LA CONTEA DI VENTIMIGLIA
Il Conte, nell’ambito
dei suoi poteri, tendeva ad accaparrarsi la caccia della
selvaggina, in certi territori riservati. Il fondamento
giuridico di tali pretese era e resta oscuro,
verosimilmente, era solo quello della legge del padrone.
Identiche erano le requisizioni, imposte ai censuari: quali
l’obbligo di albergare e nutrire la muta del signore,
costruire capanne nei boschi, nella stagione in cui si
tenevano le grandi adunate dei cacciatori. I signori
praticavano tali “sport” nelle forme più attraenti: caccia
con i levrieri e col falcone, trasmesse all’Occidente dalle
civiltà equestri delle pianure asiatiche. La caccia
avvicinava quei guerrieri alla natura, ma non mancavano i
tornei e le finte battaglie tra i giovani, che servirono, in
ogni epoca, ad allenare le truppe ed a svagarle. Nelle
Riviere era in uso la “Bataiola”, combattuta almeno tre
volte l’anno, tra due fazioni di giovani, protetti da
corazze ed elmi di vimini ed armati di bastoni e spade
legnose. Questa usanza sopravvisse, nel popolo, in occasione
di certe feste, cristianizzate, piuttosto che cristiane:
come quegli altri “giochi pagani”, più nobili, quali i
tornei. Questi si tenevano a maggio, per il Solstizio
d’estate, nelle Feria d’agosto ed all’Equinozio d’autunno.
Nell’organizzazione feudale, i detentori del potere di
origine pubblica pretendevano di assimilare il territorio,
che costituiva la loro circoscrizione, ad un grande dominio.
Pretendevano di estorcere a tutti i residenti ed a tutti i
passanti, che non fossero cavalieri, ciò che estorcevano ai
non liberi di. loro proprietà. inoltre assumevano
arbitrariamente gli strumenti del potere pubblico, quando
volevano applicarli alla parte disarmata della popolazione.
Le assemblee riunite nelle campagne, per giudicare gli umili
di condizione libera, diventarono dei tribunali domestici;
sovente i Conti delegavano a presiederle uno dei loro
funzionari. In quei tempi il Contado ventimigliese aveva per
confini: a levante il torrente Armea, a mezzogiorno il mare,
a ponente, dal Monte Agel, sopra la Turbia, sino alle radici
del colle di N.S. delle Finestre ed alle acque della Tinea.
Comprendeva i luoghi di: Lantosca, La Bolena, Gordolone,
Lucerame, Belvedere, Roccabigliera, Venanzone; a
settentrione abbracciava i contadi. di Auriate e Bredulo. In
seguito, i Ventimiglia acquistarono i luoghi di Limone ed
Alvernante, come allo scioglimento della Marca arduinica, il
confine d’oriente giunse fino al torrente Arroscia. Così
costituita, con la pastorizia, il taglio dei boschi, la
cultura dell’ulivo, i porti di Ventimiglia e San Remo, le
comunicazioni con il retroterra piemontese attraverso il
Colle di Tenda, la Contea prosperò per circa tre secoli. In
questo distretto amministrativo i Conti oltre a capitanare
le milizie in guerra, provvedevano al governo, alla
giustizia e prelevavano imposte indirette, dette telonei,
fissate sulle transazioni, diritti di fiere e mercati e
tasse sui trasporti. Delegavano Visconti, come a La Penna; o
Castellani, come a Dolceacqua, Castellaro e Sant’Agnese;
considerate centene. Tenevano corte comitale a Ventimiglia,
in un castello le cui rovine sono state trovate sul bastione
scistoso dell’attuale Cavu. Ogni quaranta giorni dirigevano
il mallus, tribunale pubblico in nome dell’imperatore.
Inoltre poichè lo Stato richiedeva il servizio militare agli
uomini liberi più ricchi, il conte trasmetteva gli ordini di
mobilitazione. Per i luoghi di Gorbio, Sant’Agnese e
Castellaro dovevano ricevere l’investitura dal Vescovo. I
Conti di Ventimiglia si dichiaravano di legge latina, quindi
pare non discendessero da famiglie di origine germanica,
oppure avevano assunto questa nelle precedenti generazioni.
L’Imperatore cedeva ai Conti l’usufrutto di alcuni domini
fiscali della contea, chiamati “onore”; mentre il Conte
tratteneva per sé un terzo delle ammende inflitte dai
tribunali ed un terzo di un certo numero di tasse pagate
dagli amministrati. Il territorio veniva suddiviso tra la
riserva del padrone ed i mansi dei conduttori, che
coltivavano l’insieme trattenendo per sé i prodotti dei
mansi. La base della società agricola consisteva nella
“villa”, che associava ai proprietari i lavoratori. A
partire da quella cellula consolidata che diventerà
villaggio e molto spesso la parrocchia, si svolgerà la vita
comunitaria delle famiglie e dei gruppi, rafforzando la
coesione sociale. Le donne erano costrette al lavoro
collettivo nel gineceo, il laboratorio tessile femminile. Il
conte attingeva a suo piacere ai figli del popolo ed ogni
capanna costituiva un vivaio attraverso cui mantenere le
squadre di servitori a tempo pieno. Poteva prelevarne le
ragazze per maritarle a modo suo, mentre, se il padre voleva
riservarsi questo diritto, doveva comprarla. Pretendeva una
parte della successione, il bestiame alla morte del padre, o
il corredo alla morte della madre.
Divenute, prima o poi, ereditarie, negli stati dell’Impero
carolingio, le contee non erano state tutte assorbite dai
grandi principati. Certune conservarono a lungo un esistenza
indipendente. Il nostro comitato, mirato e conteso da
Provenza e dall’emergente Comune genovese, ha potuto
gestirsi fino al 1222, retto dai Conti fino all’XI
secolo, levandosi poi come Libero Comune marinaro, mentre i
Conti restringevano il loro dominio esclusivamente sul
trafficato valico montano di Tenda, istituendo di fatto la
Contea di Tenda.
Nell’Italia lombarda ed in grado minore in Toscana, pur
seguendo le direttive germaniche, gli agglomerati di contee
in mano di una stessa chiesa erano cosa rara. Dietro al
vescovo-conte sorse ben presto un nuovo potere, quello del
Libero Comune cittadino, appunto. Intanto l’aristocrazia
laica, per sopravvivere, trovava l’espediente della
“avvocatura”, di legislazione carolingia. Ogni “chiesa”,
dotata di immunità fiscali e politiche, doveva possedere il
suo “advocatus”, scelta attentamente sorvegliata
dall’autorità pubblica.
Di fatto il vescovo di ciascuna città, delegato
dall’imperatore, sorvegliava il conte.
LA CONTEA ASSEGNATA ALLA MARCA DI SUSA
Il
territorio delle Alpi Marittime, dal Margureis fino
al mare passava, di fatto, sotto la dominazione
provenzale.
950 Ventimiglia veniva assegnata alla Marca
Arduinica, di Susa.
953 Guidone cita “... in capella
di Sancti Michaelis, quam patres meus construi fecit
in oliveto apud Vintimilium ...”
954 Guidone, conte di Ventimiglia e
marchese delle Alpi Marittime, partiva con Ildefonso
di Aragona, contro i Saraceni. Divideva i feudi tra
i figli Corrado, Ottone e Rolando, oltre a legare
alla rinomata abbazia di Lerina, il priorato della
chiesa di San Michele, fatta costruire da suo padre,
ed il castello di Seborga, l’antica Castrum Sepulcri.
Ordinava la fabbrica della cappella di Sant’Antonio
in San Michele, sepolcro della famiglia contile, e
disponeva la costruzione di un ospedale, presso la
chiesa, per la cura d’una epidemia di fuoco sacro.
958 In Genova, venivano rese
pubbliche “consuetudines adorabatae” che regolavano
l’autonomia cittadina.
959 I monaci di Lerina stabilivano la
residenza di un convento nel castello di Seborga,
donato dal Conte Guidone. Ne rimarranno in possesso
fino al 20 gennaio 1729.
960 L’11 agosto, a Ravenna, Ottone I
assegnava al marchese Aleramo 16 Corti.
Nasceva la Marca di Savona.
-
962 Per l’incoronazione
dell’imperatore Ottone I°, in Roma, fu presente il
vescovo ventimigliese: Gioioso.
Il
vescovo di Genova distribuiva a numerose famiglie
terre, nella zona a Levante della Contea di
Ventimiglia, da concedere a “pastinatio”.
-
I contratti “ad plantandum” ed “ad pastinandum”, in
base ai quali, dopo un certo periodo di tempo,
generalmente di dieci anni di esenzione dal
pagamento dei canoni, i concessionari diventavano
comproprietari della terra insieme al concedente, o
più spesso, acquisivano il diritto ad una parte del
raccolto. La domanda era cosi elevata che, in
Liguria, la pastinatio e la colonizzazione in
genere, assunsero la forma di imprese collettive.
-
Contratto di Pastinato
-
967 Le truppe inviate dall’imperatore Ottone I
per sedare la coalizione tra Saraceni e feudatari
locali nell’estremo Ponente Ligure, passarono il
Colle di Tenda, ma vennero fermate avanti di
raggiungere Ventimiglia.
-
972 In estate, mentre attraversava le
Marittime, tornando in Borgogna, dall’Abazia di
Bobbio, Maiolo, famoso e nobile abate di Cluny,
veniva catturato dai Saraceni del Frassineto.
-
Verrà pagato un riscatto, ma il famoso abate non
verrà liberato. Si innescherà così la reazione della
nobiltà occitana, borgognona, piemontese e ligure
che, invece di accettare i servizi dei Saraceni
com’era capitato fino ad allora, radunerà le sue
forze per scacciare definitivamente i Mori dal
Frassineto.
-
Maiolo abate di Cluny
-
Arduino III° Glabrione, marchese di Torino,
distruggeva i Mori nel covo del Frassineto.
973 Il conte Guglielmo d’Arles scacciava
definitivamente i Mori, dalla Provenza.
-
Era epoca di
violenza. La violenza era nell’economia, nel diritto
e nei costumi. Violenta era la classe dominante e
guerriera, violenta la famiglia, violenti gli
individui per sopravvivere. Nella profondità di
quell’epoca sconvolta i capi erano alla ricerca ed
imponevano la pace. L’aspirazione alla pace,
percepita come un bene che favoriva i commerci,
nella Provenza del X secolo, portava alla nascita di
un movimento pacifista, la “tregua Dei”, che tendeva
alla conurbazione dei gruppi di vicini ed
associazioni consortili. La coesistenza di elementi
feudali e ceti emergenti di differente estrazione,
avrebbe dovuto creare lacerazioni, nei confronti dei
codici culturali difformi, cui entrambi facevano
riferimento. Invece, l’intervento della Chiesa,
sollecitato dai comportamenti. positivi del
Monachesimo, tese alla predicazione ufficiale della
“tregua Dei”, che si diffuse, ben presto, per tutta
l’Italia nord occidentale. Andava formandosi il
movimento delle “Leghe per la Pace”, che coinvolgeva
cives e feudalità, alla ricerca di annullare la
nociva presenza saracena, sui mari, ma specialmente
nei territori della Spagna, della Francia
mediterranee, corre dell’Italia nord occidentale.
Tra gli armati dei Comuni e le forze feudali si
instaurava un rapporto di collaborazione,
ossequiente all’idea predicata dalla Chiesa, onde
condurre “guerre cristiane” al comune, invadente,
nemico islamico.
-
Tregua di
Dio
-
974 Teodolfo, vescovo di Genova,
confermava la concessione, agli uomini di San Römu,
dei territori matuziani, siti nel contado di
Ventimiglia, con la testimonianza del cardinale
Brunengo, già vescovo di Ventimiglia.
-
976 Per riconsacrare l’abazia di
Novalesa, ricostruita dopo le scorrerie saracene,
veniva inviato, quale legato apostolico, il vescovo
di Ventimiglia, di nome: Pentejo.
977 Un documento citava coltivazioni di
olive nel territorio di Ventimiglia.
978 Nella divisione in Marche del Regno
d’Italia, la nostra città era inserita nel “Maris
Littora”, aggregato e diviso tra la Marca di Tuscia,
quelle della Liguria Orientale ed Occidentale e la
piemontese Marca in Italia.
-
Nella Marca
Littora, la Contea di Ventimiglia comprendeva
l’intero bacino idrografico del Fiume Roia, con le
fortezze dei dintorni di La Piena, Saorgio-Malamorte,
Breglio, Tenda, Briga, Baiardo. Queste erano
presidiate dalle milizie della nobiltà locale, come
lo era la costa, nelle fortezze di Eze, Monaco,
Roccabruna, Mentone, Ventimiglia e Montenero.
-
979 Il vescovo di Genova: Teodolfo,
conduceva alcune famiglie d’agricoltori ad occupare
i “loco et fundos Matucianos”, oggi San Remo, ed a
dimorare in “loco et fundo Tabia”, oggi Taggia.
-
L’espansionismo genovese produceva le prime abili
mosse. Sia la nobiltà genovese che quella
ventimigliese prosperavano con i commerci, ma
specialmente con azioni navali “di corsa” o
“corsare” che dir si voglia. La differenza che
porterà alla sopraffazione genovese, stava nella
possibilità di usufruire di un porto naturalmente
più efficace. Un golfo naturale, ottimamente
strutturato dai genovesi, contro un porto canale,
delicato nelle strutture e malamente sfruttato dai
ventimigliesi.
-
990 Il vescovo Pentejo, riconsacrata
l'Abazia di Novalesa, riceveva in dono la reliquia del capo di
San Secondo; martire tebeo a Victimulo, presso
Vercelli; che trasferiva a Ventimiglia, dando inizio
al culto ed a molte leggende sul santo.
-
Potrebbe
aver avuto inizio la costruzione della Cattedrale
romanica, sul terreno occupato precedentemente da
una chiesa preromanica, edificata sulle fondamenta
di una precedente bizantina o normanna, che aveva
preso il posto di un tempio pagano, dedicato a
Giunone.
.
CATTEDRALE ROMANICA
.
Il restauro che dal 1947 ha
interessato l’esterno, fino al completo racconcio
interno degli anni attorno al 1960, ha riportato
alla luce le pietre originali dell’XI secolo,
nascoste dai precedenti rifacimenti, fino a quello
del Mella, nel 1877. Le reliquie di San Secondo sono
servite per dare ai ventimigliesi qualcosa di
concreto da venerare, in alternativa all’Assunta,
patrona della città e dalla diocesi, che di reliquie
proprio non poteva fornirne.
-
994 Attorno all’anno Mille, il
Capitolo ventimigliese svolgeva le Rogazioni.
-
LE
ROGAZIONI A VENTIMIGLIA
-
996 L’imperatore Ottone confermava
l’investitura del contado di Ventimiglia ad un non
precisato rampollo di casta romana, o gallica, o
ligure-romana, per il fatto che gli eredi, negli
atti, professeranno sempre la legge romana.
-
Potrebbe
trattarsi di Corrado, figlio del conte Guidone,
autore del testamento apocrifo nell’anno 954. La
madre di Corrado sarebbe stata Eleonora, sorella di
quell’Umberto Biancamano che in Borgogna stava
guadagnandosi l’investitura della Savoia, sostenendo
Rodolfo III l’Ignavo, ultimo re burgundo.
Cinquant’anni prima la Contea intemelia era passata
dall’orbita toscana a quella arduinica piemontese.
-
997 Il nobile viennese Jocelin de
Chateau Neuf, di ritorno da un pellegrinaggio in
Terra Santa, portò in Francia le spoglie di
Sant’Antonio Abate che aveva avute in dono, pare,
dall’imperatore di Costantinopoli.
-
Le reliquie
dell’eremita tebano furono stimolo alla creazione di
una confraternita laicale degli Antoniani, che
saranno presenti a Ventimiglia, in San Michele, dove
curavano il “Fuoco Sacro”.
.
ANTONIANI
A VENTIMIGLIA
-
998 Il Concilio tenuto a Pavia, in
primavera, portava l’imperatore Ottone III° ed il
pontefice Gregorio V ad accordarsi sulla necessità
di contenere lo sfaldamento nelle proprietà della
Chiesa ambrosiana.
-
L’arcivescovo milanese Ariberto da Intimiano non
volle bandire la “simonia” nella sua giurisdizione
archi-episcopale, ma da elemento di dissoluzione del
patrimonio ecclesiastico la volle trasformare in
cespite di guadagno per la Chiesa. Decise di
impiegare i “munera”, offerti da sacerdoti
all’autorità ecclesiastica che li ordinava, nella
compera di beni terrieri per la Chiesa. Per quanto
concerne il concubinato, tanto discusso in quegli
anni, non veniva inteso da Ariberto come tale, se
rientrava negli schemi di una tradizione remota, di
origine orientale, presente nella Chiesa ambrosiana,
che prevedeva il matrimonio dei preti. Il fatto
importante era quello di mantenere ed accrescere il
patrimonio ed il potere della Chiesa arcivescovile,
nel suo complesso.
879 Si ha
notizia che Adalberto, marchese di Toscana, inviasse il
figlio, allo scopo di infeudare la Contea di
Ventimiglia, assegnatale per eredità.
-
Da un documento di papa Giovanni VIII°, Adalberto
marchese di Toscana risulta feudatario di alcune contee
in Provenza, fra le quali anche quella di Ventimiglia.
Sarebbe la conferma dell’infeudatura eseguita da
Lodovico il Pio nei confronti del padre di Adalberto,
Bonifacio di Lucca, soltanto nell’814.
-
880
Il Lionese, il Viennese e la Provenza, diocesi alpine
restate a lungo senza un re, venivano unificate da
Bosone, sotto il nome di Regno d’Arles.
881 A Milano, il vescovo Ansperto da Biassono
appoggiava l’elezione di Carlomanno a imperatore, contro
la volontà di papa Giovanni VIII, che incoronò Carlo il
Grosso.
-
Il potere dei vescovi milanesi si dimostrava sempre meno
suddito del potere romano. La nostra diocesi, tributaria
in effetti di quella milanese, ne seguiva le
disposizione, oltre al Rito Ambrosiano.
-
887
Alla morte di Bosone, il Regno d’Arles veniva ereditato
dal figlio Ludovico il Cieco e gestito da Ugo d’Arles.
-
Con la
deposizione di Carlo il Grosso, anche il titolo
d’Imperatore formalmente scomparve, ma per ottant’anni
fu tenuto in vita solo dalle ambizioni dei grandi
signori feudali dell’Italia settentrionale e della
Francia meridionale, che se lo contesero. In queste
lotte fu coinvolta anche la Contea di Ventimiglia, che
quale entità di confine, cercava l’aggregazione più
opportuna, in ogni momento.
-
888 I conti ventimigliesi avrebbero
dovuto chiedere l’investiture da Berengario del Friuli,
Re d’Italia, ma preferirono tenersi in bilico tra questi
ed il Regno d’Arles, di Ludovico il Cieco.
889 Pirati saraceni ponevano un loro
insediamento stabile al Frassineto, o Garde-Freinet, in
Provenza, presso l’attuale Saint-Tropez, base per le
loro scorrerie su tutto il litorale ed una costante
penetrazione nelle valli delle Alpi Occidentali, oltre
Susa.
-
La presenza dei
Saraceni al Frassineto, determinava una situazione
conflittuale e di estrema insicurezza sul nostro
territorio, come su tutto il Piemonte occidentale, con
frequenti disastrose incursioni ai danni di città,
abazie e scontri coi potentati locali. Sebbene, molti di
questi, sulla base di spregiudicate valutazioni, fossero
inclini a stringere alleanze e molto spesso ad affidare
ai Saraceni il controllo di taluni importanti valichi.
Nel Mediterraneo, dove era scomparsa la classe dei
grandi mercanti, sussistevano dei “negociator”
occasionali, che approfittavano di guerre e carestie per
i loro piccoli affari. C’era soprattutto chi seguiva gli
eserciti per trarne profitto e chi si avventurava lungo
le frontiere per vendere armi al nemico o fare baratti
coi barbari e gli stessi Saraceni. In contrapposizione,
nascevano i mercati, detti “forum hebdomadarium”,
fondati ovunque per tutto l’Impero. Se ne trovava
regolarmente uno ogni civitas, nei borghi, in prossimità
delle abbazie. I contadini dei dintorni, vi vendevano
“per denari”, al dettaglio ed erano anche importanti
come luoghi d’incontro. L’imperatore Carlo ne aveva
proibito lo svolgimento di domenica. Non bisogna
confonderli con le fiere annuali, che si tenevano, nei
monasteri, il giorno della festa del santo. Vi affluiva
la “familia”, che veniva da molto lontano, ed avevano
luogo transazioni di compravendita tra i suoi membri.
Quasi ovunque, la festa religiosa coincideva con la
fiera, alcune delle quali divennero molto frequentate.
-
890 Anche la popolazione di Olivula,
l’odierna Villafranca presso NIzza, dovettero
abbandonare le loro case presso la splendida baia per
trasferirsi sulle alture in un luogo denominato
Montolivo.
891 Vescovo intemelio avrebbe potuto essere:
Amatore.
-
La ripresa degli
affari, aveva spinto Carlo Magno a riorganizzare il
sistema monetario e la moneta scorreva, con esile
gettito sui mercati che si erano creati in numerose
città. Sosteneva il commercio a breve e media distanza,
alimentando un gruppo di piccoli mercanti che si
stabilirono nei “borghi” vicini ad un monastero o ad un
centro vescovile. Intanto, trafficanti più audaci ed
agiati, si stabilivano nei “portus”, nelle città dove i
traffici si incontrarono e conobbero un deciso sviluppo.
Tra questi e sicuramente da inserire Ventimiglia, porto,
contea e diocesi di confine.
-
894 Il vescovo ventimigliese avrebbe
dato in feudo al locale conte le decime di Castellaro,
Gorbio e Sant’Agnese.
895 Rilevamenti operati negli anni Settanta,
hanno accertato lo sfruttamento della miniera di
galanite nella Vallata della Beonia, presso il Monbego,
da parte dei Saraceni, nell’ultimo scorcio del IX
secolo; estraendo zinco e piombo.
SECOLO
DECIMO
ESPANSIONE DELLA CONTEA
900 La città costruita sullo Scögliu
doveva essere di una certa consistenza a giudicare
dall’ampiezza della pianta della Cattedrale preromana,
costruita in questo secolo sulla pianta di una
precedente chiesa longobarda o bizantina, edificato
sulle vestigia di un antico tempio romano.
-
906 I Saraceni del Frassineto si espandevano in
tutta la regione della Alpi Cozie e Graie, arrivando ad
occupare la regione di Tenda.
924 Rodolfo II° di Borgogna, ricacciava
gli Ungari oltre le Alpi, ripristinando i suoi territori
a ridosso dei più transitati passi alpini.
-
926 Chiamato in Italia dalla sorellastra
Ermengarda di Toscana, Ugo di Provenza avrebbe dovuto
portare un po’ d’ordine nel potere politico.
-
Ugo di Provenza
era invocato anche dal papa, Giovanni X, che mal
sopportava la tutela di Marozia, figlia della sua
probabile amante. Appena giunto in Italia, Ugo provvide
ad accecare il fratellastro Lamberto, esautorandolo dal
marchesato di Toscana che riverserà al fratello Bosone.
Provvide ad eliminare Anscario e Bosone dai marchesati
di Susa e Torino, Impose Ilduino quale arcivescovo di
Milano e costrinse Berengario d’Ivrea a riparare in
Svezia. Ma giunto a Roma, trovava Marozia appena vedova
del suo stesso cognato, Guido di Toscana, che l’induceva
al matrimonio, legandolo alla nefanda politica romana.
In considerazione ai numerosi ed articolati cambiamenti,
con feudatari di fiducia nelle Marche alpine, Ugo
avrebbe potuto imporre Guidone, quale conte di
Ventimiglia e Marchese delle Alpi Marittime.
-
928 Alla morte di Ludovico il Cieco, il
regno d’Arles veniva unificato al regno di Borgogna.
-
Fondato
nell’888, da Rodolfo Guelfo, di origine bàvara, il regno
di Borgogna, comprendeva il ducato di Trangiurania, tra
il Giura e le Alpi, oltre alla maggior parte della
provincia ecclesiastica di Besançon. Con l’acquisizione
del regno d’Arles, la Borgogna comprendeva il Lionese,
il Viennois e la Provenza; da Basilea al Mediterraneo e
dal Rodano alle Alpi. Nel 1032, verrà ereditato da
Corrado II° il Salico, re di Germania e imperatore.
-
930 Guidone, conte di Ventimiglia,
avrebbe preso in moglie Eleonora, figlia d’Ottone
Guglielmo di Borgogna e sorella di Umberto Biancamano.
931 Una flotta bizantina infliggeva una
sconfitta ai Saraceni del Frassineto.
Ugo di Provenza imponeva Ilduino a vescovo di Milano.
-
933 Il vescovo intemelio Amato, assieme al
vescovo nizzardo Amizzone, consacravano la chiesa di
Sant’Andrea, nel territorio ventimigliese.
(tra Camporosso e Dolceacqua)
Ugo di Provenza, re d’Italia, cedeva parte dei suoi
territori a Rodolfo II° di Borgogna.
935 Genova veniva saccheggiata dai
Mori del Frassineto.
Rodolfo II, re di Borgogna, metteva le mani su ampie
porzioni del territorio provenzale, estendendo i confini
al Mediterraneo.
-
Il regno di
Borgogna, usava come luogo simbolico di corte l’abbazia
di Saint-Mauriçe d’Agauno, nell’alta valle del Rodano,
non curandosi del disporre di una vera capitale. I suoi
re “Rodolfingi.”, fino ad Ottone Guglielmo del 980, si
curavano di sottomettere i territori a ridosso dei
valichi alpini, cosi da controllare i trasporti e le
merci. Dal 935, al 1032 , giunto al suo massimo
splendore occupava tutta l’ampia valle del Rodano, parte
della Provenza e giungeva fino a Nizza e le valli
retrostanti. Il figlio di Ottone Guglielmo, detto
Umberto Biancamano, sarà considerato il capostipite
della fortunata casata dei Savoia.
-
936 I Saraceni radevano al suolo Cimella,
la Ventimiglia Nervina e la villa Matuciana.
I Mori avrebbero fortificato il monte sotto il quale
sfociava il Fiume Roia, chiamato da allora Mauře, o
Mauře.
Dalla Villa Matuciana, le reliquie di San Romolo
venivano portate in salvo, a Genova.
937 Il vescovo intemelio poteva essere Mildone.
Sarebbe già stata esistente la chiesuola di San Martino
sul Resentello, sorta a fianco di una grangia monacale.
-
940 Ottone, vescovo di Vercelli,
accennava ad un Concilio, celebrato in Milano dal
vescovo Alderico, nel quale era stato presente un
vescovo di Ventimiglia, di nome Mildone; ma nello stesso
anno si sottoscriveva nel testamento del vescovo di
Vercelli, il vescovo intemelio Aldegrano.
A difesa delle Alpi Marittime dagli attacchi saraceni,
Berengario opponeva la costituzione della Marca
arduinica di Susa.
945 Genova, armata una potente flotta,
scacciava i Saraceni dalla Corsica, impadronendosi
dell’isola.
946 Ugo di Provenza, re d’Italia, organizzava
un poderoso esercito, col quale attaccava i Mori al
Frassineto, ma terminava l’avventura facendo lega coi
medesimi.
947 Moriva Ugo di Provenza, così Berengario II,
marchese d’Ivrea s’impadronì del Nord d’Italia,
facendosene re nel 950.
La marca Arduinica comprendeva il territorio che sulla costa era delimitato tra Nizza ed Oneglia, tutte le Alpi Marittime, le Cozie e parte delle Graie, comprendendo il territorio di Ivrea e verso Sud, fino al Monferrato escluso. L’assegnazione della Contea di Ventimiglia a questa marca è confermata dalla presenza, sul territorio di Dolceacqua, dei monaci benedettini provenienti dalla casa di Novalesa, che in quel periodo, avevano ricevuto un fondo ed una chiesa in feudo. Da Dolceacqua, si dipartiva una “Strada del Sale”, che dagli approdi di Mentone e Ventimiglia, attraverso i crinali che costeggiano la Roia, il Colle di Tenda ed i crinali prealpini del cuneese, portavano a Novalesa, a Susa, proseguendo per Ginevra. Dopo la liberazione dai Saraceni, lungo tutta questa “Via salis” erano presenti insediamenti benedettini, legati a Lerina ed a Novalesa. Il sale trasportato proveniva dalle saline di Lerina, di Hyers e di Peccais, nella Provenza. L’Italia settentrionale e quella centrale si trovarono saldate all’edificio imperiale da forti legami. Per la prima volta, furono deliberatamente attratte verso il centro dell’Europa; al quale guardavano anche prima, senza individuarne i nessi di collegamento e di coesione; furono costrette a volgersi verso il nord ed il nord-est, mentre la parte occidentale era attratta verso il nord-ovest. Nel frazionamento del territorio, seguito alla disgregazione dell’Impero, si formarono principati o marchesati, abbastanza vasti, che diventeranno autentici Stati. Contrariamente ad Impero e Regno, il Principato risulterà più omogeneo, corrispondente alle dimensioni dell’epoca, i dirigenti potranno valutarlo adeguatamente e trasmetterne la conoscenza in modo diretto. La Provenza diventerà Regno, mentre in Italia, il processo venne facilitato dalle divisioni politiche preesistenti. Alla nostra storia influivano da vicino i Marchesati di Toscana e d’Ivrea. Questi si spartirono i territori secondo una sfera d’influenza omogenea, predisponendo tutto l’arco litorale della Liguria, quale zona di ulteriore confine. Ne approfitterà Genova per inserirsi nei giochi di dominio.
Una più estesa utilizzazione del ferro, consentiva di disporre di strumenti più duri e resistenti, che concessero di lavorare con più energia. L’applicazione di tecniche già note, che non si erano potute sfruttare per insufficienza di mezzi ed una certa inerzia, oltre alla migliore utilizzazione dei corsi d’acqua, per far girare mulini o frantoi per l’olio, in attesa delle macine da concia, indissero a costruzioni più solide, come a deviazioni di corsi d’acqua, scavando gore e canali. L’inserimento del collare da spalla per il cavallo e del giogo per il bue, aumentando la forza di trazione permettevano miglior sfruttamento delle coltivazioni, che attraverso le prime concimazioni e con l’impiego della rotazione triennale, fornirono due raccolti in tre anni, anziché uno ogni due. L’aumento della produzione che ne derivò, favorirà le attività commerciali ed artigianali, per una diversa e migliore organizzazione economica e sociale. Fortuna volle che questo periodo non conobbe terribili epidemie, mentre penurie e carestie si facevano sempre più rare. Inoltre, l’estensione dell’uso del pane nel sistema alimentare, che dall’inizio del XII secolo diventava il nutrimento di base. Le guerre non furono particolarmente micidiali, perché agli scontri partecipavano poche persone, visto che riguardavano ed interessavano soltanto gruppi poco numerosi, lo scopo dei quali non era quello di distruggere ma di prendere ed arraffare.