antica Atene.5
Nel corso delle Pianepsie si recava in processione lo “eiresione”,
ramo d’ulivo o di lauro guarnito di dolci frutti, con nastri di
lana e vasetti d’olio e di vino. Il rametto restava appeso sugli
usci in segno di fertilità e di tutela: quale ramo
d’implorazione. Questo avveniva nel periodo che per noi sarebbe
metà ottobre, mentre in altro periodo dell’anno, metà maggio,
erano celebrate le Targelie, dove il rametto conservato
dello “eiresione” veniva riportato in piazza e per
meritarne le benedizioni in esso contenute, si cacciavano dalla
città in espiazione due esseri immondi, ai quali erano appese al
collo collane di fichi secchi, ed inoltre gli si percuoteva il
grembo con cipolle. Erano esseri sacri, per il loro orrore,
forse in tempi remotissimi anche per le rispettive conseguenze
sacrificali. Infine venivano arsi gli eiresioni dell’anno
prima, convertiti in cenere salsa: simbolo di purezza e
sapienza.
Le processioni in onore
di San Sebastiano, indette dalle popolazioni di Camporosso e
Dolceacqua, in Bassa Val Nervia, si svolgono attorno al giorno venti
di gennaio, nel pomeriggio, in considerazione del fatto che le ore
di sole, che erano state così ridotte in dicembre, dopo il Solstizio
hanno concesso alle giornate di allungarsi, tanto da accordare la
certezza che l’astro tutore della nostra vita stia lentamente, ma
decisamente, riguadagnando la via per lo zenith, onde riportarci una
prossima primavera, che in questi giorni manda i primi segnali di
apparenza.1
Sarebbe stato appunto per invitare a rendere concreti questi
segnali, che i nostri antichi antenati seguivano in sfilata quel
simulacro d’albero colmo di frutti, attraverso i campi della
comunità, per richiamare lo spirito della vegetazione all’atteso
risveglio, con lo scadere dei mesi freddi, durante i quali la natura
era parsa addormentata.
Attorno alla metà di gennaio, è in pieno corso la fase lunare
anomala, non controllabile con i segni delle stelle, che per l’uomo
antico assumeva caratteri di instabilità sacrale per la comunità ed
era quindi scongiurata, anche con questi riti propiziatori.
Queste cerimonie prendevano corpo al prospettarsi della “tredicesima
lunazione” e duravano fino al termine dell’Inverno, con il
verificarsi dei primi segni del ciclo germinativo. L’uomo credeva
che la natura germogliante segnalasse l’avvenuto passaggio indenne,
dalla malattia del tredicesimo mese lunare, nei confronti dei
regolari mesi solari.2
Negli ultimi quindici giorni di gennaio, ancora prima dell’avvento
di Roma, i Latini celebravano le “Ferie sementine”, durante le quali
si procedeva alla lustrazione dei campi e si offriva a Cerere e a
Terra una pozione di latte e mosto cotto, detta burranica,
sacrificando loro una scrofa gravida, accompagnata dalla usuale
offerta di farro, mentre le giovenche, adoperate nei lavori dei
campi, venivano inghirlandate di fiori e lasciate a riposo.
NOTE:
1) A proposito dell’andatura che muove il sole nel suo
positivo cammino verso lo zenith, si dice: “A Pasca Pifània a
giurnà a gh’agàgna, a San Bastiàn, a va’ a pàssu de can, â
Candereira a camina pe’ valun e pe’ riveira”; marcando il
dinamico progredire delle ore di luce, in stagione tanto buia.
2) La Luna impiega 354 giorni a portare a termine un ciclo
annuale, invece dei 365 giorni impiegati dal sole; quindi, le
lunazioni seguono all’incirca il ritmo dei mesi solari, però il
tredicesimo mese lunare inizia andandosi a scontrare con il
terminare dell’anno solare, senza poter concludere il ciclo. Questa
disparità è stata giudicata portatrice di sventure, che richiedeva
riti propiziatori. La maggior parte di questi riti si sono risolti,
poi, nel Carnevale.
3) Questo tipo di antica ritualità, potrebbe dar significato
allo svolgersi di processioni che hanno come simbolo la pianta
d’alloro, sia a Camporosso che a Dolceacqua, anche se oggi le due
comunità cominciano appena ad attivare un moderno scambio più cibi e
leccornie, nell’occasione. Speriamo bene. San Sebastiano è patrono
di Caporosso, mentre il patrono di Dolceacqua è Sant’Antonio.
4) Anche la festa di Sant’Antonio, è connessa alla ritualità
di questo periodo. Quando le reliquie del patriarca del monachesimo
Santo, vennero traslate in Francia, hanno ricevuto gli attributi
dedicati alla divinità celtica Lug, che intendeva alla
pratica della natura. La patrona del Principato di Monaco è Santa
Devota, che l’agiografia locale dipinge come una martire
nordafricana, giunta via mare, portata da una barca alla deriva.
Viene festeggiata il 27 di gennaio, nel contesto di riti espiativi,
alla ricerca dell’equilibrio naturale.
5) Il toponimo Cradausina, assegnato al vallone che
dalle pendici del Col de la Guerre raggiunge il mare nella rada di
Monaco, quello che oggi è conosciuto come “u valun de Santa
Devota”, deriverebbe il nome dall’antico termine greco “kradé”,
definente quel venerando ramo di fico che era dislocato in
processione, durante le cerimonie espiatorie d’una comunità. Presso
gli antichi Greci, quegli stessi che hanno fondato il primitivo
Portus Hercules Monœci, tali solennità erano le “cradefòrie”,
svolte anch’esse in ricordo di un furto, come per le reliquie di
Santa Devota. In quel caso si trattava dell’asporto di vasi sacri
perpetrato da Farmaco, dal cui nome sarebbero state chiamate «pharmakoi»
le vittime espiatorie cerimoniali.
SAN SEBASTIANO
NOTE:
1) Vittore
nella Val Baltea, Besso ad Ivrea, Gervasio e Sicario in Val Susa,
Giusto e Flaviano nel Pinerolese, Teodoro nel Monferrato e
Maurizio con il culto più antico d’ogni altro, divenne persino
patrono della Casa regnate italiana. Poi ancora: Valeriano,
Tegolo, Marchese, Candido, Esuperio, Pancrazio, Orso, Innocenzo,
Esuperio, Saturnino, Crispino, Mauro, Eusebio, Quinto, Ottavio,
Dalmazzo, Solutore, Avventore, Vitale e così via, elencati da
diversi agiografi, a cominciare dal vescovo Teodoro, che
scoperse il luogo di sepoltura ad Octodurus. sul Rodano, intorno
al 380 dell’Era volgare, per continuare con Eucherio, vescovo di
Lione, Avito, vescovo di Vienne. e terminare con Ennodio,
vescovo di Pavia.
2) Anche l’Italia del Sud ha risentito
dell’influenza ispana, nei riti religiosi, ma in modo più
diretto, a causa della lunga dominazione aragonese di quelle
terre. Infatti, molte delle tradizioni sicule e calabresi, ma
soprattutto sarde, contengono le stesse caratteristiche di base
di quei riti che in Provenza trovano già stemperati molti degli
antichi caratteri contenuti.
3) Il vezzo tutto maschile di dimostrare forza ed
abilità, nel corso di riti folcloristici, sia a sfondo laico,
sia religioso, ci è tramandato dalle processioni coi crocifissi
filigranati del genovesato, dalla Corsa dei Ceri di Gubbio, come
dalle varie, gigantesche macchine siciliane, per Santa Rosalia.
Ma nel nostro caso dovrebbe derivare dai più aderenti giganti
provenzali.
4) In questo elenco si potrebbero annoverare le barche
processionali della Provenza costiera, da Mentone a Fréjus,
passando per Monaco, Antibes, Nizza e Saint-Tropez, coi loro
draghi marini e pesci giganteschi.
5) Le Rogazioni, per il mondo cattolico, hanno
sostituito le lustrazioni di primavera, ai quattro punti
cardinali; rito di espiazione sacro a Cerere, per invocare
l’abbondanza dei raccolti. Tale funzione si chiamava “Ambarvale”
e consisteva nel fare un lungo giro attorno ai campi, guidati
dall’Arvale. Si doveva essere coronati di foglie di quercia,
trascinandosi dietro un toro, una pecora, un porco; offerte
destinate ad essere sacrificate a divinità diverse. Erano le
dedicate a Mars pater, Giano e Giove. Quindi si danzava si
cantavano inni a Cerere, si faceva baldoria per tutta la
giornata in onore agli dei campestri e per placare le forze
avverse, in altre parole “piaculare”. Nelle Rogazioni le bestie
sacrificali verranno sostituite dalle maschere. Gli Statuti
medievali di Carrodano, nello spezzino, ci
tramandavano certe processioni lustrali, chiamate “létanìe”,
precedute da un verde dragone, con le fauci accese e fumanti,
inalberato su una pertica e retto da un portatore in casacca
altrettanto verde, chiamato “ramarro”. Queste “rogazioni minori”
duravano tre o quattro giorni, accompagnate dal popolo urlante e
schiamazzante, che percorrendo le campagne credeva di mettere in
fuga gli spiriti maligni.
6) Anche i bimbi travestiti da angioletti e le cappe
color pastello delle ottocentesche “Pie Dame” e delle “Figlie di
Maria”, corredate di appositi scapolari, sono stati retaggi dei
costumi folcloristici, presenti nelle processioni
quattro-cinquecentesche di tradizione provenzale-ambrosiana,
recuperati con inventiva e passione teatrale dai Gesuiti, del
Seicento.
7) “Benva” è un toponimo con significato
italianeggiante, vale a dire - ben va’: vai bene lungo la tua
strada.
8) Fra le
superstiziose credenze medievali vi era quella che bastava aver
visto San Cristoforo dalle gigantesche dimensioni, dipinto sulla
porta sinistra della chiesa, per aver augurio di buon viaggio.
Una monumentale figura, alta dodici metri, dipinta su una roccia
alpina in Carinzia è significativa della ritualità riservata al
viandante. Costui, guardandola, trae beneficio per il
proseguimento del viaggio. Nel suo glossario il Rossi dice: -
Dal suo nome si intitolava un borgo, in Genova; in Ventimiglia
un monte; a Milano una chiesa; di una chiesuola a lui dedicata
in Lerici, parla il Remondini; l’Alizieri segna che in Savona
era rappresentato fuori la chiesa di San Martino; a Pigna lo si
vedeva sulla facciata di San Tommaso; a Taggia sopra l’edicola
del Colletto, nella Val Barbaira presso Rocchetta eravi una
chiesuola ora distrutta; nel 1504, il vescovo Vaccari accordava
indulgenze a chi avesse visitato la chiesa di San Cristoforo a
Sospello. Vercelli, più avventurata di tutte, teneva in
venerazione fra le più insigni reliquie un dente del Santo, di
smisurata grandezza. La sua festa si celebrava il giorno 25 di
luglio e coincideva perciò con quella di San Giacomo e fra i
giorni feriali nella Curia genovese si trova quello beatorum
Jacobi et Christophori. Una avvertenza da notare si è che
svanendo il culto, si dimenticò il nome del Santo e tanto a
Monte San Savino, quanto a Ventimiglia le chiese già intitolate
ai Santi Jacopo e Cristoforo non sono più conosciute che con
quella di San Giacomo. - Una grande figure del Santo era
dipinta anche sulla chiesetta ai piedi del Colle di Tenda, poco
prima di Vievola.
9) Nella tradizione ligure, San Cristoforo, annoverato
fra i quattordici santi ausiliatori, invocati tutti assieme nei
momenti di gravi calamità naturali, ebbe la funzione specifica
di difendere dalla peste, prima di venire affiancato e superato
da San Sebastiano, a sua volta superato da San Rocco, dopo il
Seicento.
10) L’iconografia dedicata a Cristoforo
era troppo simile all’immagine di Eracle che portava Eros su una
spalla; immagine molto diffusa nel mondo ellenistico. Secondo un
tipico procedimento del cristianesimo trionfante, il mito greco
venne interpretato come un’allegoria cristiana, mentre i
risvegli classicisti del Cinquecento ponevano troppi
interrogativi sulla similitudine dello stesso mito.
Il nome
Sebastiano deriva dal latino “Sebastianus” e significa “augusto,
illustre”. Viene usato anche nella forma troncata di Bastiano. La
commemorazione più seguita, nell’Italia nord occidentale, è quella
del 20 gennaio, in ricordo di San Sebastiano, nativo della Lombardia
e martire a Roma, nell’anno 288 dell’Era Volgare.
Protettore dei tappezzieri, dei vigili urbani, delle città di
Assolo, di Avella e della grande Roma. La Chiesa di oggi lo invoca
contro la poliomielite e la guerra.
Sempre con questo nome, sovente confondendone le personalità, viene
anche venerato un presunto legionario romano, martirizzato nei
pressi di Fossano, in compagnia di Sant’Alverio, il 26 gennaio,
sotto l’impero di Diocleziano.
Per una serie di tarde leggende greco-latine, sarebbe nato a Narbona
da madre milanese, sposata ad un funzionario nella Gallia
meridionale.
La confusione mistica medioevale lo accomuna ai martiri della
“angelica legio”, quella Legione Tebana della quale, faceva parte
anche San Secondo, il protettore della Diocesi ventimigliese,
assieme a numerosissimi altri martiri, venerati in Piemonte, Liguria
e Lombardia.1
PROCESSIONI PROVENZALI
Ben sapendo che oggi, per la Liguria di ponente, la coreografia
delle processioni popolari, si è inevitabilmente uniformata al
modello della tradizione generale centro-italica; le radici di un
rito così particolare vanno ricercate nel Medioevo, quando invece la
coreografia sacra è stata assai più vicina alla tradizione
provenzale.
Per meglio dire: - sia l’arcidiocesi milanese, sia la confinante
arcidiocesi viennese, sentivano l’influenza alpina e provenzale nei
riti, così come la Provenza sentiva, a sua volta, l’influenza
iberica 2 e gallica, che stemperava a vantaggio
delle regioni limitrofe. -
La presenza del grande albero d’alloro, nelle processioni ponentine,
è certamente residuo della tradizione legata ai cicli del lavoro nei
campi; tanto quanto la maestosità dell’albero, si innesta certamente
in quello che ci hanno tramandato i culti celto-provenzali, in epoca
medievale.3
Dal nord della Francia, come dalla Catalogna, giungevano verso la
Provenza i riti legati ai giganti ed ai mostri da processione. In
quei paesi, ogni Santo, ogni occasione processionale era esternata
con la sfilata di macchine gigantesche, o di figure ingigantite,
come in qualche caso avviene ancor oggi.
In Provenza, si può ricordare il maestoso San Cristoforo della
tradizione, nei Giochi del Corpus Domini, ad Aix; come la Tarasca,
animale leggendario, di cui Tarascona portava in giro l’enorme
simulacro. A Tolone e Draguignan, uscivano in processione gli
“chevaux frus”, poderosi travestimenti equini, assai diffusi nel
folclore europeo.
Una lista minuziosa fa' apparire, in processione, draghi o serpenti
giganti quasi in ogni città o luogo celebre: a Sainte-Baume, a
Cavaillon, alla fontana di Vaucluse, ad Avignone e nell’isola di
Lérin.4
I DRAGHI
GIGANTESCHI
Questi draghi, di fatto, hanno una duplice origine. Taluni
provengono da leggende agiografiche e sono legati ad un Santo,
sovente un vescovo od un abate e questi Santi risalgono all’alto
Medioevo.
è il caso del drago nell’isola di Lérin.
Ma molti di questi draghi processionali devono la vita solo alle
uscite nei cortei delle Rogazioni, in cui avevano un posto
ufficiale. I più celebri però, sembrano esser quelli che siano
tradizionalmente legati alla leggenda di un Santo locale.
Questi hanno potuto introdursi nelle processioni per le Rogazioni
sotto il patronato del Santo e con un’individualità spiccata,
talvolta rilevata da un nome proprio, o un soprannome.
è indubbio, che
questi draghi processionali si integrano nei riti folclorici. Le
offerte in natura che essi sollecitano sia a loro beneficio, sia per
gli organizzatori o per gli attori delle processioni, sono riti
propiziatori legati alle cerimonie che, fin dall’antichità, erano
destinate ad invocare il favore delle potenze della fecondità.
Le processioni delle Rogazioni sono state istituite nell’anno 469,
da Mamerto, vescovo di Vienne, morto attorno al 470 ed hanno
conosciuto una rapida diffusione, come ne testimonia Sant’Avito,
anch’egli vescovo di Vienne tra il 494 ed il 518.
Taluni hanno sostenuto che queste feste cristiane erano destinate a
sostituire le “ambarvalia” gallo-romane, dalle quali avevano attinti
numerosi riti fra i quali quello dei travestimenti animali.5
Certamente deriva dal folclore iberico-provenzale la maschera
processionale, trasformata, durante il cinquecento, nel cappuccio
conico, vestito dalle Confraternite della Pietà, che aveva
l’intenzione di nascondere l’identità, nell’intento di esternare una
perfetta uguaglianza di doveri tra i membri.6
SAN
CRISTOFORO
è
soprattutto la figura di San Cristoforo, ad essere affine alle
processioni in Val Nervia. Nel medioevo, in Provenza, San Cristoforo
occupava un posto non minore di quello che gli si attribuisce
altrove: a volte lo si scopre, di dimensioni gigantesche, sotto gli
affreschi del XV secolo, come nel Var, sotto il portico della cappelletta campestre di Benva.7 Il Rossi, nella sua
“Storia”, ci informa che anche a Ventimiglia, un gigantesco
Cristoforo era dipinto sulla parete d’una casa, nel quartiere del
Lago, a beneficio dei viandanti.8
Anche la chiesetta, posta sulla displuviale della collina detta:
Maure, oggi dedicata a San Giacomo; era un tempo, aperta al culto di
San Cristoforo, che dava il nome alla medesima, intera collina,
ancora nel 1498.
Nelle feste provenzali, per le quali la tradizione attribuiva il
merito a re Renato d’Angiò, era in auge la sfilata degli ordini e
delle corporazioni, che procedevano in quadrate, secondo
l’importanza ed ognuna, preceduta dall’effigie del Santo protettore.
L’ORDINE
NELLA SFILATA
Della processione di Pentecoste, in Tarascona, ci è tramandato
l’ordine di sfilata, secondo l’importanza delle associazioni
professionali. Per primi sfilavano i facchini, preceduti dal loro
possente San Cristoforo, che veniva così ad aprire la processione,
nel clima, piuttosto aggressivo, creato dai protetti, verso il
pubblico che assisteva, lungo la via.
Seguivano: i contadini, i pastori, i giardinieri, i mugnai ed i
balestrieri; poi gli agricoltori ricchi, che assumevano il ruolo
delle guardie a cavallo ed infine i borghesi, riuniti nella
confraternita di San Sebastiano, che precedevano il clero.
Nella seconda uscita, del 29 di luglio, la processione era
docilmente guidata da una fanciulla, che rappresentava Santa Marta.
Anche a Marsiglia, nella processione per Santa Marta erano presenti
San Cristoforo e San Sebastiano, con ruoli altrettanto indicativi.9
Nell’evoluzione quattro e cinquecentesca della festa, San Cristoforo
era volutamente diminuito d’importanza, fino a dare sopravvento al
Santo protettore della borghesia ascendente, il nostro San Sebastiano, appunto.10
Questo Santo, sulla grande “macchina” che lo rappresentava,
proponeva il tronco dell’albero d’alloro, dove la tradizione vuole
fosse legato, per il supplizio, ad opera di arcieri e balestrieri,
la confraternita dei quali perdeva, in quegli anni, sempre più
d’importanza.
Intanto si faceva largo l’iconografia che dava il simbolo della
peste, allora diffusissima, alle frecce martirizzanti Sebastiano,
attribuendogli il ruolo di Santo protettore dal temuto contagio.
LE BASI
DELLE PROCESSIONI IN VAL NERVIA
Anche sul nostro territorio San Cristoforo perdeva d’importanza; nel
1652, troviamo la chiesetta sulla displuviale Seborrino-Resentello,
esser già intitolata a San Giacomo, mentre la collina, prima
dedicata al Santo gigante, veniva nuovamente ricordata come Maure,
sarà forse per indicarne il vistoso risalto di roccia, non certo ,
come si dice, a memoria di suoi trascorsi saraceni.
I secoli XVII e XVIII sono anche quelli per i quali è presente la
primitiva documentazione del culto a San Sebastiano, così come oggi
è elaborato, dal popolo, col beneplacito cattolico.
Che l’evoluzione dei giganti da processione con le conseguenti
macchine, si sia verificata anche sul nostro territorio, è
documentato sia dal folclore provenzale; che dalle tradizioni
piemontesi e lombarde.
Infatti, su tutto il territorio italico Nord-occidentale le
gigantesche macchine da processione si sono evolute negli artistici
gruppi lignei, sovente rappresentativi della Via Crucis, opera di
rinomati artisti del settore, quali il ligure Maragliano.
I giganti, i travestimenti e gli eventuali draghi sono mutati in
figure di corpulenti soldati o cavalieri, come di grandi vescovi. Si
sono create le Confraternite incappucciate ed hanno trovato
inserimento i giganteschi crocifissi filigranati della tradizione
ligure levantina.
Da questa variazione apprendiamo che la deambulazione della pianta
d’alloro, anche se retaggio di una antica religiosità, avrebbe
trovato la sua affermazione folcloristica, proprio sul nascere
dell’evo moderno, ripescata da un’antica memoria popolare,
certamente indelebile lungo il procedere di numerosissime
generazioni.
Avrebbe potuto rappresentare la sostituzione delle gigantesche
sembianze di un San Cristoforo in crisi d’importanza, in abbinamento
con il dirompente San Sebastiano.
Fin dal secolo scorso, le confraternite prevedevano altre
rappresentatività e distinti ruoli; mentre gli stessi Santi
protettori assumevano ritualità conseguenti.
Sono gli appuntamenti calendariali a restare immutati nella
tradizione popolare, a testimonianza di un passato che assume tutto
lo spessore del sedimento folcloristico, oltre a quello più
prettamente religioso.
Ritualità
ancestrali
SAN
BASTIAN
SAN BASTIAN |