A giurnà d’u pan
Nel
pomeriggio della vigilia di Natale, quando ancora non si aveva
l’impegno della messa notturna, la tradizione conduceva le donne di
casa ad aprire la madia, onde preparare il pane, perché il giorno
successivo si diceva fosse a giurnà d’u pan, il sacrosanto
giorno del pane.
Dopo aver
confezionato i grossi pani, sufficienti ai pranzi festivi che
sarebbero seguiti; lasciate volutamente da parte abbondanti riserve
di pasta, vi aggiungevano pinoli, pezzi di mandorle e buccia di
agrumi candita, misti con uvetta e semi di finocchio, per
confezionare u pandùçe, quello che oggi viene riconosciuto
soltanto alla tradizione genovese.
Si tratta
del pane con il rametto d’alloro, l’auribàga, con in mostra
nel bel mezzo le tre incisioni benaugurali, marcate sul culmine
dell’impasto, precedentemente alla cottura, per dar forma ad un
triangolo privo di angoli, di chiara ispirazione magico-simbolica.6
Il pandolce
del Ponente non è massiccio ed elaborato come quello genovese; in
effetti si tratta di semplice pasta di pane alla quale venivano
aggiunti: secümi, sciacümi, zezìbu e fenugliéti, oltre agli
agrümi glassati, o alla più popolare zucca candita, non
tralasciando un’abbondante innaffiata d’olio d’oliva, per
ammorbidirlo.
Fino agli
Anni Trenta, a Camporosso ed in Val Verbone, invece del pandolce con
i medesimi ingredienti e l’aggiunta di miele, si confezionavano i
scunföghi, che appena fuori del forno si gustavano attorno al
falò in piazza, distribuiti per convenzione.7
Era il
responsabile delle feste, l’Abau di turno, che badava a confezionare
la maggior parte dei dolcetti, tenendo conto - nei secoli passati -
di farne omaggio all’autorità genovese in loco.
E stròpe d’i figliöi
La vigilia
di Natale, dopo l’imbrunire, era usanza da parte dei bimbi, di
riunirsi in numerose masnade, dette e stròpe per scorrazzare
nei vicoli, tra carrùgi e chintàgne, di casa in casa,
al canto della filastrocca natalizia, che il dottor Emilio Azaretti
ha mantenuto viva in una canzonetta.8
La
cantilena, esternata attraverso una opportuna caciara, invitava le
donne di casa a fornire un dono, una piccolissima strenna, ritrovata
tra le materie prime nella fabbricazione del pandolce, per
soddisfare l’ingordigia della masnada, onde ottenere il risultato di
farla proseguire, al più presto, per altre case.
Un po’ come
avviene per la notte di Hallowen, quei bimbi, nelle case dei
signori trovavano ad attenderli rigonfie mandrigliàe de bugatéte,
a volte, altri dolcetti più raffinati e forse qualche spicciolo.
Il testo
della tiritera era basato sul concetto della visita che il topolino
di casa, o forse il bimbo medesimo, avrebbe condotto nella madia per
il pane, proprio in quell’occasione:
Pìgliařu, pìgliařu u
ratu ìntu tòuru;
pìgliařu, pìgliařu,
làsciřu andà.
Làsciřu andà ch’u va’ â
méssa,
làsciru andà ch’u va’ a
l’autà.
La clàrea
rituale
Nella
tradizione medievale ligure, esisteva una bevanda, col nome di
clàrea, che rispondeva al significato di «gradevole pozione che
gli speziali erano obbligati a preparare nel Natale e che non
potevasi smerciare più di due soldi la pinta».9
Dunque il
Natale veniva popolarmente festeggiato bevendo un intruglio che la
legislazione della Serenissima Repubblica poneva in commercio,
obbligando gli speziali a produrla.
Molti popoli
dell’Europa medievale si rifacevano ai riti celebrativi del
Solstizio d’inverno, con corpose bevute di una pozione speziata e
zuccherata, tanto che il lemma giule, che troviamo nelle voci
derivate dall’arabo giuleb porta ai termini: giulebbe,
col significato di: pozione fatta con acqua e zucchero e cotta a
giusta consistenza; ma anche: giulebbare, che riflette
cuocere nello zucchero ed altresì conciare per le feste.
Tra i Celti
delle isole, una ricorrenza situata a cavallo dello stesso
Solstizio, che veniva chiamata Yule, prevedeva riti di
iniziazione assai simili ai Saturnali romani.10
Purtroppo
non ci è dato di conoscere la totale composizione della bevanda che
ha caratterizzato i nostri Natali medievali, anche se sappiamo che
tra gli ingredienti era il gingìberu, una spezia aromatica
per bevande dal nome anch’esso di derivazione araba.
NOTE:
1. Rimando a E. AZARETTI, L’evoluzione dei dialetti liguri,
esaminata, attraverso la grammatica storica del ventimigliese,
Sanremo 1977, § 81/151/318.
2. Nella settimana precedente il Natale, mio padre
provvedeva a raccogliere abbondanti frasche di alloro con le quali
addobbava, per le feste, la nostra macelleria, appoggiandole ai
sostegni che reggevano i ganci, tutt’attorno alle pareti. Con mia
somma meraviglia, la baronessa Maria Galleani mi ha raccontato come,
lo stesso uso di sostegno per le frasche d’alloro, in periodo
natalizio, era sostenuto dalle ferramenta atte a sorreggere gli
arazzi, nei salotti delle case signorili liguri.
3. Consulta Ligure/C.d.V. - Commemorazione di Sir Thomas
Hanbury nel 150° anniversario della nascita 1832/1982. Relazione
di Renzo Villa - Alzani Pinerolo.
4. L’antichissima tradizione delle sigillaria
d’epoca romana, tra le famiglie, prevedeva lo scambio delle
statuette in argilla con l’intenzione di sostituire incruentamente
le vittime sacrificali. In Albissola, operavano note figuline,
artigiane della ceramica che creavano le statuette per il presepe,
sulla scia delle sigillaria, esportandole in tutta la Riviera
di Ponente, dov’erano molto apprezzate.
5. Assieme alla Mariéta, gli ambulanti portavano,
infilati nelle lunghe canne di sostegno, attraverso il buco centrale
connesso alla figura, altre realizzazioni, dette: u Fantin e
u Galétu. L’informatrice di questa tradizione è Olga Anfosso,
classe 1940.
6. Aidano Schmuckher, nei suoi scritti inerenti la cucina
ligure, è stato un caparbio sostenitore della teoria occulta attorno
ai segni ed all’alloro sul pandolce. Il significato più ricorrente
tramandato dalla popolarità diffusa del dolce è legato, ovviamente,
alla Trinità; ma rovistando in epoche precristiane sembra invece
collegato a riti di fertilità, sopravvissuti nella devozione verso
la Maddalena, in veste della Grande Madre. Dalla Catalogna alla
Lunigiana, la Maddalena conserva un culto assai popolare e poco
ortodosso, che si svela nella Madalena d’i Boschi, in Taggia
e si conferma in Val Nervia, dove il mese di luglio si chiama
semplicemente a, Madařena. In Provenza, sopravvive un’usanza
molto significativa. All’interno della grotta della montagna della
Sainte Baume, dove Maria Maddalena sarebbe vissuta fino alla morte,
si usano appendere le madeleneto, anelli o fiale che
contengono amuleti oppure gli iòu, reliquiari in forma di
uova o di mammella di donna simboli di fertilità. Di nascosto, le
ragazze da marito costruivano, i casteleti, costituiti da tre
ciottoli piatti disposti a triangolo, al centro dei quali veniva
infissa una pietra oblunga. Il pandolce ha forma di mammella umana
ed i segni sul culmine sono assai simili ai tre sassi, mentre il
ramoscello sostituisce degnamente la pietra oblunga (A. CATTABIANI,
Lunario, Milano 1994, p. 246).
7. Sulla pratica attorno alla confezione ed all’uso degli
scunfÖghi mi ha informato, negli anni Cinquanta, Lisciandrina
Sasso, camporossina e parente, classe 1887. In Val Verbone è ancora
viva la memoria attorno agli scunföghi.
8. Cansun ventemigliuse, (ed. Cumpagnia d’i
Vememigliusi), Ventimiglia 1971.
9. G. ROSSI, Glossario medioevale ligure, Torino
1909, Appendice p. 24.
10.
R. TARAGLIO, Il vischio e la Quercia, spiritualità celtica
nell’Europa druidica, Grignasco 1977.
Anche se la
maggior parte della popolazione ne ha perso la memoria; nell’estremo
Ponente Ligure, il periodo temporale legato al Solstizio d’inverno
conserva ancora segni evidenti di antichissime consuetudini popolari.
Quella tuttora assai evidente, consiste nell’accensione di duraturi
fuochi solstiziali m quasi tutti i villaggi delle vallate intemelie.
Un verdeggiante
addobbo domestico è stato in uso costante, molto prima che l’albero di
Natale della tradizione nordica lo sostituisse.
Nei primi giorni
dicembrini, l’esecuzione di biscotti a figura antropomorfa ed a durata
illimitata, permetteva un’affascinante decorazione di quell’addobbo.
L’intera
giornata del venticinque dicembre è ricordata come a giurnà d’u pan,
a motivo di un’abbondante panificazione che si concludeva con la
confezione del pandùçe.
Una questua,
molto simile a quella praticata dai bimbi americani per Hallowen, veniva
condotta dai ragazzini ventimigliesi nella notte di vigilia del Natale.
Una gradevole
pozione da bere durante il solstizio era realizzata dai farmacisti
medievali con ingredienti d’estrazione araba.
U fögu d’u bambin
La legna, per
mantenere acceso il fuoco rituale del solstizio, veniva portata in
piazza da tutti i capifamiglia, in abbondanza.
Il nucleo
familiare che avesse dovuto dimenticare il rispetto dell’usanza, avrebbe
potuto riconoscere la porta della propria stalla o della cantina tra le
fiamme della pira.
All’imbrunire
del ventiquattro, dopo essersi assicurati una reale abbondanza di viveri
e bevande, i tutori del falò appiccavano il fuoco alla catasta,
precedentemente predisposta, curando di mantenerlo costantemente vivace.
Questi fuochi
rituali sono conosciuti come u Fògu d’u Bambìn e restano accesi,
secondo la tradizione, almeno fino all’Epifania, mentre un tempo
conservavano attive le loro braci ancora nel giorno della Candelora, il
due febbraio; legando tra loro due importanti momenti calendariali.
La giornata del
Natale, nel nostro parlare, è chiamata Deinà.1
Verde addobbo
natalizio
A metà dicembre,
ancora a fine Ottocento, nelle magioni benestanti, si provvedeva ad
inghirlandare i saloni da ricevimento con frasche d’alloro, secondo
l’uso genovese.
A questi, veri e
propri alberelli di auribàga, d’alloro appunto, erano appesi
arance, limoni e mandarini, oppure nastri colorati, ad imitazione dei
frutti; quasi fossero stati precursori del moderno albero d’abete, di
tradizione nordico-europea.2
Il sempreverde
alloro trova ancor oggi impiego nella ripresa del rituale Cunfögu
pubblico genovese e savonese. Altra pianta, considerata simbolica del
periodo autunnale, era il mirto, a mùrtura.
Veniva esposta
durante i rituali per la vendemmia, in settembre, e conservata in bella
vista fino al solstizio d’inverno, come ci ricorda lo stesso Thomas
Hanbury, attraverso la memoria di Renzo Villa.3
E bugatéte
Nel corso
dell’Avvento, le cuoche che operavano nelle cucine dei cosiddetti
scignùri, preparavano una sorta di biscotti, impastati con il grasso
bovino, per renderli morbidi più a lungo; così da poter resistere appesi
ai serti di alloro, esposti nei salotti, fino al termine delle
festività.
La
caratteristica di questi biscotti, detti Bugatéte, era la forma
antropomorfa, che li rendeva simili a quei pupazzetti che si realizzano
ritagliando strisce di carta, abilmente ripiegata.
Le bugatéte
alimentari avevano sostituito le statuette in terracotta che venivano
scambiate durante i Saturnali d’epoca romana o nelle strenne popolari
ottocentesche4, come vedremo più avanti parlando della questua infantile
(E stròpe d’i figliöi)
In Val Nervia,
proprio per Natale, le bimbe ricevevano come strenna a Mariéta ìnscia
càna. Si trattava d’un grosso biscotto antropomorfo a forma di
donnina, confezionato con farina ed olio, da venditori ambulanti, che
frequentavano ogni fiera o mercato stagionale.
A Camporosso,
facendo dono di Mariéta ad una bimba, le si diceva: Eccu
Mariéta, tàighe a téta, ciàntighe in ciòn e fàřà girà. Inviti assai
cruenti se non si fosse trattato di un gioco.5
Le tradizioni inerenti alle festività di fine Anno, con un occhio al Solstizio d'Inverno