NOTE :
1)
Col termine
dialettale “bambìn” viene definito il simulacro dell’infante
che, al termine della messa notturna natalizia, viene posto in
ostensione dentro una culla elaborata quale luminosa raggiera, dopo
aver ricevuto il bacio del pubblico.
2) La
quasi esclusiva vocazione agricola, nei villaggi intemelìi
d’anteguerra, metteva a punto la quasi totale disponibilità di tempo
degli uomini del posto, che organizzandosi in appropriati turni,
assistevano la fiamma giorno e notte, non mancando di intrattenere
gustose distrazioni con il racconto delle immancabili leggende.
3) Quando la sera
dell’accensione, la riserva non fosse stata abbastanza fornita, i
giovani davano sfogo alla loro conforme spensieratezza, andando
nottetempo, a prelevare oggetti legnosi ancora in uso; badando nel
frattempo a raddrizzare i comportamenti poco sociali di individui,
per quello ben conosciuti in paese. Avendo assistito ad alcuni falò
in Camporosso; ricordo il festoso sopraggiungere di quattro giovani
scalmanati che sorreggevano una voluminosa porta, gettata
immediatamente tra le fiamme, quasi immediatamente seguiti dal
giungere affannato di Baci, che reclamava “a porta d’u mei stagiu”.
Rivelandosi Bacì elemento piuttosto asociale, d’intorno al fuoco
nessuno pareva neppure vederlo, tra una trascinante ilarità
generale.
4) Il
ritornello di questa antica canzone è riportato a pag. 31 di CANSUN
VENTEMIGLIUSE, pubblicato dalla Cumpagnia nel 1970.
5)
L’usanza è assai simile a quanto Hallowéen ha riportato tra noi
dall’America; quel “dolcetto o scherzetto” che ormai si ripresenta
puntuale ad ogni fine ottobre. Negli antichi rituali capodanno era
consueto che le anime dei morti giungessero tra i vivi per portare a
termine quanto avevano lasciato incompiuto, andandosene. Allora si
dava spazio ai bimbi, i quali con l’arma della loro ingenuità,
sarebbero stati gli esseri più adatti ad informare i viventi sulla
“emergenza” di un simile momento spazio-temporale. Per questo
Hallowen e la Stròpa si somigliano. I bimbi informavano i viventi
sul sopraggiungere dell’anomalia, ma in compenso pretendevano un
compenso, ossia la questua che retribuiva il loro “lavoro”. Nei
primi anni dell’Ottocento, con l’avvento dell’Impero Napoleonico e
lo spostamento dei cimiteri fuori dell’abitato, la ritualità della
“ströpa” perse vigore e soprattutto un’indicazione temporale
precisa.
6) Notizie sulla “clarea” si trovano nel Glossario Medievale di
Girolamo Rossi.
7) Come
osserva Margarethe Riemschneider, il gioco d’azzardo era un atto
rituale in stretta connessione col dio, e soltanto a poco a poco,
dopo modifiche e aggiunte, venne introdotto nel banchetto privato e
considerato un divertimento. La stessa aggiunge: “Ci è noto come il
gioco d’azzardo, tanto nel culto quanto nel mito; un tempo però era
una prerogativa degli dèi o del re, loro rappresentante in terra.
8) Da Plutarco
apprendiamo come sotto il regno di Anco il custode del tempio di
Ercole sfidò il dio a dadi, facendo da solo la parte di ambedue, ma
ponendo come condizione che il vinto pagasse una cena ad una
meretrice. Vinse Ercole, e allora il custode chiuse nel tempio Acca
Larentia, allora celebre cortigiana, insieme con una cena. Il dio
venne davvero, e il mattino dopo le ordinò per riconoscenza di
recarsi al mercato e di abbracciare il primo che le fosse venuto
incontro. Questi fu un certo Tarrutius, uomo già avanti negli anni,
ma scapolo e dal patrimonio considerevole. Egli le si affezionò così
tanto da nominarla erede di tutti i suoi beni che poi Acca Larentia
lasciò morendo al popolo romano.
9) Quei giorni erano chiamati in latino “alcyonei dies”, quando il
mitico uccello marino poteva costruire il proprio nido tra gli
scogli molto vicini alle onde, che le divinità rendevano in bonaccia
per l’occasione, greci e romani chiudevano persino i tribunali. L’alcione,
il mitico uccello che proponeva tale antichissima usanza, nel nostro
dialetto è conosciuto come “margun”, quello smergo maggiore che
nidificava anche sulla Pria Margunaira. Ora, quella pietra, unico
grande scoglio presente in acqua sul litorale ventimigliese, non
avrebbe assunto un nome così legato a quel mito, se la relativa
tradizione non fosse stata assai vivace tra la gente intemelia.
a partire da INTEMELION n. 7/8 - 2001/2 -
Archivio della memoria p. 163
Luigino Maccario - 1990
IL
SOLSTIZIO INVERNALE NELL’EUROPA ANTICA
Le manifestazioni che sempre meno fuggevolmente si accompagnano
all’attuale religiosità natalizia, anche nei villaggi delle Vallate
Intemelie, sono retaggio di antichissime ritualità praticate già dalle
popolazioni preromane del nostro continente; che non sono mai state del
tutto domate dalle indicazioni ecclesiali, intese a
rassettare
quelle che oggi ci sarebbero suggerite come le “radici d’Europa”.
Con l’istituzione del Natale, fissato al 25 dicembre, attorno all’anno
340, Papa Giulio I ha tentato di rendere cristiana la diffusa
celebrazione della “Rinascita del Sole”, col celebrare la natività del
Cristo, in qualità di “Sole di giustizia”. In quel tempo, tutto quanto
l’attuale continente europeo era un fiorire di riti tesi a esorcizzare
il fatale sopraggiungere della notte più lunga dell’anno, col richiamo
mistico verso il nascente Sole vittorioso sulle tenebre.
Sul continente, collegati tra loro e a volte sovrapposti, i due temi più
diffusi erano: la morte del Vecchio Sole, con la nascita del Sole
Bambino; o semmai, la sconfitta dell’Agrifoglio, simbolo dell’Anno
Calante, ad opera della Quercia, allegoria dell’Anno Crescente. Un terzo
incentivo era dettato dalla necessità di preservare la futura
germinazione del Grano, quale entità trascendente.
Intanto che il Sole mostrava percettibilmente di ridurre il suo calore e
la sua luce; segno di indubbio declino, si rendeva necessario cacciare
l’oscurità, prima che provocasse la totale scomparsa dell’Astro. Quelle
genti, ritenendo che ogni loro più piccola azione potesse influenzare le
grandi sequenze del cosmo; celebravano riti per assicurarsi la
rigenerazione solare, con l’accensione di grandi falò, che attraverso la
“magia simpatica” avrebbero assecondato la rinascita e provocato la
ripresa del cammino solare.
LE
RITUALITÀ INTEMELIE
In questo nostro tempo, molti villaggi delle Valli Intemelie hanno
ripreso la tradizione di accendere u Fögu d’u Bambìn,
nella notte del Solstizio o, quanto meno la sera della vigilia di Natale.1
Anteriormente al Secondo Conflitto Mondiale, non vi era luogo abitato
che non provvedesse a far ardere questi fuochi rituali; usanza che è
stata contrastata da indistinte autoritarie indicazioni, tese a
scongiurare ogni rischio d’incendio, verso le case a ridosso; quelle
stesse costruzioni che avevano sopportato secoli di scoppiettanti falò.
Nell’immediato dopoguerra, l’usanza è rimasta in vita in molti centri
che non avevano patito un qualche esodo, ma il cambiamento di vocazione
nell’economia valliva la ha fatta visibilmente retrocedere.
Oggi, i paesi che dispongano di una larga pubblica piazza, hanno ripreso
ad accendere il fuoco e, molti tra questi, lo alimentano almeno fino
all’Epifania, come era nell’usanza generale. Consuetudine che in
passato, vedeva alcuni luoghi attrezzarsi, così da protrarre l’ardere
del falò fino al 2 febbraio, giorno della Candelora.2
La preparazione del falò, fino all’accensione, era esclusiva prerogativa
maschile. Fin dall’inizio di novembre, i giovani del paese si davano
cura nell’accatastare, in un opportuno cantone della piazza, tutti gli
scarti lignei del lavoro agricolo, adocchiati durante il loro girovagare
nel contado.3
Gli anziani entravano in campo nella giornata della vigilia, provvedendo
ad allestire un opportuno grande falò, che incanalasse la sua lunga
fiamma al centro della struttura. All’imbrunire si avvicinavano le donne
e le ragazze del paese, che sedevano attorno alla pira, ad opportuna
distanza, nell’oscurità, attendendo gli uomini che giungevano con la
fiamma sacrale della candela con la quale sarebbe stato acceso il falò.
Durante la giornata le donne, in casa, avevano spalancata la madia, per
soddisfare il rituale della preparazione del pane, conforme al
sopraggiungere, nel giorno successivo, a quella che s’intitolava a
giurnà d’u pan; il sacrosanto giorno del pane, nel periodo
solstiziale che intendeva preservare la futura germinazione del Grano.
Dopo aver confezionato grossi pani, sufficienti a coprire il consumo nei
pranzi festivi, in ampi frammenti di impasto aggiungevano: pinoli, pezzi
di mandorle e buccia di agrumi candita mista ad uvetta, per confezionare
il pandùçe, quel dolce rimasto vivo soltanto nella
tradizione genovese: quello con il rametto d’alloro, l’auribàga,
in mostra nel bel mezzo delle tre incisioni benauguranti, fatte sul
culmine dell’impasto, che nella cottura, dessero forma ad un triangolo
privo di angoli, dai numerosi significati esoterici.
I
RITUALI VENTIMIGLIESI
L’accensione del falò si perpetuava anche in piazza della Cattedrale, in
Ventimiglia, ma la dispersione dell’usanza era già confermata nei primi
anni del Novecento, a causa dell’esodo di numerose famiglie verso le
moderne abitazioni d’u Cuventu.
Quando la città era ancora racchiusa nelle mura Cinquecentesche, per
tutto l’Ottocento si è mantenuta viva anche l'usanza che riguardava i
bimbi, o meglio gli adolescenti. Questi all’imbrunire del giorno di
vigilia, si riunivano in numerose masnade, dette e ströpe,
per scorrazzare tra vicoli e chintàgne, di casa in casa,
al canto di una filastrocca natalizia, che Emilio Azaretti ha mantenuto
in vita, inserendola in una sua canzonetta degli Anni Venti.4
Si tratta di una cantilena di questua, proposta dai bimbi con una certa
invadenza, che invitava le donne di ogni casa a fornire un dono, una
piccolissima strenna, da ricercarsi tra le materie prime nella
fabbricazione del pandolce, che in quel momento stava lievitando
ìntu tòuru, la madia nostrana.5
Se non si fosse velocemente soddisfatta l’ingordigia della masnada, non
si sarebbe ottenuto il risultato di farla proseguire per altre case,
togliendosi d’attorno i piccoli invadenti.
______________________________________
Nella tradizione medievale ligure, esisteva una bevanda, col nome di
clàrea, termine che rispondeva al significato di gradevole
pozione che gli speziali erano obbligati a preparare nel Natale.6
Dunque il Natale veniva popolarmente festeggiato bevendo un intruglio
che la legislazione della Serenissima Repubblica poneva in commercio,
obbligando gli speziali a produrla.
Molti popoli dell’Europa medievale si rifacevano ai riti celebrativi del
Solstizio d’inverno, con corpose bevute di una pozione speziata e
zuccherata, tanto che il lemma giule, che troviamo nelle
voci derivate dall’arabo giuleb porta ai termini:
giulebbe, col significato di pozione fatta
con acqua e zucchero e cotta a giusta consistenza; ma anche:
giulebbare, che riflette cuocere nello zucchero,
ma anche conciare per le feste.
Tra i Celti delle isole, una ricorrenza situata a cavallo dello stesso
Solstizio, che veniva chiamata “Yule”, prevedeva riti di
iniziazione assai simili ai Saturnali romani, riti che possono essere
stati inglobati nel nostro Natale medievale.
Purtroppo non ci è dato di conoscere la totale composizione della
bevanda che ha caratterizzato i nostri Natali medievali, anche se
sappiamo che tra gli ingredienti era il gingìberu, una
spezia aromatica per bevande dal nome anch’esso di derivazione araba.
IL
GIOCO D’AZZARDO
Negli Statuti medievali di molti comuni del Ponente ligure, il gioco
d’azzardo, specialmente se condotto coi dadi, era severamente proibito
ed avversato con pesanti sanzioni pecuniarie, fino ad arrivare al
carcere per coloro che fossero recidivi. Soltanto dalla festività di San
Tommaso, il 21 dicembre, era consentito il gioco d’azzardo, licenza che
durava, in qualche caso, fino al Capodanno ed in altri fino
all’Epifania.
Erano questi i retaggi dell’antico mito di Saturno e della
corrispondente Età dell’Oro, in auge ancor prima dell’avvento di Roma.
Giacché, ancora in periodo imperiale, durante i Saturnali, la statua
della divinità presente nei templi veniva fasciata ed al suo posto
governava quei giorni il “rex Saturnaliorum”, un sacerdote che veniva
infine simbolicamente immolato per dare fine al ciclo cosmico, a termine
del quale la divinità creativa ritornerà sulla terra a ripristinare
quell’Età. In questa luce si situa l’usanza romana di permettere il
gioco d’azzardo soltanto durante i Saturnali.7
I Romani avevano identificato Saturno con la loro Fortuna, espressione
di una volontà divina e non del capriccio del caso, mettendolo in
stretta connessione col gioco d’azzardo, sicché, al “gioco era connessa
anche la festa dei “Larentalia” che si celebrava il 23 dicembre,
ultimo giorno dei Saturnali, legato alla leggenda di Acca Larentia.
8
Sarebbero state queste le radici delle tombole natalizie, sbiadito
ricordo dei gioco rituale legato ai Saturnali. Attestato dagli Statuti
di Apricale del 1430, “…… a vigilia nativitatis Domini ad
epiphaniam possit ludere ad avelanas”, nei giorni che correvano
dal Natale all’Epifania, era usanza giocare con le nocciole, attorno al
fuoco.
La tradizione per la quale gli antichi popoli mediterranei sospendevano
ogni lite durante i quattordici giorni a cavallo del solstizio
invernale, potrebbe aver radici profonde persino nel nostro costume.9
USANZE SOLSTIZIALI