PAROLE NUSTRAE
«Come si dice arcobaleno in dialetto ?», questa è la domanda
che, da anni, molti cittadini si pongono con curiosità e
interesse. Già, come si dice ? Beh, intanto abbiamo qui in
zona due testimonianze autorevoli: quella di Emilio Azaretti,
secondo il quale si dice arcuincé, e quella di don
Guido Pastor, esperto dei dialetti dell’alta Valle Nervia,
nei quali la parola esiste come arcu d’u sù.
Ma, detto questo, bisogna subito aggiungere che alcune
persone anziane interpellate in proposito (e, per anziane,
si intende sui novant’anni e oltre) non hanno saputo dare
una risposta alla fatidica domanda.
Per cui (fermo restando che l’arcobaleno un nome in dialetto
doveva certamente averlo come tutte le altre cose) si può
avanzare l’ipotesi che, essendo esso un fenomeno assai raro,
il termine corrispondente venisse usato altrettanto
raramente e quindi, nella crisi attuale del dialetto, che
però ha origini lontane, l’arcobaleno sia caduto nell’oblio
prima di altre parole.
E, a prova di ciò, sta il fatto che, nel ricchissimo
Dizionario Sanremasco-Italiano di Pio Carli, il noto cultore
del dialetto matuziano giunto felicemente alla sua 95a
primavera, il termine dialettale dell’arcobaleno non c’è,
come annotava Gino Guglielmi in un articolo intitolato «Come
si dice arcobaleno nel nostro “giargun”» apparso
su L’Eco della Riviera dell’11 marzo 1984. Nello
stesso articolo, Guglielmi assicurava che l’arcobaleno, in
sanremasco, viene detto ercun e che tale voce è
ancora viva in alcune località dell’entroterra.
A questo punto, è forse interessante fare un giro
d’orizzonte (trattandosi di arcobaleni la cosa è quasi
d’obbligo ...) per vedere come questo stupendo spettacolo
della natura viene chiamato nelle varie lingue romanze e nei
dialetti.
Intanto, dobbiamo premettere che, in latino, esistevano due
forme: arcus e cœlestis arcus diventate poi
nell’italiano antico arco (Dante) e arco celeste
(Petrarca), come si rileva nel Dizionario Etimologico della
lingua italiana Zanichelli di Cortelazzo-Zoli. In francese
si ha, invece, arc-en-cel, già attestato nel XIII
secolo (Dictionnaire Etymologique du francais, Robert) e, in
spagnolo, arco iris e arco del cielo che diventa
arc de San Martin in catalano e che ritroviamo nel
nizzardo arc de San Martin (Compain, Glossaire nicois).
Quanto al provenzale, Mistral riporta numerose varietà nel
suo Tresor dou Felibrige fra le quali, oltre al già
ricordato arc-de-sant-Martin, arc-de-sedo
“arco di seta”, pont-de-sant-Bernat, arcano,
ridiano.
Per quanto riguarda il piemontese, sia il Gran Dizionario
del Sant’Albino che il Brero riportano la voce arcansiel.
La voce genovese che si trova nel Casaccia è arcobalen,
ma nel Vocabolario delle parlate liguri (Vol. 1°, pag. 25)
sono indicate alcune varietà dei dialetti del Ponente tutte
affini all’arcuincé citato all’inizio. Per la Liguria
orientale, il Plomteux ha raccolto arku e erku
presenti nello spezzino nella forma arco.
Ed ora, restringendo il campo d’indagine e venendo alle
parlate dei nostri dintorni, abbiamo il mentonasco
arch-balen (Andrews), il monegasco arcu’ncelu
(Frolla), arku - arka syel (Arveiller) e il
brigasco pedéràrch (r ni d’aigùra n° 4,
luglio-dicembre 1985).
Il nostro giro d’orizzonte si ferma qui, ma la ricerca è
tutt’altro che completa e le pagine della “Voce” restano
naturalmente aperte a chi avesse da segnalare eventuali
altre forme ancora vitali o usate in passato nella Zona
Intemelia e dintorni.
* * *
Ed ora, prima di concludere, una breve nota etnografica
sull’arcobaleno presso i nostri antenati. Il primo dei
«Racconti» di George MacDonaId (pubblicati a cura di Giorgio
Spina dall’Editore Managò nel 1987) e intitolato «La
chiave d’oro» inizia così: «C’era un bambino che
tutte le sere, al crepuscolo, andava a sedersi accanto alla
vecchia zia per ascoltare le favole. Ogni tanto la donna gli
diceva che se avesse potuto raggiungere il luogo dove
l’arcobaleno si alza da terra, vi avrebbe trovato la chiave
d’oro».
Anche dalle nostre parti si diceva la stessa cosa ai
bambini, quando l’arcobaleno appariva nel cielo: «Corri,
là dove nasce, e vi troverai una pentola piena di monete
d’oro».
Non soltanto, ma i nostri contadini erano soliti osservare
attentamente i colori dell’arcobaleno per trame delle
previsioni sull’andamento della campagna.
Se, ad esempio, prevaleva il rosso, l’annata sarebbe stata
buona per il vino mentre una prevalenza del giallo denotava
un buon raccolto di grano e, del verde, un’annata favorevole
per i foraggi.
LA VOCE INTEMELIA
anno XLIII n. 9 - settembre 1988
Nel medioevo la «Chiappa» era una lastra granitica,
attrezzata a berlina, sulla quale si culattava il
debitore insolvibile.
Da quell'usanza ci viene tramandata la bassa frase:
«dare il deretano in chiappa», per intendere «far
bancarotta». Lo storico Girolamo Rossi, nel suo
Glossario, riporta un documento tratto dagli Statuti
Albingane, del 1519: Sit in electìone ulfrum sine
aliqua sollemnitate cedat bonis, vel ter det de podice
super clapam sancti Michaelis, ante ostium magnum in
platea communis, coram populo, sono campane et cornu,
congregato.
La «Clapa», detta anche «Chiapa» - che nel nostro
dialetto è ricordata come Ciapa - dava
significato alla lastra d'ardesia o di pietra, ma
indicava pure il luogo dove si vendevano i pesci.
Negli statuti di Albenga, del 1288, venivano prospettate
punizioni per i pescatori che non avessero portato a
vendere i pesci «ad clapam».
In quelli di Nizza, del 1784, si recita: «La vendita del
pesce si farà avanti e sotto i portici del pubblico
terrazzo, nel luogo che dicesi la chiappa».
A Ventimiglia la «ciapa» era - con tutta probabilità -
posta in un luogo ora coperto dalla scalinata
monumentale del Monastero delle Lateranensi, che nel
XVII secolo era ancora il luogo dove giacevano le rovine
del castello contile.
Nello stesso secolo la forzosa vendita del pesce sulla
Chiappa ventimigliese ha dato vita alla protesta, finita
con la separazione degli Otto Luoghi, da Ventimiglia
capoluogo.
LA VOCE INTEMELIA
anno XLIX n. 1 - gennaio 1994
Nel dialetto intemelio il termine BUTU assume il
significato di «balzo», detto per oggetto elastico,
adatto a balzare.
Nella nomenclatura del tradizionale gioco de “u balun” -
la palla a pugno o pallone elastico dei nostri giorni -
“u butu” è il balzo che la palla compie: prima o dopo
essere stata colpita dai difensori.
“Au primu o au segundu butu”, nel regolamento di quel
gioco, sono sostanziali differenze per determinare “a
cacia” ed il punteggio successivo.
Presumibilmente, BUTU deriva dal franco-provenzale BUT
che nel francese di oggi assume i significati di: scopo,
meta, fine, intento; oppure di: mira, segno, bersaglio;
come nel gioco del calcio di: punto, rete, porta; mentre
nella palla ovale significa: meta trasformata.
Sono significati legati al gioco della palla, ma ben
lontani dal nastrano “balzo”.
In italiano, Cortelazzo e Zoli danno al termine BALZO il
significato di: salto di un corpo elastico dopo aver
picchiato in terra; come quello di: movimento
improvviso; mentre fanno derivare il termine dal latino
parlato “balteare”, un denominale di “baltea”: BALZA,
nel senso di “dirupo”.
Bisogna riferirsi al sostantivo femminile francese:
BUTTE, il cui sostantivo maschile è appunto BUT, per
trovare anche in quella lingua il significato di
“balza”. Infatti, nel francese BUTTE è sinonimo di MOTTE
o MUTTE; per cui il Ghiotti da la definizione di:
monticello, collinetta, tumolo, terrapieno del
bersaglio; dal quale deriva META: bersaglio verso il
quale gli arceri indirizzano le loro frecce, come
nell’italiano attuale: il punto nel gioco della palla
ovale. Vi deriva anche MUTA: collinetta, luogo di
raduno, antica assemblea legale.
Se nell’antichità i tumuli o le collinette erano sedi di
raduni legali si avrebbe: Tumulo - Motta - Mèta - Butte
- But. Riccardo Petitti arriva a
supporre che un tempo lontano «le but était la butte»,
cioè lo scopo, il bersaglio della propria azione era la
collinetta o il tumulo.
Nel nostro dialetto del “balun “, il “butu”, in quanto
balzo, è sempre stato lo scopo del giocatore di pallone
elastico.
LA VOCE INTEMELIA
anno XLVII n. 9 - settembre 1992
Etimologia
CÙITA: DEVERBALE DI COITARE
Luigino MACCARIO
In ventemigliusu la “premura”, intesa come “fretta”, è
cùita, che deriva da COITARE, un deverbale di
COEO - COEIS - COÌI (COIVI) – COITUM – COIRE : “unirsi”,
“radunarsi”, “accoppiarsi”. Essendo stato verbo
frequentativo di ANDARE, assumerebbe il significato di
ANDARE a COIRE, determinando per la glossa cuita
il concetto di “fretta di andare ad unirsi”.
Sulla pur accurata “EVOLUZIONE DEI DIALETTI LIGURI,
attraverso la grammatica storica del ventimigliese”, del
dottor Emilio Azaretti, pubblicata da Casabianca –
Sanremo, nel 1982; un banale refuso dava “cùita”
derivato da COCTARE, che pare inesistente fra i
frequentativi e quindi, persino fra i deverbali;
impedendo una qualsiasi evoluzione nella ricerca.
Sorge il sospetto che “intu nostru parlà”, i
lemmi affini alla fretta, in buona parte, sono stati
ispirati al coito; giacché, l’amico Scroi,
l’autore bordigotto Franco Zoccoli, ci assicura del
fatto che il termine descciulàsse, palesato come
“sollecitare, disimpegnare”, derivi dalla richiesta
rivolta ad una coppia di cani, da troppo tempo
congiunta, intenta a “ciulà”, perché
interrompesse in fretta quella poco edificante
situazione.
LA VOCE INTEMELIA
anno LXVI n. 5 - maggio 2011
A partire dall’autunno, le mareggiate di “rebòssu”, quelle tempeste di mare, caratterizzate da ondate lunghe e potenti; oltre a spostare grandi quantità di ghiaia, lungo le spiagge, vi depositano anche copiosi residui d’alga, che tracciano il segno per quanto è stata potente la mareggiata, nel corso della notte.
Sparsi tra gli arabeschi scuri disegnati dalle “àreghe” in macerazione, spuntano evidenti piccoli pezzetti di legno, qualche ramo d’albero, persino pesanti tronchi, attorniati dai numerosi rizomi di canna palustre; tutto materiale rilasciato dai corsi d’acqua in piena.
In generale, l’insieme di legname e rizomi viene individuato col nome di “astràchi”, mentre in particolare, il rizoma di canna è detto “caniö”. L’astràcu è dunque un qualunque materiale trascinato dalle acque sui nostri lidi; per conseguenza: in astràcu è venuto a definire l’individuo, di dubbia provenienza, spinto tra noi dalle vicissitudini.
In sostegno al decoro delle spiagge, nei giorni successivi al maltempo, non manca mai chi si appresta a recuperare quel combustibile gratuito, che opportunamente seccato offrirà una alternativa ai costosi bruciabili moderni; ma, la gratuità della raccolta per gli “astràchi” non è sempre stata in vigore.
Nel settembre del
1519, un’improvvisa alluvione del Fiume Roia, che
distrusse parte del ponte, aveva condotto una tale
quantità di legname sulle spiagge da poterne caricare
due grosse navi. Il Priore del Consiglio cittadino pensò
di vendere il legname all’incanto, mentre il Capitanio
Serravalle sosteneva la spettanza del materiale al Banco
di San Giorgio. Venne mandato a Genova, Francesco
Balauco a perorare la causa della città. La vendita
venne condotta tanto in fretta che di 200 scudi che si
sarebbero potuti ricavare ci si accontentò di una
sessantina.
LA VOCE INTEMELIA
anno LXVI n. 1 - gennaio 2011