ALIMENTAZIONE INTEMELIA
PRODOTTI
del BOSCO |
Da sempre, la popolazione agricola pratica la raccolta dei frutti spontanei, nati nel bosco: funghi, fragole, lamponi; ma anche la fauna minima del bosco, come le lumache e le rane, è sempre stata attiva nella dieta popolare.
Anche in periodi storici, la popolazione agricola ha continuato a praticare la raccolta dei frutti spontanei, seppure nel Medioevo, il nobile vassallo, oltre alla caccia ed alla pesca, ha cercato di accaparrarsene l’esclusiva, anche se, per il popolo la raccolta era una tra le poche speranze di sopravvivenza alimentare.
Oggi al contrario, l’eccessiva libertà di razzia provoca danni gravissimi al bosco, anche se legalmente pare si tratti di “risorse naturali rinnovabili”, mentre il sottobosco non viene più ripulito con la raccolta della piccola legna e degli sterpi, che un tempo servivano come unico mezzo di riscaldamento ed oggi sono alimento per moltissimi incendi dolosi o almeno colposi.
La raccolta dei funghi andrebbe maggiormente controllata, più di quanto non riescano a metterlo in atto le sparute forze della Forestale, o il rilascio degli speciali permessi comunali.
I fùnzi, e lumàsse, e ràine ed i frutti di bosco, oltre alle erbette e alle insalate spontanee, hanno sempre rappresentato una sorta di patrimonio agreste comune, molto importante.
L’Asparago selvatico, presente fin dall’antichità in modo spontaneo, soltanto per areali particolari; ha trovato gran diffusione e molto interesse nella raccolta, all’inizio del secolo. Infatti, in quel periodo veniva introdotto in specie più evolute nelle coltivazioni del verde commercializzato i floricoltura, mentre quello selvatico, forse rinvigorito dalle impollinazioni si è propagato con maggior vigore e robustezza.
Periodi di carestia hanno insegnato alla gente a valersi d’ogni genere ai raccolta, ma alcune trovate d’emergenza sono rimaste in qualità di leccornie: i bùrri d’u ruvéu l’apice tenero del rovo; i pampini del luppolo i magliöi d’a viàrba; più attuali, le infiorescenze dell’Acacia Robinia, e sciùre de gazìa.
All’ombra delle rare pinete costiere, quelle impiantate nell’Ottocento, dopo le solite giornate ventose, si possono raccogliere gustosissimi pignöi, poco più piccoli di quelli toscani. In un ancor recente passato venivano prelevate anche le pigne, utilissime per avviare il focolare.
I FUNGHI
I fùnzi hanno da sempre trovato un abitat eccezionale nei boschi del nostro vasto entroterra. Cairòs, Bérghe, Navette, Gìa, Brevé, Sansòn, Gouta, Lausegno, Gordàle, Fòa, Caggio e Montenero, sono i più rinomati, tra i boschi dove prosperavano squisiti porcini, detti buréi, ottimi sanghìn, delicate spugnole, i cicòti, chiodini e nobili ovuli, ma anche quei saporiti pioppini, che chiamiamo arbanéle, ottimi sott’olio; tanto da passare il loro nome ai grossi vasi di vetro che li ospitano in gastronomia.
Oggi, con il propagarsi degli orari di lavoro ridotti e la diffusa mania dilettantistica della vita agreste; ma soprattutto per colpa della diffusa ineducazione e lo sfruttamento commerciale, il fungo locale è in reale pericolo di estinzione.
Alla fine degli anni Ottanta, molti accaniti cercatori perseverando nel recarsi nei boschi della vicina Costa Azzurra, a far scempio, con una raccolta dissennata e totale, sono riusciti a far chiudere l’accesso ai non residenti, cosicché oggi hanno riportata la loro devastante ed ingorda mania sul nostro territorio.
Nella famiglia dei tuberi, dal Basso Piemonte, viene sovente importato il tartufo bianco, a trìfula, che valorizza le riccette importate dalla gastronomia del Cuneese. Nessuno si e mai chiesto quali risultati sarebbero ottenibili con l’impianto di una tartufaia in Gouta, tanto per dirne una. Usando i moderni metodi di impianto, una tartufaia dovrebbe attecchire anche sui nostri terreni, riuscendo a generare un economia abbastanza certa.
FRUTTI DI BOSCO
Nelle ampie zone boschive del nostro entroterra, la raccolta dei frutti di bosco è stata molto attiva, fin dall’Antichità, ma si è interrotta, irrimediabilmente nell’ultimo dopoguerra, anche a causa delle inopportune divisioni confinarie italo-francesi.
Nell’antico bòscu d’e Navéte, tra Tenda e Monesi; o nel bòscu de Brevé, dietro il monte Toraggio; come nel bòscu de Gia o d’Aimin, o quello de l’Ubàgu, sopra Pigna; si raccoglievano: e mùre, le More ed i Mirtilli, detti. i brügugnùi’, assieme ai Lamponi, e émpare, ma anche i meréli, cioè le fragole selvatiche.
Oggi, a Mendatica, tanto per citare una comunità attenta, a noi vicina, hanno impiantato ingegnose coltivazioni dì mirtilli, lamponi e more, esportandone la produzione. Per contro, nel nostro entroterra, molto adatto allo scopo nelle medioalte valli Roia e Bevera, i decaduti obblighi confinari non hanno ancora saputo generare operatività in tal senso.
Nella macchia mediterranea, caratteristica della fascia costiera, nascono spontanei: i Corbezzoli, detti i arburussìn, con e sciòrbe, oltre a e zìzure ed a e nazaròle, piccole melette gustose, ma il frutto originario più gustoso in assoluto sono e mùre d’a seàussa, il sorosio del gelso giunto dall’Asia, con i bachi da seta.
Importati dal mondo arabo, nella nostra macchia, sono entrati a farne parte il Melograno, u megràn ed il Carrubo, quest’ultimo produce e carùbe, oggi neppure raccolte per gli animali, ma un tempo sostentamento per l’uomo.
Non dimentichiamo le Nocciole, le Noci e le Mandorle, i frutti delle quali vengono chiamati i sciacümi, in generale. Le difficoltà di coltivazione intensiva, hanno posto fuori mercato tutti i gustosi frutti della macchia, dal banco del moderno fruttivendolo, con la perdita di reconditi sapori.
L'Apicoltura intemelia
L’antico Ligure era maestro nell’apicoltura. L’ape della razza Ligustica è senza dubbio la più antica, tra le razze oggi viventi, mentre risulta ancora tra le più attive e redditizie. E’ piccola di corporatura, ma assai docile e ben organizzata, instancabile e molto duttile verso l’ambiente.
Da molti segni, rimasti vivi sul territorio, si potrebbe tranquillamente affermare che: l’ape è stato l’animale totemico più venerato, dal popolo intemelio. (*)
Fin dall’antichità, l’apicoltura intemelia ha prodotto l’amé, ma anche a çéira, per le candele eppoi, in tempi più recenti: Polline, Propoli e Pappa reale, secondo i gusti moderni. Il favo completo di miele viene chiamato a brésca.
Il miele è stato per secoli il dolcificante più diffuso, o per meglio dire, l’unico conosciuto, fino al Seicento inoltrato, quando dalle coltivazioni americane della canna da zucchero, giunse in Europa l’elaborato granuloso derivato dalla sua macinazione.
La bevanda alcolica dell’antico popolo Intemelio è stata l’idromele, una sorta di “moscato”, ottenuto con la fermentazione a caldo di alcuni lieviti del miele. E’ stata bevanda rituale di derivazione celtica, ma anche bibita popolare.
Nell’abitudine dialettale locale d’elidere il più possibile i vocaboli, l’idromele è conosciuto come u drumé; termine che preso fine a se stesso, implica però una più approfondita ricerca.
Nell’alta Val Roia, l’apicoltura è stata molto attiva fin dal Medioevo. Nell’Ottocento, il miele e la cera sono stati tra i prodotti più richiesti agli apicoltori del retroterra di Mentone ed a quelli di Sospello e di Briga. I diffusi agrumeti e la macchia alpina permettevano la produzione di un miele monoflora dolcissimo.
L’apicoltura locale, ancor oggi, pur passando inosservata, presenta un’intensa attività di piccoli imprenditori ed appassionati dilettanti, producendo ottimi mieli monoflora, dalla Macchia mediterranea.
Insidiato da alcuni parassiti devastatori, negli ultimi tempi, quest’artigianato ha subito un rallentamento, che dovrebbe invece trovare nuovi adepti e rinnovati finanziamenti. L’allevamento dell’ape è oggi chiamato a favorire l’impollinazione di frutteti e di varie culture, dando una mano all’equilibrio naturale dell’ambiente; sicché se viene condotto, approfittando delle moderne innovazioni, può essere redditizio.
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