DORSALI, SCARPATE E CASTELLARI
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Nell’antichità più remota, dopo aver abbandonato
le caverne, quali abitazioni naturali ed averle rese santuari della loro
vita sociale e religiosa, gli uomini che abitarono il Ponente ligure
costruirono le capanne dei loro villaggi sui culmini delle dorsali
montane accessibili, dopo aver eretto un vallo di protezione tutt’attorno
ed a volte anche una robusta palizzata.
Avevano attentamente scelto tali posizioni dominanti, da dove
potevano controllare, con largo anticipo qualunque vivente si fosse
avvicinato; prospettive migliori le offriva un culmine montano che
avesse avuto caratteristiche di dirupo, o di scarpata inaccessibile,
almeno da due lati dell’insediamento.
Noi abbiamo assegnato a queste entità territoriali stanziali
il nome di “Castellari” e sappiamo quanto fossero diffusi sulle alture
che sovrastano le basse e medie valli dei corsi d’acqua più importanti,
diradandosi mano a mano che le alture si facevano più impegnative.
Le tribù più importanti e numerose soggiornavano in più
castellari, facendo in modo che fossero otticamente visibili tra loro;
potendo così segnalare a vista qualunque notizia importante e non
rinviabile.
Questa scelta principale impegnava, per conseguenza, il
sistema di collegamento dei percorsi tra castellari, che si dipanava
soprattutto lungo le sommità dei crinali. Dov’era possibile, dunque si
tracciava il sentiero sulla linea displuviale, abbandonandola il meno
possibile, allorché si era costretti dalla morfologia del terreno.1
Nell’economia di allevamento ed agricoltura, i
primitivi Intemelii praticavano anche i corsi d’acqua di fondovalle e
certamente la riva del mare, dove qualcuno di loro navigava, persino; ma
gli insediamenti abitativi più vicini alla costa erano situati sui poggi
delle sommità più elevate o più strategiche, collegate da opportuni
camminamenti in costa.
Dal punto di vista orografico, la Zona Intemelia
concedeva ottimi siti per castellari lungo la dorsale che dalla
Collasgarba si volge verso Passo Muratone; infatti oltre
all’insediamento al culmine della Colla medesima, il quale nei secoli a
noi più vicini avrebbe dati principio al sito della capitale degli
Intemelii, servita da un importante porto canale, erano presenti
castellari in Ciaixe, Cima d’Aurin, Monte Abeglio, Terca, Furcuin e
Testa d’Arpe.
La dorsale sulla riva opposta del Nervia, trovava
insediamenti sulla Cima Croairöra, Belavista, Rebüfau, Monte Cagiu,
Monte Acüu, Monte Veta, Monte Meřa e Monte Ceppo. Verso il mare: Peiga,
Sapergo e Montenero.
La dorsale sulla destra del Roia ha ospitato siti selle
alture di Maglioca, Pözu, Martempu e Piena. Sopra Capo Mortola: Belenda
e Carpan; verso Occidente: quelli che oggi sono Castelar, Sant’Agnes e
Gorbio e sulle pendici di Mont’Agel: Munte d’ê Müre e l’attuale Türbia.
I PERCORSI DI CRINALE
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Per il tipo di dorsale calante sulla riva del
mare e saliente decisa verso il più profondo entroterra, partendo dalla
foce del Nervia, il sentiero di crinale territorialmente più importante,
superava la Collasgarba, andando a segnare quella che oggi è per noi
l’Alta Via dei Monti Liguri, che svolta dopo Muratone verso le pendici
occidentali del Saccarello, con Collardente vero e proprio nodo viario,
che incanalava verso il Piemonte, ma anche verso le dorsali liguri a
Levante, dando ospitalità alla notissima Via Marenca.
Il secondo percorso di crinale, per importanza, dal
poggio che ospita lo Scögliu di Ventimiglia Alta, si svolgeva totalmente
sulla displuviale tra Roia e Bevera, (dato che conosciamo come il Bevera
sfociasse nella piana di Latte),2
fino a raggiungere il Colle de l’Aüziùn ed il Türinì, da dove si apriva
verso la Gallia. Da Capo Mortola e da Garavan il percorso di crinale del
Granmondo voltava a Occidente verso la dorsale Capo d’Agliu - Munte Ursu,
la quale ospitava il percorso più occidentale, verso l’entroterra e
l’alta valle del Bevera.
Questi erano i tre principali itinerari di cresta della
Zona Intemelia, ma a Levante erano assai attivi i quattro crinali che
avevano come culmine di valico Monte Bignone: dal Ramassu a Belavista,
Rebuffau e Monte Meřa - dal Bausu a Negi e Monte Caggio - da Capo
Ampeglio a Sapergo e Monte Carparu – da Capo Nero al Carparu, Caggio e
Bignone.
A Ponente, oltre quello già citato da Capo d’Agliu a
Mont’Axel, Monte Ursu, il Brausu, Peiracava, il Turinì e l’Auziun - da
Capo Martin a l’Axel e quello da Carnulese a Monte Ursu.
I crinali citati, erano intersecati da almeno due
importanti direttrici ad essi trasversali, sfruttanti le dorsali
interne, conosciute nei secoli successivi come Vie Regie, avendo fin
d’allora necessità di una qualche patente di percorrenza.
Una di quelle, che poi sarà la Via Regia riconosciuta,
raccoglieva la viabilità proveniente da Levante presso la media valle
dell’Argentina ed attraverso: Langan, Muratone e il Türinì portava in
Gallia e viceversa. L’altra, molto più vicina alle coste del Mar Ligure,
ma sempre in crinale, per dov’era possibile, portava da Marsiglia al
Turchino, attraverso il sito de La Turbia ed era conosciuta fin
dall’antichità come
Via Heraclea.3
LA RETE DELLE MULATTIERE, PRESSO LA COSTA
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Sul territorio dappresso la città di
Ventimiglia, ancor oggi, una fitta rete di mulattiere e sentieri collega
l’Alta Via dei Monti Liguri alle campagne di fondovalle e viceversa,
anche se le numerose strade interpoderali, ricavate con quegli arditi
sbancamenti possibili con l’uso dei moderni escavatori, relegano le
antiche mulattiere al completo disuso ed alla conseguente sparizione.
Tra le più importanti, di queste antiche bretelle, è da
considerare la mulattiera di Siestro, che dalla località Serre, dov’era
la Conceria Lorenzi, porta al Santuario della Madonna delle Virtù, tanto
caro ai ventimigliesi fin dal primo Settecento.
Calato d’importanza con la costruzione della viabilità romana
di costa, dal XIII secolo, quella mulattiera aveva sostituito il
percorso introduttivo verso il crinale Collasgarba-Cuřumbin, giacché il
percorso di Collasgarba era stato isolato dalla mura genovesi, costruite
nel 1221.
Anche la mulattiera delle Mauře, era stata interessata
da quell’isolamento, essendo, infatti, controllata dalle Portasse, che
volgevano anche un occhio indiscreto alla mulattiera dei Martinazzi, che
nell’Alto Medioevo serviva anche la grangia e l’antica chiesuola di San
Martino, della quale oggi restano le contenute rovine.
Da allora, era tornato ad essere privilegiato il
passante che dalla Medievale chiesa di San Giacomo, attraverso l’abitato
di Martinazzi ed il Passo della Pia, sul culmine di Siestro, portava al
Santuario della Madonna delle Virtù, nodo viario del percorso di crinale
verso Ventimiglia. La Chiesa di San Giacomo, che precedentemente era
dedicata a San Cristoforo, è sempre stata facilmente raggiungibile dal
fondovalle della Nervia lungo il vallone di Seborrino, sul crinale da
Bigauda a Monte Fontane.
Le pendici Sud-Est di Magliocca sono ancor oggi
percorse da mulattiere o da strade carrabili, quelle che hanno
sostituito gli antichi tragitti pedonali di collegamento verso la strada
dello Strafurcu, appendice dell’antica via Domizia.
Significativa nel tempo è stata la serie di
mulattiere che oggi sono state sostituite dalla carrozzabile via Sant’Anna.
Traevano origine dal sito di Ripa Santo Stefano ed inerpicandosi per l’Auregnana
raggiungevano il percorso di mezza costa che dal Forte San Paolo oggi è
collegato con Seglia; quel percorso che nel tempo ha sostituito il
camminamento di crinale che, abbiamo visto essere il debutto della
strada per lo Strafurcu.
I punti di immissione con la strada di mezza
costa sono stati a Nord delle Lisce e nei pressi di San Bernardo. Il
punto di immissione sull’antico percorso di crinale potrebbe esser stato
proprio il sito di Castel d’Appio.
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Per le mulattiere presenti nelle dorsali
interne: in Val Roia: importanti dorsali si diramano dal sito
d’immissione di Beonia e Levenza: da li a Cima del Diavolo - da li al
Colle del Sabiun - da li a Cima Bertrand - da li a Cima Marta; dove
giunge anche l’importante crinale da Saorgio, Anan.
Nella Valle displuviale del Nervia: il crinale da Mara,
a Gouta e Müratun - da Carvaira a Ghimbegna, dove giunge anche il
crinale da Foa - da Vetta a Ceppo - da Pigna al Toragiu e quello da
Pigna a Langan.
LE STRADE ROMANE
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Nel tratto più a ridosso della costa
marina, in sostituzione dell’intervalliva
Strada Heraclea, con l’arrivo
sul territorio intemelio dei Consoli romani, conquistatori, giunsero
anche la Via
Æmilia Scauri, strada consolare che intersecava l’appendice
Sud della
Via Domitia, proveniente dal Piemonte, nelle vicinanze di
Castel d’Appio.
La prima e più importante, venne costruita, nel 109
p.e.V., dal console Marco Emilio Scauro, con avvio da Piacenza, passando
per Voltri, fino a Marsiglia, ricalcando per sommi capi l’itinerario
dell’Heraclea, ma sostanzialmente spostandola più vicino alla costa, non
più impenetrabile, a causa d'un cospiquo disboscamento del Lucus Bormano,
e per giunta protetta dal mare dal consolidarsi della “Pax Romana”, o
meglio dall’attività prodotta dalla potente flotta di Roma.
La via Domitia, della quale restano alcuni tratti sulle
pendici del Colle di Tenda, presso Limonetto, riprendeva l’antica
viabilità di crinale della Val Roia ed attraverso il Colle di Cornio la
collegava con Pedona (Borgo San Dalmazzo), per poi proseguire verso la
terra dei Taurini. Venne tracciata nel 122 p.e.V., dal console Gneo
Domitio Enobarbo, quando ebbe battuti gli Allobrogi.
Il tracciato della via Æmilia Scauri, entrava nel territorio intemelio
sulle pendici di Capo Nero, seguiva la costa in altura fino a Capo
Ampelio, per poi percorrere la basse pendici dei colli costieri, fino al
tempietto dedicato ad Apollo, che oggi è rappresentato dalla chiesetta
di San Rocco, a Piani di Vallecrosia.
Attraversata la Nervia con un guado, a settentrione del
Porto Canale, lambiva le prime case di Albion Intemelion, sulle pendici
della Collasgarba, per proseguire in quota sulle Mauře, attraversando il
Resentello e costeggiando la collina di Siestro fino all’importante
guado per passare al di la della Roia, tra le attuali Gianchette e la
Ripa sottostante l’Auregnana, chiamata in seguito Ripa Santo Stefano.4
Giunta sulla riva destra della Roia, si inerpicava
sullo Scoglio, fino al tempio dedicato ai Dioscuri, oggi chiesa di San
Michele, per poi voltare verso il Colle, così da scavalcarlo in località
Peidaigo, sopra i Due Camini.
Con buona probabilità la Æmilia Scauri seguiva il
percorso della Domitia fino a
Castel d’Appio per poi tenere la quota
fino alla Girauda da dove calava su Garavan, verso la mansio di Lumone
su Capo Martino, dove cominciava ad inerpicarsi verso la Turbia, per
calare poi sulla pendici Nord-Ovest di Mont’Agello verso Cemenelum.
Dopo oltre un secolo di buon uso della Via Æmilia
Scauri, il neo imperatore Ottaviano Augusto riprese quella viabilità per
creare una strada più duttile che in suo onore fu detta Julia Augusta.
Il nuovo tracciato, che di massima calcava quello
descritto in precedenza raccoglieva le varianti che l’urbanistica locale
gli aveva nel frattempo imposto, infatti, attraversata la Nervia entrava
nella Città Nervina, percorrendone il decumano,per sortire da Porta di
Provenza verso l’attuale piazza della stazione di Ventimiglia,
costituendo la sacrale Via dei Sepolcri.
Attraversato il Roia, un poco più a valle della Ripa,
risaliva verso il limite più avanzato del Cavu, nei pressi del quale era
eretto un tempietto dedicato a Giunore Regina, per poi correre sul
crinale dello Scögliu e del Colle, fino a Peidaigo per degradare poi
sulle falde delle attuali Ville, fino a giungere oltre il Murru Russu,
dove affrontava la piana del Rio Latte, presso la foce e costeggiando la
riva, in quota. superava Punta Mortola. Sempre costeggiando andava oltre
l’attuale Mentone fino alla cruciale mansio di Lumone, alla base il Capo
Martino.
Con la costruzione della Via Æmilia Scauri, che divenne
poi Julia Augusta, si ebbe dunque una vera e propria strada di cornice,
lungo la costa della Riviera di Ponente, che, dalla Gallia, conduceva
oltre l’Appennino, verso quella Pianura padana lombarda che sarà punto
d’attrazione delle future attività politiche liguri.
LA SACRALITÀ DEGLI INCROCI STRADALI
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Fin dall’antichità, l’uomo che si spostava
per lunghi viaggi, aveva necessità di trovare indicazioni sul percorso
da seguire, specialmente quando doveva affrontare un bivio mai visto
prima. La solidarietà da parte delle popolazioni stanziali d’un luogo e
quella dei viaggiatori che si erano trovati a disagio al medesimo bivio,
avrebbero attivato, nel tempo, una sorta di segnaletica d’avvertimento,
sull’importanza di rintracciare informazioni in quel punto.5
Quelle primitive segnaletiche diventarono ben presto
semplici are o sacelli dedicati ad una divinità campestre, in seguito, a
seconda dell’importanza del sito assumevano la dedica ad una divinità
più universalmente riconosciuta. Giunone è stata la dea latina
espressamente protettrice dei crocevia, forte del suo particolare
attributo di “Giunone dei crocicchi”.
Tra i Liguri intemelii doveva essere assai ricorrente
segnalare un importante crocevia adattando a sacello una grotta o una
cavità espressamente scavata. Sul primitivo santuario pagano,
l’importanza del sito ha fatto erigere un tempio e poi una chiesa, la
quale ci ha potuto tramandare la logistica dei siti con assoluta
precisione.6
Il crocevia più importante e sacrale doveva essere
situato sullo Scögliu, dove, in cavità artificiale, i viaggiatori si
sarebbero avvalsi dei presagi di una divinità femminile locale, forse
equivalente a Sirona o ancor meglio a Belisama, la quale, nel tempo, è
stata latinizzata in Giunone regina ed infine cristianizzata con
l’Assunta.
Nelle barme che si affacciavano di fronte ai Paschei,
aperte nelle pendici più meridionali di Siestro, si poteva contare sulle
indicazioni di un fauno locale latinizzato forse nel divino Eracle, cui
dovrebbero esser state dedicate le pendici rocciose retrostanti,
conosciute oggi come Mauře, cristianizzate in San Cristoforo e poi San
Giacomo. Quel crocevia dava l’indizio delle mulattiere che volgevano
verso Siestro e le Mauře, appunto.7
Sul nostro territorio, altre grotte, o “barme”, hanno
contenuto o contengono riferimenti sacrali, in siti che erano sede di
importanti crocevia, che nel tempo sono state segnalate da importanti
monumenti cristiani: il Santuario di N.S. delle Virtù, la scomparsa
chiesa di Santo Stefano in Ripa, San Michele sulla Colletta, San
Pancrazio di Calvo, Sant’Antonio in Val Latte, San Martino al Resentello
e forse anche San Lazzaro sulla Rocca, poi convento dell’Annunziata, era
sorto su una primitiva grotta.
La scelta del sito non era mai casuale, infatti,
l’ubicazione derivava dalla sensibilità che quegli uomini conservavano
ancora verso le coordinate del magnetismo terrestre, qualità che l’uomo
d’oggi ha, in generale, completamente perduto.
I sensi dell’uomo primitivo avvertivano costantemente
le canalizzazioni magnetiche che il globo terraqueo produce in termini
ben precisi, anche se un poco fluttuanti; seguendo quei flussi l’uomo
viaggiatore determinava la validità del suo percorso. Al sorgere di un
eventuale dubbio, il sacello sacro a quella determinata divinità, eretto
su un punto d’intersezione di due flussi magnetici ortogonali, dava
l’indicazione sul percorso da seguire in seguito, a seconda degli
attributi collegati alla divinità medesima, comunemente noti, o
solamente intuiti, al tempo, dalla pratica dei viaggiatori.
NOTE:
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1) La scelta di percorrere i crinali,
durante i continui spostamenti, era stata messa in atto dalle primitive
tribù che praticavano la sussistenza da cacciatori e raccoglitori,
giacché avevano accertato quanto fosse importante Il procedere potendo
controllare, con largo anticipo, il territorio che stava loro attorno,
per tutto il volgere dell’orizzonte visivo. Questo semplice accorgimento
concedeva la certezza di non venir sorpresi da agguati inopportuni;
inoltre, affrontando continuamente paesaggi sconosciuti, il fatto di
dominare l’ambiente dall’alto concedeva di non smarrire l’itinerario
prefissato, ritrovando con immediatezza soluzione alternative ad
eventuali asperità invalicabili. La stanzialità degli agricoltori non
aveva potuto cancellare le primitive abitudini conseguite, che si
mostravano decisamente valide: tanto che ancora alla fine del XIX secolo
le popolazioni dell’immediato entroterra preferivano percorrere la fitta
rete di percorsi di crinale, anche se erano da poco realizzate le comode
strade di fondovalle.
2) Per le conoscenze sull’antico corso del Bevera consultare: E.
Azaretti: U nome d’ê ciaze e d’i scögli de Ventemiglia / “A Barma
Grande” 1974 - E. Azaretti: Toponomastica della costa ventimigliese /
Rivista Ingauna e Intemelia - XLI - 1-4 - Ist. Int. St. Lig. Bordighera
1986; p. 48:
2.16 - Inizia poi u Cian de Laite «la piana di Latte» una estesa
formazione deltizia che contrasta con la modesta, saltuaria portata del
Valùn de Laite «rio Latte», che l’attraversa. La spiegazione del
contrasto è stata individuata, dai geologi B. Limoncelli e M. Marini,
nella cattura del torrente Bevera, che aveva anticamente la sua foce a
Latte, da parte del fiume Roia.
3) Per l’antica Strada Heraclea consultare anche la pagina informatica,
sulle ipotesi di tracciato: L’antica Strada Heraclea.
4) Le usurate rovine della chiesuola di Santo Stefano, che ha dato il
nome alla Ripa fluviale, sono da ricercarsi all’interno del voluminoso
terrapieno che sostiene il deposito dei materiali edili della ditta De
Villa, confinante con la Vaseria Fonte, ad un centinaio di metri in
linea verso Nord-Est dall’ex Caserma Gallardi. La signora Vittoria
Muratore, che abitava nella villetta sotto il ciglio del giro su via Gallardi, nel tratto in curva che si prepara a sottopassare l’Autostrada
dei Fiori, me le ha indicate nel 1957, durante una passeggiata
conseguente ad una visita di cortesia che, con mamma, gli avevamo
rivolto, in compagnia di sua sorella Maddalena, la mia “tata” della
fanciullezza.
5) Tra la gente di montagna, questa usanza trova applicazione ancor
oggi. Lungo un percorso ascensionale, dove è difficile avere sott’occhio
la situazione sui camminamenti più appropriati, è consuetudine di
aggiungere un sasso alla montagnola di pietre che ci ha indicato un
bivio importante. Più la montagnola risulta corposa e più la strada
dovrà essere frequentata e sicura.
6) In molti casi, la presenza sul sito di un eremita, il quale poteva
anche assumere funzioni di oracolo, concedeva al santuario una presenza
sacerdotale spontanea, che oltre a concedere le indicazioni richieste,
produceva presagi a buon prezzo.
7) Il 9 luglio dell’anno 1194, i consoli ventimigliesi Fulco Nolasco,
Corrado Mirabello, Fulco Bellaverio e Guido Siro concedevano ai canonici
di edificare e gestire, presso le Barme di Siestro, una chiesa dedicata
a San Simeone. Sarà soltanto nel 1345 che Babilano Curlo, auspicando,
nel testamento la fondazione di un convento di canonici Agostiniani, in
Ventimiglia, patrocinava la costruzione della chiesa dedicata a San
Simeone. Su quel luogo, il 7 marzo del 1487, dietro istanza di fra
Giovan Battista Poggio, vicario generale degli Agostiniani, il vescovo
intemelio Alessandro Fregoso poneva la prima pietra del convento
dedicato a N.S. della Consolazione, nel luogo detto “Bastita”, ora detto
quartiere di Sant’Agostino, o Cuventu.
CONDIZIONI DELLE STRADE COSTIERE, DALL'ANTICHITà
Lungo quelle coste,
quei pochi tratti di territorio pianeggiante, sufficientemente lontano dalla
volubilità della battigia; a causa della diffusa particolarità di essere
sormontati da alture in forte pendenza, invece di concedere una tranquilla
percorrenza paesistica, hanno sempre suggerito di superarli lungo i loro
crinali, in altura, dove il controllo sulle frequentazioni era certamente
superiore. Non si sarebbero evitate soltanto sorprese provenienti da terra, ma
quelle molto più rischiose e devastanti che potevano sopraggiungere dal mare, a
sorpresa.
La romanità
conquistatrice non è riuscita, ma neppure ha voluto riuscirvi più di tanto a
migliorare queste condizioni. Su questo argomento è probante il percorso
tracciato dal console Marco Emilio Scauro, nel 109 p.e.V., quando tutto il
territorio ligure era stato sottomesso, dalla Roma repubblicana. Dalla foce del
Fiume Magra, la costa ligure veniva abbandonata dal nuovo tracciato, che si
inerpicava sull’Appennino, fino a valicare la Cisa; percorso poi un tratto
pianeggiante dell’importante,Via Emilia, arteria padana, tornava a risalire gli
Appennini, questa volta al Col di Cadibona, per scendere su Vado, a riprendere
una viabilità costiera già esistente, fornita soprattutto dalle mulattiere, a
valico crinalico dei Capi marittimi. magari un po’ all’interno, verso
l’ennesimo, ultimo valico ligure, che permetteva di superare l’Alpe Summa e
raggiungere le Gallie.
La modernizzazione condotta dalla Roma imperiale, per mano di Augusto, non
ha migliorato molto la situazione. Qualche mansio in più e qualche guado
pavimentato, per rendere più agevole il transito; ma per realizzare
l’alternativa al giro sugli Appennini, giungendo finalmente a toccare
l’emergente Genova, è stato necessario attendere la nomina imperiale di
Antonino Pio.
Questa versione
della Via Iulia Augusta, tutta ligure, ma dall’aspetto poco più che
mulattiero, è passato indenne per tutto il Medioevo, peggiorando
gradualmente, ma inesorabilmente, il proprio tracciato. Nel momento che il
Comune Genovese ha abbracciato la vocazione dei traffici marittimi, in
concorrenza con Pisa e Venezia; andando alla ricerca d’un decente dominio di
terraferma, nel XIII secolo, ha pensato bene di demolire le attrezzature
marittime delle città liguri di costa, concorrenziali ai suoi traffici;
suggerendo loro un futuro verso la vocazione agricola, dalla quale in
effetti lui proveniva, ma non ha condotto alcun miglioramento ai trasporti
terrestri, provvedendo con i battelli alle eventuali occorrenze
irrinunciabili.
Nel 1315, ci ha pensato
il Sommo Dante a tramandarci notizie evidenti sullo stato della viabilità di
costa in Liguria, quando tra le rime della sua “Commedia”, trattando d’una
rupe assai erta, da affrontare per poter raggiungere la falda d’un monte del
Purgatorio, particolarmente scosceso; la ha usata come confronto verso il
peggio. Tra le righe 49 e 51 del Canto Terzo di quel settore, scrive: «Tra
Lerice e Turbia, la più deserta, / la più rotta ruina è una scala,
/ verso di quella, agevole e aperta».
Per veder migliorare
qualcosa, c’è voluto che Napoleone, da imperatore, confinasse i genovesi
nella loro città, in modo di poter liberamente progettare le strade di
costa, in Liguria. Quelle strade, che verranno poi costruite dal piemontese
Regno Sardo, dopo che il trattato di Vienna è riuscito a cancellare quella
inetta “Superba” Repubblica.
A risolvere, magari non del
tutto, l'annoso problema, ci ha pensato la ferrovia, però al decadere del
XIX secolo; mentre, per la complicata soluzione della percorribilità
privata, ci ha pensato l'Autosdrada, con interventi un po' invasivi del
paesaggio ma quasi inevitabili. La camionale tra Genova e Savona è stata
operativa nel 1967, poi la A10, da Savona a Ventimiglia nel 1971. La
A12, da Genova a Livorno, ha seguito un iter più complicato ancora; nel 1969
è arrivato il tratto tra Genova e Sestri Levante, ma perché giungesse a
Livorno si è dovuto attendere il 1975.
Fin dalla più remota
antichità, lungo le Riviere Liguri, la percorribilità delle strade di costa, è
stata assai malagevole. Le asperità territoriali dei Capi marittimi, che si
estendono dalle alture delle Prealpi o degli Appennini fino in mare a quote
assai elevate; non hanno mai concesso di farsi superare da strade facilmente
praticabili.
Inaspettatamente,
diventava più agevole superare quelle alture su falde meno impervie, all’interno
delle vallate; qualche volta anche molto internamente, piuttosto che aggredire
certi Capi sulle loro falde terminali.
È ora rimpiazzata dalla moderna strada della Corniche, che scorre
parallela, ad una altezza più elevata, attraverso i possedimenti del
sig. Hanbury e presso la ferrovia, le cui linea passa tra questa ed
il mare, trasportando nel modo più assurdo passato e presente: i
lavori dell’antico Pontefice Massimo e quelli del moderno ingegnere.
Il signor Hanbury preservò questo stretto sentiero con la massima
cura e lo racchiuse tra muri ornati da edera ed altri rampicanti.
Oggi nessun passo umano rompe il suggestivo silenzio. Dopo aver
servito all’uomo, ora la Natura se ne è nuovamente impossessata; ha
in parte cancellato le tracce d’arte umana col suo grazioso mosaico
di fiori selvatici e distendendo un tenue tappeto di muschio e
licheni, ove, un tempo, il fracasso dei carri e le grida dei soldati
Romani diedero origine agli eco delle colline”.
Hugh
MacMillan - “The Riviera” - 1885
“La Mortola and Ventimiglia”
“Ma oltre a questa meravigliosa bellezza della natura e dell’arte, il
luogo acquista un ulteriore interesse dal suo legame col passato. In
basso, non lontano dalla spiaggia, si snoda la antica via Romana, la Via
Julia Augusta che per secoli fu la normale strada dalle Gallie
all’Italia. La via che Aristotile chiamava Via Eraclea, attraverso cui,
il semidio Ercole transitò dalle terre dei Liguri per recarsi in quelle
più lontane, nel sud.
Questo mito è tuttora mantenuto vivo a testimonianza e per idealizzare
il popolo fenicio e gli abitanti della città di Tiro che, secoli
addietro, commerciarono nei vari porti lungo le spiagge dell’antica
Provenza.
Detta strada deve essere stata percorribile per quasi tre mila anni. Ci
sono ancora persone in vita che l’hanno attraversata a cavallo, come la
sola via transitabile per recarsi da Marsiglia a Genova.